*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76526 *** GUGLIELMO FERRERO LA TRAGEDIA DELLA PACE DA VERSAILLES ALLA RUHR EDIZIONI ATHENA 1923 MILANO — VIA VIGENTINA 7-9 PROPRIETÀ LETTERARIA _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._ COPYRIGHT BY G. FERRERO 1923 Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di questo 2.º migliaio che non porti il doppio timbro a secco della Società Italiana degli Autori. TIPOGRAFIA SOCIALE — VARESE PREFAZIONE _Questo libro è stato scritto per coloro, che vogliono nutrire la mente di cibi sostanziosi, non di ciarle e di parole. Se sieno molti o pochi non so. Vorrei che fossero molti; ma anche se saranno pochi, mi riterrò largamente compensato della fatica, avendola spesa per gli spiriti eletti. L’Europa muore di inanizione intellettuale. La lucerna del pensiero si spegne. I pochi che posseggono ancora un po’ dell’olio, con cui si alimenta la preziosa lucerna, hanno il dovere di mantenerla viva, anche se spiacciono ai troppi fabbricanti di bengala, che a quella pura luce vorrebbero sostituire i loro pirici lampi._ _Questo libro si compone di articoli pubblicati nel Secolo, ai quali è stato aggiunto un «Primo discorso ai sordi», in parte pubblicato nell’_«Illustration», _nella_ «Revue Universelle», _nell’_«Hearst’s Magazine», _in parte inedito; e alcuni lunghi brani, pure inediti, di un diario della pace. Spero tuttavia che non sarà un cartoccio di briciole, simile a quelli che troppo spesso si offrono ai frettolosi lettori del nostro tempo; ma un libro, nel quale i singoli saggi sono stati fusi, quanto si poteva, in una unità organica. Per fonderli fu spesso necessario o scorciarli, o allungarli, o rinforzarli di aggiunte e di attacchi. Non furono toccate le previsioni, così quelle che si sono come quelle che non si sono avverate; e degli articoli del Secolo fu indicata la data della pubblicazione, per i lettori che fossero avidi di confrontare il secondo testo con il primo._ _È stato possibile, e non troppo difficile, fondere in un tutto questi scritti, staccati nel tempo e nello spazio, perchè erano riuniti da un unico pensiero, che li legava come un filo. Credo di poter affermare senza iattanza, che tra gli uomini di penna dell’Europa, sono stato uno dei pochissimi, se non il solo, il quale dal 1914 in poi abbia pensato e scritto, non obbedendo alle impressioni mutevoli degli eventi o alla dottrina ufficiale di un partito o di uno Stato, ma seguendo una idea. Un’idea che, se è venuta allargandosi e rafforzandosi, a mano a mano che aderiva a una realtà enorme e sempre in sussulto, ha potuto in una certa misura dominarla, perchè è rimasta sempre la stessa, non curante di essere fraintesa e vilipesa dagli opposti partiti o negletta dalle volubili infatuazioni dello spirito pubblico. Chi legga senza preconcetti questo libro e i tre precedenti che hanno studiato via via gli avvenimenti dell’ultimo decennio_ — La Guerra Europea, La Vecchia Europa e la Nuova, Memorie e confessioni di un sovrano deposto — _vorrà, spero, rendermi questa testimonianza_. _Ma appunto perciò il lettore dev’essere preparato a ritrovare anche in questo libro, come nei precedenti, una inquietitudine e quasi uno spasmo, che ricomincia, si rinnova, si esaspera, invece che calmarsi, con le incessanti riprese e sorprese della terribile vicenda, a cui sottostiamo da quasi dieci anni. Anche questo spasmo è — in una certa misura — una prova di verità. Dopo avere riconosciuto nella guerra mondiale la prima delle grandi catastrofi, a cui negli ultimi anni della pace avevo veduto correre quella aspirazione a una illimitata potenza che è propria dei nostri tempi, fu facile di orientarsi, perchè bastò applicare la dottrina agli eventi, dopo aver sfrondato la storia del secolo_ XIX _delle leggende spesso puerili con cui i partiti l’avevano falsificata. Ma che tragedia! Chi, comprendendola, non sente la vertigine degli abissi?_ _Nel 1914 sembrò, per un attimo, che l’Europa volesse fare uno sforzo eroico e ritrovare la salvezza in una dottrina, antica o nuova, di austera saggezza. Ma il buon proposito non durò a lungo. A poco a poco la guerra esaltò tutte le funeste passioni, che l’avevano scatenata. «La chimera della potenza illimitata» — scrivevo nel 1916 — ha abbagliato anche i paesi latini. Molti maledicono oggi la Germania, ma con parole turbate e confuse, che, a chi le intende, la lodano invece e la magnificano. Dopo tanto sangue, dopo tante perfidie e violenze, molti nemici della Germania oscillano tra l’orrore e il desiderio di imitarla[1]». E aggiungevo: «Per ritemprarsi e rinnovarsi» l’Europa dovrà «affrontare un tempestoso periodo di disordine spirituale e di anarchia politica»; perchè una istituzione sola sarebbe emersa «intangibile da ogni rivoluzione e reazione: il suffragio universale... sovrano fanciullo, capriccioso e incosciente, bonario e crudele, facile vittima, per pochezza di mente e per rude semplicità di passioni, della furberia e della impostura».[2]_ _E allora nessuno prevedeva ancora che il sistema monarchico dell’Europa sarebbe stato distrutto!_ _Dopo la rivoluzione russa, durante le terribili prove del ’17 e del ’18, quando alla baldanza del ’15 e del 16 succedè di nuovo lo scoramento e la paura, di nuovo sembrammo porgere l’orecchio all’angelo del buon consiglio. Ma dopo l’armistizio la chimera della potenza illimitata entrò, come uno di quei diavoli di cui parlano le leggende del medio evo, nei vincitori e li fece uscire di senno. Cadute le grandi monarchie dell’Europa, spezzata l’ossatura che da un secolo reggeva l’ordine sociale del vecchio mondo, sopraffatti i sentimenti e le dottrine della democrazia e dell’umanitarismo con cui la guerra aveva alimentato il proprio ardore, dalle passioni della vittoria — risentimento, cupidigia, ambizione — l’Europa precipitò in una anarchia rissosa, travagliosa, prepotente e impotente. Chi conosca i vizi profondi della civiltà quantitativa non può meravigliarsene._ _«Tutte le autorità sono cadute» — scrivevo nel 1920 — «e perciò la sola forza governa il mondo; la forza sola e nuda, o coperta appena di qualche cencio rosso o di qualche brandello di bandiera nazionale; e governa il mondo come può, per accessi e sussulti, senza discernimento, straziandolo, perchè la forza è così debole quando è sola e nuda! Non illudetevi o uomini! i soli titoli di autorità che ancora valgono sono il ferro e l’oro. La libertà è morta, insieme con il diritto divino. A volta a volta governerà chi riesca a farsi obbedire per un’ora da centomila baionette; e a impadronirsi dei torchi ufficiali che stampano la moneta. Il fatto deciderà del diritto, non il diritto del fatto! La Rivoluzione ha finito la sua fatica: a furia di accrescere la forza dei governi a scapito dell’autorità, li ha ridotti ad essere pura forza, null’altro che forza, ossia volubilità, violenza, ferocia, sospetto, cupidigia, venalità, orgoglio, ipocrisia, odio, incapacità e debolezza... Quanti anni passeranno, prima che una autorità giusta, serena, intelligente, nobile risplenda di nuovo sull’Europa, come un generoso sole di autunno che indora e non accieca, che matura la succulenta vendemmia e non prosciuga gli umori vitali, che sfolgora il terso azzurro e non aduna tempeste!»[3]_ _Il libro, che presento ai lettori, racconta la storia di questa catastrofe e tenta di ritrovare in mezzo alle macerie la via dell’ordine, della libertà e della saggezza. Non che ci si trovi la formula della salute o, come oggi si dice, di quella restaurazione, che gli uomini di Stato promettono tutti i giorni ai popoli per l’indomani. Il male è troppo profondo, perchè chi lo conosce possa illudersi guarisca in pochi anni e per effetto di una ricetta miracolosa. La confusione e l’agitazione, in cui viviamo, dureranno a lungo. Vedremo i popoli oscillar da una parte all’altra delle dottrine più opposte, rovesciar oggi quel che adoravano ieri, per inginocchiarglisi di nuovo innanzi domani. Vedremo a volta a volta la ciarlataneria, la violenza, forse anche la pazzia, conquistare il comando, sfregiare la libertà e la giustizia. Nella storia sopraggiungono ogni tanto generazioni, che, tutte intente in qualche opera particolare spesso meritoria e talora anche gloriosa, innamorate della propria intelligenza e attratte dalla speranza di una immaginata felicità nuova, si staccano dall’esperienza dei secoli, dimenticando le regole elementari ed eterne dell’arte di governarsi e di governare. Ma proprio in queste età, spesso gloriose per altri meriti, lo Stato e la Società sembrano ricascare in infanzia. Quando i Greci si fecero innanzi, con le loro colonie, coi loro commerci, con le loro arti, con le loro filosofie, con le loro conquiste, con le perenni rivoluzioni delle loro aristocrazie, tirannie e democrazie, scompigliando il Mediterraneo nel tempo stesso in cui l’abbellivano e l’istruivano, i sacerdoti egiziani, che li osservavano dall’alta specola di una antica esperienza e saggezza, li giudicarono dei «bambini». Non accade alcunchè di simile ai nostri tempi? Giustamente, ma troppo orgogliosi della loro scienza, potenza e opulenza, essi vogliono governarsi e non sanno più che cosa sia uno Stato, un principio di autorità e di legittimità, un ordine legale, un trattato; come un governo si faccia obbedire e si regga, come si debba fare la guerra, come si possa fare la pace e mantenerla._ _Quanto questo stato di cose durerà nella civiltà occidentale, nessuno potrebbe predire. Ma è certo che non durerà eterno._ _Come il mondo antico ritornò con i Romani, dopo la capricciosa infanzia greca, alla maturità che sa governarsi e governare, così l’Europa uscirà un giorno da questa sua presente infanzia politica, piena di ingenuità, di errori e di imprudenze. Coloro che non hanno perduto interamente il senso della eterna saggezza; coloro che anche in questi tempi di anarchia vogliono sapere che cosa è uno Stato, un principio di autorità e di legittimità, quale è la forza di una legalità, come si fa e come si mantiene un trattato, preparano la futura maturità dell’Europa._ _Firenze, 14 marzo 1923._ PARTE PRIMA. L’ALBA TORBIDA DELLA PACE _Questa prima parte contiene un breve discorso sulla pace pronunciato nei primi di Gennaio del 1919, pubblicato nel Secolo pochi giorni dopo, il 14, sotto il titolo «Le baionette e l’idea»; e un articolo pubblicato nel Secolo il 7 Gennaio del 1919 sul discorso pronunciato dal Clemenceau, negli ultimi giorni di Dicembre del 1918, alla Camera, sulla Francia e la pace._ _L’uno e l’altro scritto sono documenti dei due torbidi mesi, che corsero tra l’armistizio e l’apertura del Congresso della pace, e del fermentare e smarrirsi dello spirito pubblico, che in quei due mesi incominciò. Ristampo il primo perchè è la chiave di tutto il libro, contenendone l’idea madre; la sola — a mio giudizio — che dia un senso a tutta la tragedia degli ultimi otto anni e la faccia capire: la guerra mondiale esser terminata con la catastrofe del sistema monarchico e aristocratico dell’Europa, ossia con un così inaspettato e paradossale trionfo della rivoluzione francese e dei principi del ’48 che già sin d’allora un conoscitore un po’ esperto della storia del secolo XIX non poteva non restar perplesso e inquieto. Ristampo il secondo, perchè il discorso del Clemenceau è un documento importantissimo, a cui la frivola dissipazione spirituale di quei mesi non fece attenzione. In esso si coglie sul vivo, nel suo primo movimento quasi direi riflesso, quella subitanea paura della propria inaspettata vittoria, da cui la rivoluzione francese fu presa, nell’uomo e nel governo che allora reggevano la Francia, e il suo ripiegamento frettoloso sulle tradizioni del passato: prima conferma delle perplessità esposte nel precedente discorso._ I. Le baionette e l’idea[4] La rivoluzione francese fu definita da Napoleone: «una idea che avrebbe trovato milioni di baionette». Noi potremmo capovolgere il motto e definire la guerra mondiale: «milioni di baionette che cercano un’idea». Una bella mattina, due mesi fa, ci siamo risvegliati in pieno ’48. Non è la repubblica del ’48, con il suo berretto frigio, la gonna e la giubba plebea, il codazzo di operai vocianti e di vessilli scarlatti, quella che si fa avanti nel cuore dell’Europa, tra le rovine fumanti degli imperi germanici? La bandiera rossa che sventola sul palazzo di Potsdam e sul castello di Schoenbrunn non è quella che gli operai di Parigi offrirono, nei primi giorni di marzo del 1848, alla Repubblica francese e che Alfonso Lamartine non osò innalzare sull’_Hôtel de Ville_? Di sotto ai rottami dei due imperi sfasciati, non sbucano forse al sole, liberi alla fine, i popoli e le città che il ’48 aveva tentato di redimere dal servaggio moscovita, austriaco o prussiano: la Polonia, l’Ungheria, la Boemia, Trieste? L’aquila bianca non ritorna a fare il nido nelle foreste della Polonia e il tricolore non sventola sulla vetta delle Alpi Giulie? Non sono fuggite ventiquattro dinastie; e i soldati, reduci dal fronte, non alzano sulle proprie spalle, acclamandolo sovrano del mondo, il suffragio universale? In mezza Europa la Rivoluzione convoca uomini e donne, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, a darsi una libera legge. L’Inghilterra accoglie le donne nella città politica. Il Re del Belgio, appena rientrato nel piccolo regno, ha invitato il suffragio universale a sedersi sui gradini del trono. Repubblica, Costituente, Suffragio universale, Sovranità dei popoli, Liberazione delle nazioni oppresse, Resurrezione della Polonia: tutti i sogni del ’48, crudelmente delusi per settanta anni, si compiono. Senonchè la sapienza dei popoli ammonisce che l’apparenza inganna. Tragico groviglio di controsensi, la guerra mondiale termina in un controsenso supremo. Sì, è finita la lunga guerra tra i popoli e il diritto divino, tra le dinastie e le nazioni, che dalla rivoluzione francese in poi, ha insanguinato l’Europa. Il diritto divino e il principio dinastico sono caduti con l’impero russo, con l’impero austro-ungarico e con l’impero tedesco. Il dramma, il grande dramma, di cui la rivoluzione francese fu il prologo, è finito; ma in che modo e con quali sorprese! La Repubblica è oggi acclamata proprio dai popoli che non l’avevano mai desiderata. Trionfa il suffragio universale, proprio quando tutte le forme del governo rappresentativo, di cui la civiltà occidentale ha fatto la prova, sono screditate come non furono mai. Mezza Europa si precipita in braccio alle Costituenti, per il ribrezzo e lo schifo che incutono i Parlamenti ora in seggio. Sono incoronate e collocate sul trono le nazioni, all’improvviso, trenta anni dopo che i popoli oppressi erano stati abbandonati al loro destino da tutti, dalla Poesia, dalla Scienza, dalla Storia, dalla Filosofia, dai partiti, dai governi; quando l’imperialismo, più tracotante che mai, li minacciava di nuove catene e il socialismo li consigliava a cercare altre liberazioni; quando tutti avevano cominciato a disperare. Il principio popolare e nazionale ha sgominato in questa guerra il principio dinastico ed aristocratico; ma poco meno di mezzo secolo dopo che, riconosciutosi debole, aveva conchiuso con questo una tregua; e dopo una mischia accesasi per tutt’altro motivo. La guerra mondiale è nata dalla sfida che gli imperi centrali lanciarono nel 1914 all’impero russo, antico alleato nelle guerre contro la Rivoluzione; le democrazie occidentali sono state rimorchiate in questa «guerra civile delle monarchie», ciascuna da ragioni e interessi particolari, che non figuravano punto nell’asse ereditario della rivoluzione francese. Eppure il destino ha voluto che le tre monarchie di diritto divino mordessero insieme la polvere, anche l’impero russo, che pure aveva combattuto con la parte più forte; ha voluto che le democrazie occidentali si ritrovassero ad un tratto e all’impensata vittoriose, non solo con le armi ma anche con le dottrine, di cui tanta parte avevan già ripudiata come falsa e chimerica, con il cuore e con la indifferenza se non con le labbra e con gli atti. Non si affrettano i vinti a imparare quel linguaggio arcaico del ’48, che le democrazie occidentali avevano quasi dimenticato? Drammaturgo imaginoso, la storia teneva in serbo per l’ultimo atto del dramma, incominciato con la rivoluzione francese, la più spettacolosa delle sorprese. Ma questa appunto è la ragione per cui non mi sento tranquillo e non posso a meno di diffidare. Diffidare, intendiamoci bene, non al modo di coloro che sospettano nella rivoluzione tedesca una commedia, inscenata per strappare ai vincitori condizioni migliori di pace. Non si fanno rivoluzioni per finta! Ma a rischio di far dire che il mio pessimismo è incurabile: io diffido di questo improvviso epilogo del grande dramma, perchè pare nitido e chiaro, ed è faragginoso e confuso. Si ritrova nell’epilogo il difetto che fu proprio del dramma intero: quella violenza e quella confusione di aspirazioni, reali o chimeriche, ma contradditorie, che da un secolo mettono l’Europa alle prese con tanti nodi insolubili, e la esasperano, e la trascinano, e la trascineranno giù per i precipizî di Satana, di tragedia in tragedia, di catastrofe in catastrofe, finchè gli uomini non avranno imparato a ritrovare la chiave della ragione e della equità in un più chiaro ed umano senso dei limiti. Troppe cose che combattono insieme chiedono i popoli oppressi alla libertà, improvvisamente ricuperata, per troppa parte dono grazioso della fortuna più che acquisto meritato del sacrificio. Troppe cose che non vanno d’accordo tra loro sperano i popoli vinti, dall’impeto di collera con cui hanno rovesciato le istituzioni, di cui furono, per amore o per forza, solidali nella sanguinosa avventura. Troppe cose che si negano a vicenda esigono i vincitori dalla vittoria, dimentichi che in questa guerra essi non avranno vinto davvero il nemico se non vinceranno anche se stessi! Onde i vincitori ed i vinti sembrano scambiarsi i programmi; e i vincitori balbettano un po’ vergognosi il tracotante linguaggio con cui i vinti, ai tempi delle liete speranze, sbigottivano i nemici e gli spettatori; e i vinti scimmiottano, come possono, il generoso linguaggio che fluiva così copioso dalle labbra dei vincitori, quando non erano ancora sicuri della fortuna. Perciò tutti i movimenti nazionali scivolano verso l’imperialismo come se in essi rivivesse lo spirito della Germania, che forse nella Germania agonizza. Perciò ai principi del ’48 che trionfano finalmente in Europa, si oppone — e si oppone, o ironia delle cose! proprio nella Russia — un nuovo regime aristocratico ed una nuova dottrina di privilegio. Il bolscevismo, quando esclude dal potere tutti coloro che non sono proletari, non tenta di costituire una aristocrazia a rovescio? E non rinnega, con un nuovo privilegio di classi nuove, così la rivoluzione dell’89 come quella del ’48? L’idea che milioni di soldati avevano visto scender dal cielo e porsi alla testa dei loro battaglioni, e dar il segnale dell’assalto in tante cruente battaglie, e consolare di una suprema speranza e di una suprema promessa l’agonia di tanti caduti, sembra essersi dileguata, non appena i protocolli dell’armistizio sono stati firmati. Il principio o i principî, che dovrebbero riconciliare i popoli dell’Europa sotto una legge comune, sembrano aver poca forza. La pace si annuncia come un caos di passioni e di interessi rivali, meno sanguinoso della guerra, se pure non del tutto incruento, ma non meno tempestoso. Vuol ciò dire, come molti sussurrano, che quell’idea era una vasta fantasima creata astutamente dalle ipocrite ambizioni dei governi, per illudere i combattenti? Chi ragiona così, ha occhi ma non sa leggere in questo caos; e non sa leggere in questo caos perchè ha smarrito il buon senso, forse per acquistare qualche parte di quella scienza profonda e molteplice, di cui il nostro secolo è così ricco. Ma il buon senso invece vede chiaro anche in questo caos; e dice agli uomini che vogliono e sanno ascoltarlo: «quando i governi avranno compilate le loro tabelle mortuarie, risulteranno uccisi in questa guerra non meno e forse più di dieci milioni di uomini. Un quadriennio solo ha versato più sangue che tutti i secoli dalla fondazione di Roma al principio del novecento; e per giunta ha incenerito metà delle vostre ricchezze, frutto di così lungo lavoro; ha rinnegato sedici secoli di cristianesimo, due secoli di umanitarismo, un secolo di libertà; ha rovesciato su se medesime le fondamenta dell’ordine morale e politico. Oggi dal Mar Giallo al Reno e alle Alpi, gli avanzi di tre imperi, incendiati dal fuoco greco della rivoluzione, bruciano e fumano lentamente sotto i nostri occhi; e le democrazie occidentali tremano che il vento trasporti qualche favilla di quel fuoco sul loro tetto. Voi avete scatenate tutte le forze di distruzione che sonnecchiavano nella civiltà occidentale. E se avete fatto tutto ciò chiedete a voi stessi, al presente, al passato, all’avvenire, alla saggezza dei grandi e al buon senso degli umili: possiamo noi illuderci, se non vogliamo suicidarci, che per incatenare queste forze di distruzione basti far sulla carta dell’Europa alcune rettifiche di confini, sia pure giustissime; arraffare qualche territorio di proprietà contestabile; aggiungere qualche miliardo sul conto degli indennizzi dovuti dal nemico; e ricominciar poi la gara degli armamenti e il gioco a rimpiattello delle alleanze offensive e difensive?» No: la pace è un caos, perchè l’Europa ha un’anima doppia, travagliata da un male profondo — vizio od errore, e forse nel tempo stesso vizio ed errore; e perirà, trascinando nella propria rovina l’America, se non scende nella profondità della sua coscienza, per scoprire ed estirpare questo vizio e questo errore. No: soltanto nella pace la guerra può scoprire le ragioni e quindi vincere per sempre l’orrore di se stessa. No: soltanto il giorno in cui la civiltà occidentale si accingerà con fermo e chiaro proposito a questa riforma dei suoi principî e dei suoi istituti, i milioni di baionette avranno finalmente trovato o ritrovato l’idea, per cui hanno combattuto senza saperlo. II. Il discorso e il pensiero di Clemenceau[5] Clemenceau ha parlato. Ha parlato la Francia. Noi conosciamo il pensiero ufficiale della repubblica sulla pace. Ahimè! Questo pensiero è debole, incerto, oscillante, timido e vecchio. Proprio così: timido e vecchio. Invano si cercherebbe in quello una traccia del vigore, che l’uomo e la nazione hanno mostrato nella guerra. Si direbbe che abbia paura dell’avvenire come di un abisso che gli si spalanca dinnanzi e perciò vuol ributtarsi indietro nel passato. «C’è un vecchio sistema — ha detto il capo del governo francese — che oggi sembra condannato, ma al quale io resto fedele in questo momento. I paesi hanno preparato la difesa delle loro frontiere...». Interrotto qui da uno dei soliti battibecchi parlamentari, il presidente del Consiglio ha ripreso il suo pensiero, per ribadirlo. «I paesi dunque hanno provveduto ad una salda difesa delle loro frontiere, con i necessari armamenti, con l’equilibrio delle potenze...». Nuove interruzioni, quetate le quali l’oratore ha soggiunto: «Questo sistema sembra oggi condannato da solenni autorità. Eppure io faccio osservare che se l’America, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia si fossero accordate per dichiarare che chi assalisse una di queste potenze avrebbe avuto a che fare con tutte le altre...» A questo punto una salva di applausi ha tagliato la parola dell’oratore che, sicuro di essere stato compreso, non ha indugiato per terminare la frase, la quale del resto, anche monca della sua conclusione, era chiara. «Questo sistema di alleanze, al quale — lo dichiaro subito — io non rinuncio, è il pensiero che mi guiderà alla conferenza, se la vostra fiducia mi ci manda. Le quattro grandi potenze che la guerra ha riunite, devono restare unite dopo la guerra, e affinchè restino unite, son pronto a fare i sacrifici necessari....». La pietra angolare della pace dovrebbe essere dunque un’alleanza degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia, sostenuta da armamenti preponderanti, e da frontiere ben munite, non da pezzi di carta, come le convenzioni per la limitazione degli armamenti o per gli arbitrati. Quasi a dissipare ogni dubbio il ministro ha aggiunto di lì a poco: «Quanto alle garanzie internazionali, io dichiaro che, se si lascia alla Francia il compito di provvedere alla propria difesa — perchè essa non vuol rivedere le invasioni — se essa resta arbitra dei propri ordini militari, io accetterò ogni nuova garanzia _supplementare che potrà essere aggiunta_». Il pensiero sembra chiaro. Le garanzie internazionali possono aggiungersi ma non tener le veci degli armamenti. Anche in questo dunque l’avvenire dovrebbe rassomigliare al passato. Sorga pure, sotto il nome di Lega delle Nazioni, una seconda Corte dell’Aja, in mezzo alla gara illimitata degli armamenti, archivio venerabile di inutili protocolli. Senonchè, se fino a questo punto il ministro francese procede chiaro e coerente nell’esporre il suo pensiero, sembra invece contraddirsi ad un tratto nel periodo che segue: «_Je vais plus loin; si les garanties son telles, qu’elles exigent des sacrifices de preparation militaire, je les ferai avec joie car je ne veux pas imposer à mon pays des sacrifices inutiles_». Le garanzie internazionali non sono più considerate come _supplementari_, ma come _supplettive_ delle armi; non si aggiungono a queste, ma ne fanno le veci, riducendole. Dunque, il ministro intende in un doppio modo le garanzie internazionali e considera tanto gli armamenti quanto la loro riduzione come «un sacrificio». Quando il Clemenceau dice di essere disposto, se le garanzie internazionali lo esigono, a consentire dei «_sacrifices de preparation militaire_» sembra considerare la limitazione degli armamenti come alcunchè di penoso per la Francia: un onere o una diminuzione. Invece quando aggiunge che consentirà a questi «_sacrifices de preparation_» con gioia, perchè non vuol imporre al suo paese dei «_sacrifices inutiles_» definisce sacrificio non la limitazione degli armamenti, ma ogni preparazione militare, di cui si possa fare a meno. La limitazione diventa quindi un bene. Nuova contraddizione, che riprova come su questo punto il pensiero dello statista è oscillante. Disgraziatamente quella contraddizione è la oscura nuvola sospesa sul nostro capo, in cui dorme forse più di un uragano. Il punto che l’Europa deve decidere oggi è proprio questo: se le garanzie della pace abbiano ad essere _supplementari_ o _supplettive_ delle armi; se debbano aggiungersi o farne le veci ed in quale misura; se la penna possa e in qual misura supplire la spada. Se devono essere _supplementari_ la Società delle Nazioni sarà un inutile ingrandimento dell’antica Corte dell’Aja; la guerra mondiale continuerà mutando forma ed armi; nè si potrebbe predire chi vincerà da ultimo: se i latini, i tedeschi o gli anglo-sassoni; se qualche nuova forma di dittatura, la democrazia o il bolscevismo. Qualora invece le garanzie internazionali riescano davvero a far le veci, in larga misura, delle armi, la Società delle Nazioni sarà il principio fecondo di un nuovo ordine internazionale, in seno al quale ogni popolo potrà ricomporsi. Ma è di cattivo augurio per la pace che il capo del governo francese non veda chiaro su questo punto. Tutto il discorso ribocca di un invincibile attaccamento alle vecchie dottrine politiche del secolo XIX, e nel tempo stesso di una fantasticità mascherata da realismo politico. Come credere che un’alleanza eterna tra l’Italia, la Francia, la Inghilterra e gli Stati Uniti sia altro che un sogno? Affinchè un’alleanza duri, non dirò in eterno, ma per parecchie generazioni, è necessario posi o sopra un principio, o sopra un interesse permanente, o su tutti e due. La Santa Alleanza ha durato — si può dire — un secolo, perchè posava sul principio dinastico e sull’interesse delle dinastie a difendersi, difendendolo, contro le dottrine e i partiti rivoluzionarî. Oggi invece non si vede nè il principio nè l’interesse, che potrebbero legare per cinquant’anni la quadruplice imaginata dal Clemenceau. La paura della Germania e del militarismo tedesco? Ma bisognerebbe ammettere che la Germania e il militarismo tedesco saranno nei prossimi cinquant’anni uno spavento e un pericolo come furono durante la guerra: il che non è probabile, e ad ogni modo non è sicuro. Il mondo aveva dimenticato che la integrità della Francia è necessaria alla libertà dell’Europa. La Francia ha diritto di essere sostenuta e difesa nei suoi confini storici contro la forza preponderante della Germania, che di nuovo la minacciasse, anche da una alleanza mondiale, anche a costo di una nuova gara illimitata di armamenti, anche a costo di una nuova guerra più lunga e sanguinosa di quella che or ora è finita. Ma ad una condizione: che sia chiaro esser i nuovi sacrifici inevitabili, perchè la Germania e la Germania sola si è rifiutata, apertamente o subdolamente, ad ogni ragionevole componimento ed accordo. Credo invece che la Germania avrebbe poco da temere un trattato di alleanza tra la Francia, l’Italia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, il giorno in cui entrasse nei popoli il sospetto che gli armamenti e gli odî delle nazioni continuano, non perchè la Germania, ma perchè le potenze vittoriose non hanno voluto fare i necessari sacrifici di ambizione e di forza. PARTE SECONDA. IL CONGRESSO DI PARIGI _Questa seconda parte contiene alcuni studi sul Congresso della pace che, come i lettori ricordano, si tenne a Parigi tra il Gennaio e il Luglio del 1919. Di questi studi i primi cinque furono scritti a Parigi nei mesi di Marzo e di Aprile, da me passati nella capitale francese appunto per studiare le cose del Congresso: ma il quarto solo fu pubblicato nel_ Secolo, _gli altri quattro sono nuovi, facendo parte di un_ Diario della pace _inedito, in cui scrivevo le notizie e le riflessioni di maggior importanza. L’ultimo studio, il sesto, è un articolo pubblicato nel_ Secolo _il 31 Dicembre 1919: occhiata retrospettiva all’annata e al suo lavoro per la pace._ _Ristampo questi studi tali e quali, lasciando in essi quell’apprensione sospesa per un pericolo intravisto, ma non ancora ben delineato nei suoi contorni, di cui sono pieni. I lettori vedranno in questi studi definirsi a poco a poco più precisamente i dubbi già espressi nella prima parte intorno alla fermezza e sincerità, con cui i vincitori compirebbero il loro ufficio di improvvisati campioni dell’89 e del ’48. E vedranno spuntar l’idea che mi farà scrivere un anno dopo le_ Memorie e confessioni di un sovrano deposto _e che mi sembra oggi la chiave di tutte le presenti difficoltà dell’Europa: il principio monarchico è caduto, ma il principio democratico, invece di trionfare, vacilla sulle rovine del principio rivale; onde una insicurezza universale che sembra dover durare a lungo e che richiederà rimedi più profondi di quelli a cui pensano i medici oggi in voga._ _Nell’ultimo di questi scritti è enunciato un primo e risoluto giudizio sul trattato di Versailles. Esso non è riconosciuto dai vinti come un obbligo d’onore, riposa sulla forza soltanto; è dunque un trattato di Francoforte, capovolto e di proporzioni più grandi._ I. Il Reno[6] Arrivammo a Parigi, Mario Borsa ed io, dopo un viaggio lungo e incomodo, in un treno zeppo di ufficiali, che tornavano dall’Oriente. Sentimmo tutti e due lo stesso fluido dell’aria. Sarei tentato di definirlo: l’ossessione dell’indennità. Non s’è ragionato, si può dire, d’altro. Tutti parlavano dell’indennità con una specie di gioia vendicativa e maligna, come se tutto stesse ormai nel fare una richiesta enorme, strabiliante, inaudita, ed ai tedeschi non restasse più che impegnare il giaciglio e le pentole per pagare i vincitori; come se la vittoria conferisse ai vincitori un diritto illimitato sui vinti. Ho cercato di persuadere qualche viaggiatore che se l’imporre una taglia sulla carta è facile, il riscuoterla è più difficile; che, a tirarla troppo, anche questa corda potrebbe spezzarsi. Fiato sprecato! «_Que les Boches payent, d’abord!_» È il ritornello obbligatorio. Impressione penosa e prologo di cattivo augurio. Ho paura che questo stato d’animo abbia a fruttificare grosse difficoltà per tutti. Che le riparazioni stiano a cuore ai francesi, agli italiani, ai belgi e a tutti i popoli devastati, si capisce. Ma le riparazioni appartengono al regno della materia; e noi dobbiamo ricostruire in Europa, oltre le case ed i muri, anche l’ordine. Badiamo, per la fretta di rifare le case e i mobili, di non distruggere l’ordine per un secolo: chè allora non solo le case e i mobili distrutti dalla guerra non sarebbero rifatti, ma correrebbero il pericolo di essere distrutti anche quelli che dalla guerra sono scampati! Appena arrivato, corsi, come al solito, da M.....[7] Lo trovai nel suo ufficio: un meraviglioso salone d’oro, fulgente delle più belle eleganze di Luigi XV. Gli chiesi non senza una certa trepidazione, come andava il Congresso della pace. Il suo viso si rannuvolò. «La conferenza non va — mi disse — perchè non crede in nessun principio e manca di direzione. Il solo che tenta di trovare questa direzione, è Wilson; ma è solo, è combattuto aspramente, conosce poco l’Europa, ha idee confuse, non vede chiaro egli stesso nel suo pensiero e nei suoi principî, e perciò non può far molto o almeno non può far tutto ciò che sarebbe necessario. Negli affari dell’Europa, — Reno, Austria, Boemia, Polonia e via dicendo — l’Inghilterra è assente, mezzo assonnata, senza opinioni chiare e ferme, come se si trattasse di un altro pianeta. Quando non c’è di mezzo un porto, uno stretto, un canale, una linea di navigazione, su cui mettere le mani, l’Europa non esiste. E poi Lloyd George deve correre tutti i momenti a Londra, per qualche affare interno. Uno sciopero dei suoi ferrovieri lo mette in ansie e lo tiene in pensiero più che i confini della Polonia o la sorte dell’Austria. Anche l’Italia è taciturna e passiva. Resta la Francia... Non avendo voluto accettare i principî di Wilson come un abbozzo per chiarirli, svolgerli, precisarli con le dottrine politiche che la Francia difende da più di un secolo; non avendo voluto o saputo infondere loro la chiarezza del nostro pensiero, la nostra esperienza, lo spirito costruttivo di cui una volta eravamo dotati, gli uomini che rappresentano la Francia sono stati costretti a ripiegare, più o meno consapevolmente, per trovare delle direttive, sulle tradizioni della politica francese: mescolo, come lei sa, di Antico Regime, di Rivoluzione e di Impero. Ma Wilson ha in orrore queste tradizioni. Onde lunghe e accanite discussioni, in cui Clemenceau e Wilson disputano, senza intendersi, perchè parlano un linguaggio diverso, e delle quali è spesso arbitro Lloyd George, che ha assistito alla discussione distratto, senza capir bene nè l’uno nè l’altro, pensando all’Egitto, all’Irlanda, ai ferrovieri, che ogni tanto gli giuocano un tiro birbone. Wilson spesso ha ragione, ma non sa quasi mai difendere bene il suo punto; e alla fine cede all’avversario, che, più esperto delle cose europee, più agile e pronto, lo mette all’impiccio, gli strappa una dopo l’altra le concessioni e le transazioni, imaginate troppo spesso da Lloyd George, che hanno la virtù di scontentar tutti. I piccoli popoli hanno capito a volo la discordia dei grandi, e tirano l’acqua al loro mulino, senza scrupoli. Aggiunga la questione dell’indennità, che imbroglia ancor più le faccende...». Lo interruppi per accennare a quell’ossessione dell’indennità, di cui lo spirito pubblico mi sembra schiavo; e gli dissi che mi pareva di scorgere in quell’ossessione un pericolo. «Ha ragione — mi rispose. L’avvenire dell’Europa dipende dal prezzo del riscatto che il Congresso imporrà alla Germania. Se il Congresso si sbaglia ed eccede, l’Europa sarà prima o poi _chambardée_ da capo a fondo. I tedeschi firmeranno il trattato, ma poi studieranno ogni astuzia per non eseguirlo, e faranno il possibile e l’impossibile per buttar tutto all’aria». Gli chiesi che prevedesse. «Potrebbe anche accadere che il Congresso si sciogliesse, senza aver conchiuso la pace. Speriamo di no, perchè sarebbe una calamità spaventosa. Ma anche se arriverà a conchiudere la pace, che stento sarà! _L’Europa, non può fare la pace, perchè non sa quello che vuole._ Io mi domando a volte, se non incomincia in Europa una guerra di cento anni!» * * * Da due settimane ogni giorno ha confermato le previsioni dell’amico. Questo Congresso è la Torre di Babele rifabbricata ai piedi di Montmartre. Da due settimane mi pare di penetrare tutto quanto, con il corpo e con la mente, nel più intimo e profondo senso filosofico del racconto biblico. Ogni giorno odo le lingue del genere umano confondersi ai piedi della torre, che l’orgoglio e la leggerezza umana hanno edificata. Non mi ero, purtroppo, ingannato punto, quando avevo visto nel discorso di Clemenceau sulla pace un segno di stanchezza — sua e della Francia. L’antico trionfa sul nuovo; il passato risorge dalla tomba per strangolare in culla l’avvenire. Povera Lega delle Nazioni! Qui a Parigi tutti, inglesi e francesi, ce l’hanno a morte con Wilson. Si accusa il presidente americano d’essere tenero della Germania, di non rendere giustizia alla Francia, e ai suoi sacrifici, di guastare, impacciare e paralizzare il Congresso, con le sue ideologie di professore e di protestante, di voler imporre all’Europa la Lega tra le Nazioni, che è una utopia ridicola; di essere un ignorante, un visionario e un primaire. A volte mi domando se è questa la città che poco più di due mesi addietro intesseva per il presidente Wilson tante ghirlande. È mutato il vento dell’opinione popolare? O quelli che oggi lo vituperano tacevano allora? Si sente nell’aria che forze occulte e potenti hanno agito sull’opinione pubblica per irritarla contro il presidente. Napoleone, scoperchiata la tomba degli Invalidi, presiede la conferenza, mentre Wilson si nasconde ormai esautorato e impotente nel suo palazzo della _Place des Etats-Unis_. Sul Reno e nell’Europa la pace porterà il sigillo dei Bonaparte. Wilson riuscirà ad imporre qualche addolcimento: quanto basterà per imputare a lui, di qui a qualche anno, tutte le delusioni di questa pace in ritardo. Si cercherà di disarmare la Germania, come Napoleone tentò di disarmare la Prussia, togliendole le armi che ha e proibendole di fabbricarne delle nuove. Si cercherà di minare sotto sotto, se sarà possibile, la sua unità. Si cercherà di creare sul suo fianco orientale una _forte_ Polonia, una _forte_ Boemia, una _forte_ Rumania, una _forte_ Jugoslavia, come se la forza di questi stati dipendesse dal volere e dall’interesse delle grandi potenze che hanno vinto la Germania e che vogliono mettersi al sicuro dalle sue vendette; come se nessuno di questi stati, dopo essersi fatto, con il nostro aiuto, le ossa e i muscoli, non potesse tradire i suoi protettori e passare al nemico. Si studieranno insomma delle combinazioni più o meno artificiose di forze, simili a quelle in cui si ostinò si illuse e si suicidò il grossolano empirismo di Napoleone; e a cui dovrebbe servire di ragione l’interesse degli stati che le fanno. Come se uno stato potesse esistere soltanto per il comodo e l’utilità d’un altro! «Ma crede lei — mi accade di ripetere quasi ogni giorno a questo e a quello dei numerosi artefici della pace, maggiori e minori, che mi vien fatto di incontrare — crede proprio che i tedeschi, i ruteni, i lituani, condannati ad arrotondare a loro dispetto i territori della nuova repubblica polacca; o i tedeschi, gli ungheresi, i ruteni che la Boemia riceverà in dono, e tutti gli altri allogeni che la Conferenza vuol consegnare ai nuovi stati dell’Europa orientale senza una carta, senza uno statuto, senza una garanzia e per nessun’altra ragione, se non perchè così torna comodo a questi stati e alle Potenze che oggi compilano il trattato di pace, obbediranno? Un Governo si regge parte per la forza e parte per il consenso, per un sentimento sincero del grande numero, che riconosce come legittimo il comando e doverosa l’obbedienza. Questi due elementi — forza e consenso — devono incontrarsi ed integrarsi, perchè ciascuno è impotente da solo. Il consenso cederebbe presto, anche nei popoli più docili, all’istinto della rivolta, se la forza non stesse all’erta pronta a reprimerlo appena leva il capo. Ma neppur la forza sola, senza l’aiuto del consenso spontaneo, non riesce a governare. Nessun stato può mettere un gendarme a fianco di ogni uomo, il quale non si riconosca obbligato ad obbedirgli, perchè professa una religione diversa, perchè parla un’altra lingua o perchè ha la pelle tinta di un altro colore. Crede lei, per citare solo questo esempio, che i tedeschi di cui il Congresso vuol far dono ai polacchi e ai boemi riconosceranno per legittima e si sentiranno in coscienza obbligati ad obbedire alla repubblica del professore Masaryk e del pianista Paderewski? «L’ordine che il Congresso di Vienna impose all’Europa non ha durato che 44 anni; e qualche strappo, come nel Belgio per esempio, l’aveva già ricevuto prima del ’59. Eppure un secolo fa il prestigio delle Corone era così grande, che in ogni paese un re, quali fossero le sue virtù o i suoi vizi, poteva farsi riconoscere per un sovrano legittimo, mandato da Dio. Tanto è vero che, per indurre i popoli a gettare quelle Corone nella Neva, nella Sprea e nel Danubio, c’è voluto un secolo di lotte e di guerre, il risveglio del sentimento nazionale, il fermento delle idee liberali e democratiche, l’incredulità quasi universale, un immenso rivolgimento della ricchezza e una rovina apocalittica. Ma oggi? Oggi il solo crisma che abbia forza di attribuire ad un Governo il carattere sacro di autorità legittima è lo spirito nazionale. Il Congresso non è il Papa del Medio Evo: può assegnare dei territori; non può dispensare patenti di legittimità. I polacchi ed i boemi obbediranno al proprio Governo: non i tedeschi, gli ungheresi, o i ruteni al Governo, per essi straniero, dei polacchi e dei boemi. Di fronte ai popoli allogeni i nuovi stati non avranno che un titolo di autorità: la forza». «Nè basta: siete poi sicuri di quello che fate? Anche ammesso che questi sudditi incorporati a forza irrobustiscano davvero la gracile complessione dei nuovi stati, resteranno poi tutti fedeli al giuramento di odiare fino all’estremo sospiro il nome tedesco? «Gli umori dei popoli, come le inclinazioni degli stati, non sono eterni: esempio, il Piemonte. Il Congresso di Vienna aveva sprangato con il Piemonte le porte d’Italia in faccia alla Francia. Anzi perchè la spranga fosse più robusta, la aveva saldata con i territori della repubblica di Genova: quella astuta e intraprendente repubblica, che nel seicento e nel settecento aveva sempre fatto parte a sè; che era stata l’alleata e il banchiere della Spagna nella guerra dei trenta anni. E il calcolo riuscì. Per trentatrè anni il Piemonte fece la guardia sulle Alpi, sentinella vigile della Santa Alleanza contro la Francia. Ma un bel giorno, nel ’59, la sentinella invece di chiudere le porte d’Italia alla Francia, le aprì, e lasciò passare un esercito francese, perchè l’aiutasse a scacciar l’Austria dalla valle del Po e a diroccare l’ordine di cose costituito dalla Santa Alleanza in Europa». «Non sarebbe savio far tesoro di questo insegnamento? Riordinare il mondo cascato nel caos, creare stati nuovi, dire ad uomini, che sino a ieri furono un gregge di sudditi: «da questo momento siete un popolo, levatevi e governatevi», non è forse esercitare sulla terra un frammento della potenza divina? Ma un popolo non diventa da un giorno all’altro Dio o Semidio solo gonfiandosi nel suo orgoglio, o ripetendo sino a ubriacarsi: «Noi siamo i vincitori, i vincitori... i vincitori». Uno stato non può sussistere per la sola virtù della forza; gli occorre anche un’anima: o una tradizione, o una dottrina politica, o un principio giuridico, o una fede religiosa, o una passione nazionale. I due scalpelli che deve maneggiare lo scultore di stati sono la spada e la penna. Con la spada sola e con la sola penna non si scolpisce che qualche sgorbio....». Fiato sprecato! Questi discorsi sono avidamente ascoltati e capiti solo dagli estranei al Congresso. Quando li tengo a qualche membro, illustre od oscuro, della Conferenza, mi pare di discorrere, io nella mia lingua ed egli nella sua, con un tibetano. Entrando in quella che chiamerei la zona del Congresso, mi pare di trovarmi come isolato in un vuoto, in cui del mondo troppo lontano non giunge più che qualche rumore affievolito. È una illusione mia? O costoro sognano, e impostano sotto forme di stati nuovi delle ipotesi, che il tempo rovescierà? Ma non è questo il peggio. Il Congresso brancola e tasta la strada col bastone, come il cieco, proprio là dove dovrebbe veder più chiaro e procedere più risoluto. La Francia ha vinto la Germania, ma con l’aiuto di una coalizione mondiale. A sua volta la Germania, se è stata vinta da una coalizione mondiale, ha distrutto l’impero russo; e se non si vuole o non si può smembrarla, a lei spetteranno le spoglie opime di questa vittoria sul grande impero slavo: il primato del numero. La Germania, restando unita, sarà la nazione più numerosa dell’Europa, sinchè la Russia non risusciti, anche se non riuscirà a incorporare in sè i tedeschi dell’Austria. E poichè la Germania ha provato di saper adoperare la forza del numero molto meglio della Russia, neppure questa terribile guerra ha tolto via dal centro dell’Europa quello squilibrio di forze, che fu lo spavento e il tormento della nostra generazione. Alcuni vogliono persino che l’abbia accresciuto. E il Congresso che siede appunto per restaurare questo equilibrio, che cosa pensa di fare? Vengon i brividi a pensarlo! Vuole innanzi tutto ricorrere al grossolano empirismo di Napoleone, disarmando la Germania con una ingiunzione unilaterale, sorretta da un diritto perpetuo di vigilanza sullo stato tedesco. Sembra incredibile, eppure è vero. Francia, Inghilterra, Italia, America, Giappone insieme non hanno saputo trovare altra garanzia di pace fuorchè questo rozzo e screditato espediente, il quale fallì già clamorosamente più di un secolo fa! Eppure chi non lo vede? Le amputazioni territoriali e le taglie di guerra possono fare strazio del corpo e della carne di uno stato: il disarmo unilaterale e la sorveglianza ledono l’autonomia e l’indipendenza, feriscono l’anima. Costretta a rendere l’Alsazia, la Lorena, la Polonia, e financo ricacciata sulla sponda destra del Reno, la Germania sarebbe sempre uno stato, eguale a tutti gli altri stati europei. Disarmata in mezzo ad una Europa padrona delle proprie armi e vigilata, degraderà a stato protetto, come la Persia o poco meno. E c’è al governo del mondo gente così stolta da credere che un popolo in armi fino dagli albori della storia, che la più formidabile potenza guerresca di tutti i secoli deponga umilmente e per sempre la spada, solo perchè i signori Clemenceau, Lloyd George, Wilson e Orlando hanno fatto un cenno? Bisogna riconoscere che i calzolai del 1815 conoscevano il mestiere meglio dei ciabattini del 1919! Nel 1814 l’Europa doveva sciogliere un nodo simile a questo. La Francia era stata vinta da una coalizione; ma era pur sempre la prima lama del mondo, poichè avrebbe potuto sconfiggere, da sola a sola, tutti i suoi nemici, che soltanto insieme e a fatica l’avevano debellata. Che cosa fecero gli uomini, anzi i tiranni della Santa Alleanza? Imaginarono forse di fare protetta e ancella dell’Europa, la nazione, che per tanti anni era stata l’arbitra? No: si intesero per mantenere la pace e per difendersi, reciprocamente, in caso di attacco, dando però nel tempo stesso l’esempio della moderazione, rinunciando alle ambizioni pericolose, limitando gli eserciti; e inclusero in questa intesa la Francia, incatenandola senza umiliarla. Senza aver troppo l’aria di mischiarsi nelle sue faccende interne, l’aiutarono a ricostituire un governo, il quale dovesse sperare più dalla pace che dalla guerra. Riuscirono a mettere di guardia al trattato di pace se non la Francia tutta, una parte almeno; e proprio quella che per più di trenta anni tenne il potere. Così bisognerebbe fare adesso, anche se sia più difficile. Ma chi ci pensa? Chi vuol sentir parlare di coteste utopie? L’Inghilterra è persuasa che, tolte le armi alla Germania, non avremo da temere più nulla. La Francia invece è più scettica; non vuol affidarsi al solo disarmo e chiede una giunta: la garanzia _fisica_ del Reno. In che cosa dovrebbe consistere questa «garanzia fisica» del Reno? Seguendo i consigli del maresciallo Foch, il governo francese ha rifatto sua e illustrato in parecchie memorie l’antica dottrina romana: che il Reno è la difesa di tutta l’Europa meridionale e occidentale contro i Germani; che la Germania minaccerà non la Francia sola, ma l’Italia e l’Inghilterra, sinchè possegga sulla riva sinistra del Reno un ampio e popoloso territorio, in cui preparare vaste imprese di guerra a mezzogiorno e ad occaso; che i ponti del Reno sono le porte di casa nostra — di tutti noi, abitanti dell’Europa meridionale. Di questi principî, che la storia e l’arte militare riconoscono veri, il governo francese non si fa forte, come dicono molti, per esigere la riva sinistra del Reno. Quale governo oserebbe chiedere all’Europa per proprio scudo, alla fine di una così terribile guerra, un’Alsazia-Lorena ingigantita e a rovescio? Il governo francese propone che il trattato di pace stacchi dalla Germania i territori tedeschi posti sulla sinistra del Reno, li costituisca in uno o più stati indipendenti, e vieti loro di conchiudere con la Germania trattati di alleanza e di unione doganale. Ma l’Inghilterra e l’America non vogliono sentir parlare di questa «garanzia fisica»; ed hanno ragione, come i francesi hanno ragione di non fidarsi troppo della «garanzia militare» del disarmo. Che l’Europa meridionale sarebbe sicura, il giorno in cui la Germania rivalicasse il Reno, chi può dubitarne? Da Ariovisto in poi, tutta l’Europa meridionale è stata inquieta e in pericolo, quando ai tedeschi è riuscito di metter piede sulla riva sinistra del Reno. «Non oltrepassare il Reno, ma difenderlo a oltranza»: aveva raccomandato Augusto, morendo, ai suoi successori; i quali avrebbero fatto bene a non dimenticare mai, per venti secoli, il solenne consiglio di colui che fu forse il più grande dei Romani. Ma poichè l’hanno dimenticato troppe volte, è venuto proprio adesso il momento di rinfrescare nella memoria degli uomini e dei governi d’Europa, quel canone di antica sapienza? Basterebbe separare con l’inchiostro, in un trattato, i tedeschi di qua e i tedeschi di là del Reno, per cancellare dalla storia quell’oblìo e le sue conseguenze? Molti francesi pensano oggi che la Francia sarebbe sicura _in aeternum_ se le frontiere occidentali della Germania fossero tracciate al Reno. Ma ho paura che anche questa sia un’altra allucinazione della nostra epoca. Se ci fosse domani una repubblica renana indipendente, essa sarebbe dilaniata da due partiti: uno favorevole al nuovo ordine di cose, l’altro avverso e legato con il pangermanesimo. I due partiti si farebbero asprissima guerra con la parola, con la penna, con le bombe; cercherebbero di far leva con tutte le passioni e tutti gli interessi; e la Francia sarebbe inquieta per la malsicura fedeltà della repubblica, che dovrebbe farle da scudo, come è inquieta oggi per i torbidi umori della Germania tutta. Il Reno sarebbe un baluardo inespugnabile di Roma e di tutti i suoi figli, se le popolazioni rivierasche volessero far corpo con noi, ed essere l’avanguardia dell’Europa meridionale contro le invasioni germaniche; o se noi fossimo in grado di costringerle con la forza ad essere la nostra avanguardia. Ma chi può illudersi, in tanta esaltazione delle passioni nazionali, che le popolazioni tedesche vogliano fare la guardia al Reno contro il germanesimo; o che noi possiamo costringerle a difenderci, neppure con il disperato espediente di una annessione? Sinchè il principio nazionale regnerà così forte, una repubblica tedesca sarà, contro la lancia acuminata del germanesimo, un povero scudo di cartone. Purtroppo, con la rivoluzione francese e con il movimento nazionale che essa ha generato, i tedeschi hanno riconquistato, nel secolo XIX, la riva sinistra del Reno, che i loro antenati avevano conquistata e colonizzata nei secoli della grande rovina romana! Mi sbaglierò: ma per riconciliare la Francia e la Germania entro il rifatto consorzio europeo non ci sarebbe che un mezzo: tentare una specie di Santa Alleanza dei popoli, o, per parlare un linguaggio meno mistico, tentare un sistema universale di mutue garanzie e di reciproci controlli, nel quale la Germania fosse inclusa a condizioni pari. Wilson ha buttato sulla carta un abbozzo di questo sistema. Ma della Lega o Società delle Nazioni tutti ridono! Più pratico questi restauratori del mondo o architetti di Babele — come chiamarli non so — più mi sbalordisce la singolare allucinazione, in cui sono fissi. Nel considerare la guerra e la pace, essi non tengono conto che degli elementi favorevoli. Chi non sa che in tutte le cose umane non c’è mai bene senza male, vantaggio senza inconvenienti, attivo senza passivo; e che l’uomo di stato deve saper fare la differenza? Questi allegri computisti fanno invece il loro bilancio sommando soltanto i crediti e cancellando i debiti! La caduta dell’impero d’Austria libera l’Italia da un vicino potente, ma ci obbliga ad assestare le cose adriatiche diversamente dai nostri piani antichi. Niente affatto: noi vorremmo goderci tutti i vantaggi della sparizione dell’Austria e stabilirci sulle due rive dell’Adriatico, come se sulle rovine dell’impero degli Absburgo non fosse sorto uno stato slavo, nazionale di forme e di spiriti. La caduta della monarchia in Germania è l’ultimo e più clamoroso trionfo della rivoluzione francese; ma rafforzerà l’unità tedesca, perchè il particolarismo in Germania si è sempre immedesimato con il principio dinastico. I vincitori non ci sentono da questo orecchio, e sognano che la sconfitta distrugga l’unità tedesca, perchè così fa comodo a lor signori! Noi abbiamo vinto la Germania, ma la Germania ha vinto la Russia. Eppure qui nessuno ci pensa. Ragionano tutti come se la Russia posasse ancora il suo pesante stivalone sul petto della Turchia. Senza la Russia forte in Asia, potremo noi tenere Smirne? II. La nuova infanzia del mondo[8] Talleyrand, Talleyrand! Nessun miracolo ti può resuscitare? Tutta la tua sapienza è stata dunque dispersa, come la cenere di un rogo, dal vento del secolo decimonono? Solo il ricordo delle colpe e dei vizi doveva sopravvivere di te? Mi hanno mostrato questa mattina una carta dell’Ungheria con le amputazioni che si vogliono fare, per «darle una buona lezione». Sono rimasto di sale. Ma questa gente crede proprio sul serio di essere stata delegata a punire popoli e stati da una luogotenenza generale della giustizia divina sulla terra? L’Ungheria è uno stato millenare; una unità storica e geografica, stagionata dai secoli e legata internamente da forze di coesione che nè la penna, nè la spada possono sciogliere da un giorno all’altro. In ogni tempo e luogo una ragione di stato, che non fosse smaniosa di seminare tempeste e terremoti, si sarebbe fatta scrupolo di spezzare e di mutilare, senza gravi e ben ponderati motivi, questa unità a profitto di stati antichi e nuovi, perchè il bene fatto a questi popoli pesa troppo poco a paragone del male fatto a quella. Anche non ricevendo tutti i territori ungheresi reclamati con titoli più o meno legittimi, la Boemia, la Rumenia, la Jugoslavia non potrebbero lagnarsi della guerra e considerarsi vittima dell’altrui prepotenza: se le sarà tolto tutto ciò che l’Intesa vuol toglierle, l’Ungheria maledirà i vincitori, si considererà come una vittima, sognerà vendette e riscosse, cospirerà in permanenza contro la pace, farà lega, aperta o segreta, con tutti i nemici dell’Inghilterra e della Francia. Questa sola considerazione avrebbe dovuto consigliare moderazione e prudenza, a uomini di stato, i quali non si credano investiti del potere di rifare in un giorno quel che la storia ha fatto nei secoli. Ma non basta. Quando mezza Europa è in dissoluzione, è savio distruggere con la forza uno dei pochi stati, che avrebbe ancora la forza di reggersi per coesione interna? O il Congresso della pace, come il Nerone della leggenda, vuole godersi dalla cima della torre Eiffel lo spettacolo del mondo che brucia? Ho esposto questi pensieri a un uomo politico francese di molta coltura, di grande acume e che conosce bene l’Europa. Mi ha detto: «_vous avez raison; mais les Hongrois ne sont pas interessants_». Talleyrand è morto; e non risusciterà. Non risusciterà, perchè il mondo vuole l’ordine a parole, e il disordine a fatti; e vuole il disordine, perchè è ridiventato bambino. Proprio così. Un secolo fa l’uomo si imaginò di essere giunto alla maggiore età; e distrusse tutte le tradizioni, le dottrine politiche, i principî giuridici, le credenze religiose con cui e per cui gli stati si reggevano. Sapeva però ancora che uno stato e un ordine sociale non possono durare senza principî e credenze; e aveva distrutto gli antichi perchè era persuaso di averne scoperti dei nuovi, più veri e più giusti, e di poter con questi creare un ordine di cose nel quale gli uomini sarebbero stati più felici. Ma nel grande tramestio del distruggere gli antichi e del creare i nuovi principî, nacquero delle guerre; e in queste acquistò fama e credito un giovane ufficiale, nato in una isola aspra e selvaggia del Mediterraneo. Aveva grande ambizione, quel giovane guerriero, una smisurata presunzione che i successi precoci gonfiarono, pochi studi, nessuna dottrina, grande astuzia e conoscenza delle piccole passioni che muovono i singoli uomini, nessuna profonda conoscenza delle correnti spirituali che vivificano gli stati e muovono i popoli, molta prontezza e fiuto e intuito approssimativo delle cose... In quella epoca torbida, in cui molti non credevano più nè ai principî antichi nè ai nuovi, nè agli idoli in piedi da secoli nè a quelli eretti allora allora, venne a questo guerriero fortunato il pensiero infantile di dire agli uomini che, poichè non credevano a nulla, credessero a lui; che egli con i suoi soldati, con il suo denaro, con le sue idee, con il suo genio basterebbe a far le veci di tutti quegli elementi spirituali che _ab aeterno_ erano stati l’anima degli stati; che egli da solo con la sua penna e con la sua spada vincerebbe e distruggerebbe stati e popoli, imperi e regni, repubbliche e religioni. E molti scambiarono i fuochi di bengala che le vittorie accendevano intorno alla sua persona per il nimbo di un vero Dio; cosicchè, abbagliati dalla gloria o allettati dai premi, gli credettero e lo seguirono. Non fu la politica di Napoleone una improvvisazione tumultuaria e confusa di combinazioni instabili, che non avevano altra ragione se non l’interesse politico della sua persona, della sua famiglia, della Francia, come egli lo giudicava a volta a volta — e Dio sa se in questi giudizi era capriccioso e volubile? Una improvvisazione tumultuaria e confusa della forza, sempre sorpresa e delusa dagli effetti delle sue combinazioni e sempre in lotta con quelli? Una improvvisazione tumultuaria e confusa della forza che, cercando di servirsi, con eguale indifferenza, dei principî antichi e dei nuovi, confondeva, screditava e indeboliva gli uni e gli altri, preparando l’anarchia universale per il giorno in cui la forza, di sua natura instabile, sarebbe venuta meno? Vedetelo all’opera in Italia. Entra come un uragano; rovescia a furia di decreti non solo gli antichi stati, ma, come Lenin in Russia, tutte le leggi, su cui riposava l’ordine sociale da secoli; spoglia e spossessa la Chiesa e la Aristocrazia; raccoglie in fretta e furia una nuova classe governante tra gli elementi più loschi, mettendo a capo di questa quei Commissari della repubblica, che si direbbero proprio i fratelli maggiori dei Commissari di Lenin e che ad ogni modo hanno con questi un’aria manifesta di famiglia; divide, impasta, rimaneggia territori. Quale è il naturale effetto di questo frenetico rimescolamento? I piemontesi, i lombardi, i veneti, sinchè erano governati ciascuno dal Re di Piemonte, dall’Impero, dalla Serenissima, dalle aristocrazie e dalle istituzioni secolari, a cui tante generazioni avevano obbedito, vivevano tranquilli, contenti ciascuno del proprio governo particolare, non pensando neppure che potesse essere mutato. Ma quando Napoleone ebbe mostrato loro, distruggendoli, che anche i governi più antichi potevano essere distrutti; che la forza poteva da un giorno all’altro fare e disfare le istituzioni dei paesi, incominciarono subito a pensare quale sarebbe la forma dello stato più conveniente per essi, e a chiedere l’unificazione della valle del Po gli uni, della penisola tutta gli altri. C’era da aspettarselo. Per quale ragione, per esempio, i piemontesi che tanti secoli avevano vissuto sotto lo scettro dei Savoia, dovevano ora obbedire gli uni alla Francia, gli altri far parte della Cisalpina o del Regno italico? O ciascun popolo sotto gli antichi governi e le antiche istituzioni, o tutti uniti in un solo stato nazionale: non c’era terreno solido e posizione stabile tra i due corni di questo dilemma. Ma Napoleone, che aveva fatto dell’unità una necessità vitale distruggendo in Italia i governi e le istituzioni particolari in cui era da secoli divisa, non ne vuol sapere, perchè quell’unità avrebbe disturbato la sua politica e molestato la Francia; e grida, strepita, va in furia contro le conseguenze naturali della sua politica. «La Cisalpina è per me una posizione offensiva contro l’impero e la casa d’Austria» — dice un giorno al duca Melzi, che gli espone i lagni e i desiderî degli italiani. Una civiltà immortale, un popolo vecchio di duemila anni, e pur giovane, che era stato per secoli il maestro dell’Europa, le sue tradizioni, le sue istituzioni, il suo passato, il suo avvenire, non sono più, nel suo pensiero, che una «posizione offensiva», un bastione, una trincea, una casamatta, nella guerra tra lui, Napoleone, e la Casa d’Austria! Chi avrebbe potuto governare un paese di antica civiltà con queste dottrine? E difatti Napoleone tormenta per più di dieci anni l’Italia; la maltratta e la benefica; la umilia e la rafforza; le regala stati e corone, strade e leggi; le insegna a maneggiare le armi. Vana fatica, lavoro di Sisifo! Appena la sua potenza vacilla, l’Italia rinnega e maledice, non ostante i beneficî ricevuti, l’uomo che aveva voluto governare il mondo, senza sapere che anche gli stati hanno un’anima oltre il corpo, e che se la forza ha giurisdizione piena sul corpo, poco può sull’anima. Napoleone sparisce, lasciando alla Francia, sola eredità della sua dominazione in Italia, un odio non spento neppur oggi, dopo un secolo. E in Germania, Napoleone e la rivoluzione francese non son forse il padre e la madre dell’impero tedesco, tormento e spavento del mondo? Distruggendo egli stesso, aiutando l’Austria e la Germania a distruggere l’antico ordine di cose, Napoleone non ha liberato le tempestose energie di quel popolo, che quell’ordine aveva incatenate? Volendo fare della Germania uno strumento della propria fortuna, non ne ha fatto il martello e il flagello della Francia? Quest’uomo è sembrato a molti un gigante perchè l’hanno giudicato alla stregua del destino comune degli altri uomini, anche dei più grandi, come se tra la fortuna di un uomo e la sua grandezza spirituale ci fosse una proporzione, che non c’è quasi mai. Ma per la giusta misura, occorre paragonare ciò che ei volle, sentì, disse e fece con i doveri che la natura degli uomini e degli stati impone a coloro che li governano: e allora apparirà una specie di Dio fanciullo che, per divertirsi nei suoi giochi favoriti, tenta di distruggere _in aeternum_ l’ordine del mondo, e non lo sa, e crede d’essere un Dio serio e adulto, il quale regga il cosmo con sapienza adorabile! In tutta l’opera sua c’è qualche cosa d’infantile, che riconduce i tempi alla prima fanciullezza della storia. Infantile era l’illusione che l’ammirazione e la paura del suo genio e dei suoi soldati potessero far le veci, e non in Francia soltanto, ma in mezz’Europa, delle mille anime secolari e originarie degli stati europei. Infantile era l’illusione che egli avrebbe potuto improvvisare una nuova dinastia sul terreno dell’Europa già minato sotto dalla rivoluzione; e farla sacra e inviolabile agli occhi di tutti con il doppio crisma della polvere da schioppo e dell’acqua santa. Infantile era l’illusione che dieci secoli di storia si inchinerebbero come lacchè al suo comparire e gli farebbero largo, in tutta Europa, affinchè egli potesse salire sopra un altissimo trono improvvisato dai suoi soldati e di lassù largire con un gesto all’Europa e al mondo una felicità nuova. Infantile era l’illusione che i popoli da lui taglieggiati, tiranneggiati, dissanguati per arricchire e ingrandire la Francia, dovessero essere felici di immolarsi per lui; ammirare non solo lui ma tutti i suoi fratelli e le sue sorelle; e scambiare allegramente il proprio oro e il proprio sangue con qualche frase retorica di dubbio gusto. Abbagliati o violentati o allettati, i tempi, già disorientati dalla rivoluzione, ricascarono rapidamente in infanzia sotto questo Dio fanciullo; e giocando ogni giorno con quel Dio a creare con la forza degli stati nuovi senza anima, si sarebbero alla fine dissolti tutti in una selvaggia anarchia, se l’Europa a un certo momento non si fosse scossa, per ritrovare con la propria virilità un ordine coerente e duraturo. Il Congresso di Vienna salvò l’Europa dalla anarchia, a cui il regime napoleonico l’avrebbe necessariamente condotta con quella moltiplicazione di stati chimerici. Il Congresso di Vienna, oggetto per un secolo di tante stolide declamazioni ed accuse, io non l’ho capito che in questi mesi, dopochè ho veduto il Congresso di Parigi. O Mani di Talleyrand, di Metternich, di Luigi XVIII, di Guglielmo Federico III, di Alessandro I: che cerimonia d’espiazione vi dovrà un giorno l’Europa, se mai le accada di uscir di questa senilità che l’ha rifatta bambina! Ma quel lucido intervallo di saggezza durò poco. Ben presto l’Europa ricascò nell’infanzia e quindi nel culto del Dio fanciullo; raffigurò e ammirò in lui la propria cecità politica, le ambizioni impazienti, l’arrivismo senza scrupolo, la fatuità, la prepotenza arbitraria e capricciosa degli uomini e delle classi nuove, che via via, di generazione in generazione, salivano al potere nel disordine dei tempi, senza preparazione, e che imaginavano di poter fare tutto appunto perchè non avevano mai fatto nulla, e perchè la loro ignoranza e impreparazione non conoscevano i limiti del potere. Napoleone doveva essere l’idolo di tutti i parvenus del secolo — che sono milioni e milioni! Onde il suo spirito domina il Congresso, dove son tutti dei Napoleoncini in borghese, dai rappresentanti dei piccoli stati ai capi dei grandi; e s’immaginano di poter come Dio crear popoli e stati a piacere con la matita; e seminano, come Napoleone un secolo fa, spensieratamente a piene mani, tempeste. Napoleone e Nietzsche: questi due nomi mi tornano spesso alla mente insieme. Non è Nietzsche il Napoleone del pensiero moderno: formidabile nel distruggere, infantile nel costruire? Non ha rovesciato dalle fondamenta l’edificio dei tempi per giocare tra le sue rovine con dei tirannelli di piombo, come i bambini giocano sul pavimento o sulla tavola con soldatini di Norimberga? Napoleone è l’eroe, Nietzsche è il pensatore di una civiltà cascata in infanzia, e che ormai precipita addirittura nel così detto attivismo, nella filosofia dell’azione per l’azione, ossia del gioco.... I fanciulli si distinguono dagli adulti appunto perchè saltano, gridano, corrono per saltare, gridare, correre e non per uno scopo: agiscono dunque per agire, e non per ottenere qualche effetto preciso; sono attivisti, come il secolo nostro... No, l’Europa non avrà pace, perchè non la vuole, perchè vuole e cerca il disordine, illudendosi di poter dominarlo e costringerlo a servire, come un docile servo, le proprie passioni. Così finisce la tragedia di un secolo, che ha fatto grandissime cose, ma che ha falsificato tutti i metri, rimbarbarita l’arte di governare, smarrito il senso dei limiti e la nozione del bene e del male. Il Congresso di Vienna, che volle davvero ristabilire l’ordine, seguì un principio, che era antico, ma vivo ancora; e seppe distinguere abbastanza bene il possibile dall’impossibile, anche se qualche volta si sbagliò nel fare i suoi conti. Incerto tra due epoche, e desideroso di ordine e di pace solo a parole, il Congresso di Parigi sembra non credere più nei principi antichi, non credere ancora nei nuovi, e confonde ad ogni momento quel che può farsi ed esistere con quello che si può desiderare o sognare! III. L’America e il miracolo di San Gennaro[9] Il «realismo» degli Stati europei è davvero una cosa molto singolare. Ricordo alcuni fatti. All’intervento dell’America l’Intesa deve forse la salvezza; e certo un grande addolcimento degli ultimi cimenti. Nella primavera del ’17, quando gli Stati Uniti scesero in campo, la Russia agonizzava; la Francia, l’Inghilterra, l’Italia, esauste da uno sperpero inaudito di uomini e di ricchezze, incominciavano a scoraggiarsi e a smarrire la fiducia reciproca, proprio mentre la guerra si inaspriva nell’ultima e ferocissima stretta. Non ostante il troppo vantato dominio dei mari anche le potenze dell’Intesa erano allora in procinto di trovarsi alle prese con la fame vera e propria. Avrebbero resistito? L’America, proprio allora, ci mandò un esercito fresco, ci aprì un credito illimitato, ci diede il pane e il companatico necessari per far la guerra senza i crampi di stomaco.... E quell’intervento era poco meno che un miracolo. Bisogna conoscere l’America per imaginare che impresa sia stata imporsi la coscrizione, allestire un esercito di milioni di uomini e mandarlo a combattere nelle trincee della Champagne o della Lorena! Chi vuol farsene un’idea, senza andare in America, rovesci il cannocchiale, e imagini quel che sarebbe per i contadini della Romagna o del Poitou, per gli operai di Milano o di Birmingham essere mandati a combattere sulle rive del Missisipì. L’America ha compiuto una prodezza di questa natura. I nostri vecchi avrebbero detto che quell’aiuto ci veniva dal cielo. Invece i grandi Stati dell’Intesa fecero da prima i difficili. A quante discussioni ho assistito, nel febbraio del 1917, a Parigi, nei circoli ufficiali di tutta l’Intesa! Uomini gravi e di grande autorità pesavano gli inconvenienti e i vantaggi dell’intervento americano ormai imminente; e i più aggrottavano le ciglia, inquieti. Purtroppo gli inconvenienti pesavano più dei vantaggi! Senonchè poche settimane dopo che l’America aveva dichiarato la guerra alla Germania, circoli ufficiali e popoli erano già persuasi che l’America aveva fatto soltanto il proprio dovere, e purtroppo molto in ritardo. Se l’America fosse intervenuta un po’ prima, la guerra sarebbe stata più corta e l’Intesa, come era un suo sacrosanto diritto, avrebbe vinto con minor fatica. Insomma il miracolo era diventato un avvenimento naturale, e l’Europa aveva qualche recriminazione da fare all’America, che aveva esitato un po’ troppo. Naturale era pure che l’America mettesse tutti i suoi uomini e tutto il suo oro a nostra disposizione, perchè ce ne servissimo senza contare! Combattevamo o non combattevamo per la libertà, la giustizia e il diritto? La guerra finisce; l’armistizio è firmato; alla fine di dicembre Clemenceau annuncia alla Camera francese che l’Inghilterra e la Francia sono d’accordo nell’escludere la questione dei mari dalla pace: ossia nel passar sopra, come non esistesse, al maggiore tra gli interessi che avevano spinto l’America a prendere le armi. Chi ha neppur badato a quell’accenno? Chi ha neppur supposto in Europa che l’America potesse avere nella guerra un interesse suo particolare, legittimo quanto tutti gli interessi particolari delle altre singole potenze? E che sarebbe stato, nel tempo stesso cavalleria e accortezza riconoscere e soddisfare lealmente questi interessi? Ora fanno tutti il broncio a Wilson ed all’America; accusano l’uno e l’altra di voler pesar sulla pace oltre la misura dei sacrifici consentiti per la vittoria; si lagnano che abbiano offerto all’Europa, che ha bisogno di una spada, una vescica vuota e una lanterna veneziana, la Lega delle Nazioni; e lodano il Clemenceau di aver strappato al Wilson l’impegno di una alleanza formale. Alle persone serie che incontro sembra che, acconsentendo a questa alleanza, l’America abbia un po’ riscattato gli intollerabili capricci del suo fantastico presidente, compiendo almeno una parte del suo dovere verso l’Europa. Mi sbaglierò: ma mi pare che l’Intesa abusa un po’ dell’America e dei suoi miracoli. Invece di ringraziare Dio perchè ha fatto per lei un miracolo, essa esige, e non senza una certa arroganza, che il miracolo si rinnovi ogni sei mesi, a richiesta. Pare che con la Lega delle Nazioni e con la promessa dell’alleanza Wilson stia impegnando doppiamente e in anticipazione l’America a intervenire negli affari d’Europa, ogni qual volta questi siano un po’ perturbati. E in cambio di che cosa? Che cosa l’Europa promette a sua volta all’America, fuorchè la gloria di combattere per «la giustizia e il diritto» a fianco dell’Inghilterra e della Francia? A chi sa quanto è largo l’Atlantico, questo impegno apparisce così grande, così grave, così insolito, così disinteressato, che definirlo il secondo miracolo, dopo l’intervento, non è esagerato. A tutti i politici «realisti» che incontro qui, sembra la cosa più naturale e più semplice del mondo. Sono io che farnetico o questa gente ha preso l’haschisch? A questa gente, ad ogni modo, occorre ricordare che solo il miracolo di San Gennaro si ripete a richiesta e a data fissa. IV. Gli assenti presenti: Russia e Germania[10] La pace è un’impresa così difficile, perchè la guerra è stata tutta un gigantesco controsenso. L’avevo già detto nel 1917, nel primo studio della _Vecchia Europa e la Nuova_: la gente non ha voluto persuadersene; se ne accorgerà ora! Si direbbe che la civiltà occidentale conteneva nel proprio grembo, sotto la sua crosta solidificata da un secolo, un altro mondo a rovescio di se stessa, simile a quelle imagini capovolte dei villaggi posti in riva ad un lago che si vedono nell’acqua; e che questo mondo a rovescio è salito in parte a mescolarsi con quello ritto in un caos indecifrabile, attraverso gli squarci della crosta spezzata in cento punti dalla guerra. Penso oggi al più gigantesco di questi controsensi: la Russia, che è, insieme con la Germania, la grande assente presente del Congresso, perchè nè l’una nè l’altra son qui, ma non si pensa che ad esse e di esse solo quasi si parla. Non è stata la Russia, nel tempo stesso, la salvezza delle democrazie occidentali e il loro mortale pericolo? L’odio postumo dei partiti e delle scuole può coprire la fossa dello Czarismo di contumelie, ma non cancellerà dalle pagine della storia questa verità: che senza l’aiuto della Russia, gli Hohenzollern e gli Absburgo sarebbero oggi padroni dell’Europa. I voti e gli augurî delle radunanze socialiste non avrebbero salvato, nell’estate del 1914, la Francia, se la Germania e l’Austria non avessero dovuto combattere anche contro la Russia; e caduta la Francia che cosa avrebbe potuto fare l’Inghilterra, sola, sul continente europeo, dove soltanto poteva la guerra esser decisa? Ma non è neppure dubbio che l’impero moscovita ha compromesso prima le democrazie occidentali e la loro causa con le sue ambizioni; poi le ha esposte al pericolo estremo con le ineguaglianze, con i mezzi tradimenti, con gli errori e infine con la caduta. Nè il doppio giuoco è terminato con la rivoluzione. Ritornata nelle sue steppe, al momento di dividere le spoglie, la Russia è in questo momento la salvezza dell’Europa. Il conchiudere la pace non è impresa facile; ma sarebbe impresa poco meno che disperata, se al congresso fossero presenti, e nel partito vittorioso, i rappresentanti e i consiglieri dell’imperatore russo. Quel che questi signori avrebbero chiesto in Europa, in Asia e nel pianeta Marte, è facile immaginare. Ma l’astensione della Russia, se per un verso spiana, per un altro arruffa le cose. Sinchè tanta parte della Russia sarà nemica dei suoi antichi alleati, la Germania avrà in Oriente un appoggio per resistere all’Occidente; e finchè la Germania non sarà lealmente riconciliata con le democrazie dell’occidente, la Russia sarà inviolabile, poichè la chiave degli affari russi è in Germania. La Germania è la migliore specola da cui osservare, il miglior ponte da cui assaltare la Russia; la Germania è la porta dell’Europa sull’antico impero moscovita e la porta dell’impero moscovita sull’Europa; la Germania è la scuola degli slavi e il mercato a loro più vicino sulle vie della civiltà occidentale, il loro nemico più temibile ma anche l’alleato più valido. Neppure la resurrezione della Polonia sembra possa mutare di molto questo stato di cose, del quale molti non si accorgono. Sarebbe bene invece ricordarsene, nel giudicare certe condizioni che il Congresso di Parigi intenderebbe imporre alla Germania, almeno se quel che si racconta è vero: ricordare, per esempio, che Napoleone potè imporre la pace di Tilsitt, ma dopo aver vinto la battaglia di Friedland. Quanti conoscono la storia delle guerre dell’impero intenderanno l’ammonimento. La Germania è oggi il baluardo che copre il bolscevismo contro le democrazie occidentali, obbligando queste, per giungere in Russia, a fare il lungo giro di Arcangelo, di Odessa o addirittura di Vladivostock. Ma è nel tempo stesso il baluardo che copre le democrazie occidentali contro il bolscevismo, al quale sbarra la strada dell’Occidente. Posizione intermedia, singolarmente labile e pericolosa, per quanto non priva di certi vantaggi. Non potrà durare a lungo. Se il Governo massimalista resiste e si rafforza, verrà giorno in cui la Germania dovrà o allearsi con le democrazie occidentali contro il bolscevismo o allearsi con il bolscevismo contro le democrazie occidentali. Non si faccia troppo affidamento sul furore con cui il Governo perseguita in Germania i partiti, che più rassomigliano a quello dominante in Mosca. Il Cardinale di Richelieu ha fatto scuola in Europa anche troppo! Sarebbe bene non provocare il destino neppure ad Oriente. Ma chi ci pensa? V. Sfogo[11] Questa mattina mi sono sfogato. La persona con cui mi sono sfogato era uno di quegli uomini rari, che per quanto non abbondino neppure qui, si trovano in Francia più spesso che altrove: coltissimo, intelligente, largo di mente, generoso di cuore, amico sincero e fedele. Sapevo di parlare ad una persona che mi avrebbe capito. E gli ho parlato così. «Lei sa che io sono un amico fedele. Ho avuto fiducia nella Francia prima della prova, e quando tutta l’Europa o vi odiava, o vi disprezzava, o diffidava di voi. Ma perciò debbo dirvi francamente che me ne ritornerò in patria tra pochi giorni inquieto e pieno di tristi presentimenti. Io non capisco la Francia, in questo momento; o, se volete, ho paura di capirla. Ma come? Voi avete fatto, più di un secolo fa, una immensa rivoluzione che ha sconvolto il mondo; e l’avete imposta con la penna e con la spada all’Europa nolente. C’era allora un ordine antico da secoli, di cui i popoli, buono o cattivo che fosse, erano soddisfatti. C’era un diritto pubblico, che regolava in una certa misura i rapporti tra gli stati, che proteggeva abbastanza bene i piccoli e i deboli in mezzo ai grandi e ai forti, che risparmiava il sangue e il denaro delle moltitudini, poichè le guerre allora erano combattute tra sovrani e non tra popoli, con un piccolo numero di soldati, e quasi tutti volontari. C’erano repubbliche e monarchie e principati e ducati e staterelli in quantità; non c’erano imperi, ma c’era l’impero, quello di Augusto, di Traiano e di Costantino ancora vivo; e tutti questi governi erano deboli ma rispettati come sacri, davano poco ai sudditi ma esigevano poco. Non c’era per nessuno la libertà di riveder le buccie a Dio e alle Chiese che lo rappresentavano; ma c’era per tutti quella di fare o di non fare la guerra, a piacere. Voi non avete avuto rispetto per nessuna parte di questo venerando edificio. Voi avete implacabilmente distrutto in casa vostra prima, avete distrutto o aiutato a distruggere in tutta Europa questo ordine di cose e i principî su cui posava, in nome dei principî nuovi, che voi avevate annunciato al mondo, gli «immortali principî» — come voi dite. Vi siete impegnati in una lotta terribile, in casa vostra e fuori, in Francia e in Europa, contro tutti i partiti, gli ordini sociali, le istituzioni che volevano difendere l’antico ordine di cose; contro la aristocrazia, contro la Chiesa, contro la Monarchia, contro l’Impero, contro la Casa d’Austria, contro la Casa di Savoia, la Prussia, la Russia, l’Inghilterra. Questa lotta è durata più di un secolo; e quanti colpi avete ricevuti, quanto sangue avete versato, quanti sacrifici avete sostenuti! Per quattro generazioni siete stati, si può dire, soli o quasi soli in guerra, con la spada e con la penna, contro tutta la Europa. Le disgrazie che vi sono capitate nel secolo XIX, sono nate, si può dire, dal vostro attaccamento a idee e a dottrine, che l’Europa ha respinte ostinatamente nel 1793 come nel 1848, restringendosi ogni tanto a sfruttarle cautamente, e il più spesso contro di voi. «Ed ecco alla fine, quando nessuno ci sperava più, nemmeno voi, accade il miracolo. In un anno e mezzo, tra il marzo del 1917 e il novembre del 1918, la nemica implacabile di voi e delle vostre dottrine, la Monarchia, morde la polvere. Prodigio a cui nessuno nella nostra generazione aveva mai sperato di assistere, i Romanoff, gli Hohenzollern, gli Absburgo, i Wittelsbach sono scacciati dai loro popoli. La Europa tutta si volge, come alla suprema speranza, verso le idee e le dottrine che voi avete bandite al mondo nel 1793 e nel 1848: suffragio universale, principio di nazionalità, fratellanza e lega dei popoli, democrazia, diplomazia palese. L’America stessa viene in Europa e si dichiara pronta ad aiutarla con tutte le sue forze e ricchezze a far la pace e a costituire il nuovo ordine di cose sul principio della sovranità popolare. La rivoluzione francese sta per trionfare; il ’48 sta per prendere la sua clamorosa rivincita; sta per scoccar l’ora in cui voi potrete raccogliere il frutto di un secolo, erigere con un nuovo ordine di cose il vero, l’immenso arco di trionfo della Francia a cavallo dell’Europa, non il piccolo arco dell’Etoile che ricorda una lunga fila di vittorie provvisorie, terminate con una disfatta sola, ma irreparabile. «E in questo momento supremo voi vi schermite, vi appartate e quasi direi vi togliete con la fuga al vostro trionfo? Voi lasciate gli Anglosassoni empirici e confusionari impadronirsi della vostra dottrina, tentare di formularla e applicarla; li guardate con un sorriso ironico mentre con maldestra serietà si sforzano di compire l’ufficio che voi soli, insieme con noi italiani e con i tedeschi, se essi avessero voluto, e se voi li aveste lasciati metterci mano, avreste potuto compiere; e poi dichiarate che quelle sono chiacchiere e favole, che a voi occorrono riparazioni e garanzie, miliardi per rifare le vostre provincie distrutte, e cannoni, soldati, alleanze, confini strategicamente sicuri, disarmo del nemico; non protocolli diplomatici, pezzi di carta e ideologie di professori? Che altro vuol dire questo atteggiamento ufficiale della Francia verso la lega delle nazioni e nelle trattative per la pace, se non che la Francia non ha fiducia nelle dottrine della rivoluzione, per cui ha combattuto un secolo intero? È questo o non è questo il senso profondo ma luminoso della politica francese nel trattato di pace? «Lei sa quel che io penso degli «immortali principî...». Mi paiono troppo confusi, vaghi, elastici, sentimentali; e perciò, almeno così come sono oggi, non possono servire da ossatura solida ad un sistema di diritto pubblico che si regga. Dovranno, per servire, essere elaborati dalla dottrina e stagionati dal tempo. Ma non sono neppure un semplice _flatus vocis_, o parole vuote, o astrazioni, come pretendono troppi critici frettolosi. Esprimono oggi sentimenti che, pur essendo confusi, sono forti nelle moltitudini: tanto è vero che hanno infuso in queste il coraggio e la pazienza di combattere una guerra così lunga e così atroce. E poi, buoni o cattivi che siano, abbiamo noi l’_embarras du choix_? Altri principî più chiari e definiti, che regolino in qualche modo, con un’ombra di legge, i rapporti tra gli stati europei? La monarchia è caduta in Europa; e con essa il principio dinastico, che a dispetto delle sue manchevolezze e ingiustizie, aveva mantenuto dal 1815 al 1914 un po’ d’ordine e una certa legge nei rapporti tra gli stati europei. Caduto questo, se noi non riusciamo ad imporre un altro principio di ordine, anche se grossolano e imperfetto, l’Europa si dissolverà nella anarchia delle guerre perpetue. La forza sarà la sola legge riconosciuta e rispettata tra gli Stati. Ora lasciamo i discepoli imbecilli di Hegel ripetere che il diritto è la forza e che gli Stati sono fatti per divorarsi a vicenda come belve feroci. Sappiamo tutti e due che cosa sarebbe in Europa un nuovo medio evo alla nitroglicerina, armato di bombe e di tritolo, senza Cristo e senza Inquisizione. L’Europa non solo rimbarbarirebbe; ma precipiterebbe dal suo trono...». «Bisognava dunque precisare e formulare nel Congresso di Parigi i principî che dovevano regolare i rapporti tra gli Stati d’Europa, ormai quasi tutti ordinati a repubblica, come il Congresso di Vienna aveva precisato e formulato, come legge tra gli Stati monarchici di un secolo fa, i principî della legittimità e dell’equilibrio. Occorreva mettersi d’accordo sopra un modo di definire la nazionalità, che servisse come equa norma per decidere almeno i più grandi fra i conflitti nazionali. Occorreva riconoscere i diritti nazionali delle minoranze, che sarebbero incluse nei nuovi stati e rimarrebbero prigioniere nella cerchia degli antichi, e trovare il mezzo di garantirli. Occorreva imaginare una formula per limitare gli armamenti, che conciliasse le legittime armi d’ogni singolo stato con la libertà degli altri e con il loro diritto di non subire, come un’imposizione prepotente di un solo, gare illimitate di armamenti e guerre all’ultimo sangue. Se il Congresso avesse affrontato queste tre questioni capitali, non ci sarebbe stato tanto da discutere intorno ai fini della Lega delle Nazioni. La Lega avrebbe dovuto mantenere la pace fondata su questi principî, perfezionandoli nell’applicazione. «Era questo un compito impossibile, anche se era più difficile di quello che spettò al Congresso di Vienna? Non so. Ma chi aveva il dovere di tentarlo almeno, se non voi, aiutati dall’Italia e dall’America? Se non temessi di domandar troppo, aggiungerei che anche i tedeschi avrebbero potuto e dovuto aiutarci. Poco assegnamento invece si poteva fare sugli inglesi. Ma voi vi siete tratti sdegnosamente in disparte, gli italiani non hanno fatto nulla e gli americani da soli erano ridotti all’impotenza...». A questo punto il mio interlocutore mi ha interotto. «Lei ha ragione, pur troppo. La tragica contradizione in cui la Francia è impigliata è questa. Ma non è difficile di spiegarla. Nel paese coloro che hanno fiducia nei principî della rivoluzione del ’48, sono numerosi». «È vero — dissi io. — Quello che si può chiamare il gran pubblico mi sembra abbia seguito più che spinto il governo della sua politica». «Per l’appunto. Bisogna dunque spiegare l’atteggiamento del governo. Questo fu l’opera del Quai d’Orsay e dello Stato Maggiore, che nutriti ancora di tradizioni napoleoniche, amano poco e poco si fidano delle ideologie rivoluzionarie. Ma è pure vero che il governo ha seguìto docilmente questi consigli, e che il suo capo ha difeso le tradizioni della politica imperiale con un ardore di novizio. Lei mi dirà che Clemenceau è stato per tutta la vita un campione quasi fanatico della rivoluzione e delle sue dottrine, e che un giorno la definì un «bloc». E mi domanderà perchè questo discepolo fanatico ha voltato le spalle alle sue dottrine proprio quando gli si apriva un’occasione unica di mantenere almeno in parte le promesse che la Francia ha fatte al mondo. Le confesso di non saper rispondere. È un mistero, per me...!» «Si direbbe — ripresi io — destino della rivoluzione, che quando i suoi principî stanno per vincere, apparisca un uomo il quale con l’autorità acquistata combattendo per il loro trionfo li sconfigge definitivamente e li ricaccia nel nulla. Il caso di Clemenceau non ripete, meno vistosamente, la palinodia di Napoleone? Senonchè guardi in che singolare postura la Francia viene a trovarsi di fronte all’Europa, e l’Europa di fronte alla Francia. Più di un secolo fa la Francia annuncia di aver scoperto i principî da cui deve cominciare un secolo nuovo di felicità, si impegna in una terribile lotta per applicarli, la vince. Ma allora apparisce l’uomo che confisca per sè i frutti della vittoria; e che invece del nuovo ordine di cose promesso, impone all’Europa un dispotismo militare molto più oppressivo e cupido che i governi dei Re, da cui la rivoluzione voleva liberare l’Europa. Con un forte scossone l’Europa rovescia questo dispotismo; e per riavere un po’ di ordine e di pace restaura alla meglio, come si poteva dopo tante demolizioni, i principi dell’ordine antico, da voi indebolito o distrutto... L’ordine ricostituito non era perfetto; tuttavia l’Europa, pur brontolando, ci si acconciava, per paura di peggio. Siete stati voi di nuovo a rovesciare nel 1848 questo ordine vacillante, ripromettendo al mondo la felicità nuova contenuta nelle vostre dottrine. Ma di nuovo il mondo l’ha aspettata invano, cosicchè, dopo il ’48 si trovò senza i beneficî dell’ordine antico e senza i beneficî nuovi da voi promessi nel grande anno; finchè anche questa volta, per ridare un assetto un po’ stabile all’Europa, si ritornò dopo il 1870 nella misura del possibile ai principî antichi e all’ordine dinastico. Che cosa furono il regime bismarckiano e la triplice alleanza se non una ristampa in riduzione della Santa Alleanza? Ma neppure di questo nuovo ordine voi foste contenti, e avevate ragione, poichè era stato fondato con una violenza iniqua e scellerata a vostro danno. La restante Europa, desiderosa di pace, ossequiosa per il più forte dell’ultim’ora, cupida di ricchezze e di benessere, era pronta a sopportare con rassegnazione cristiana l’iniquità inflitta a voi, e avrebbe voluto eterno quell’ordine: voi no, voi lo avete implacabilmente minato, non riconoscendo il trattato di Francoforte che ne era il fondamento, dichiarandolo nullo _in aeternum_ poichè violava l’imprescrittibile diritto dell’Alsazia e della Lorena. Voi avete affermato, a rischio della vostra esistenza, esserci certi diritti dei popoli che la forza deve rispettare: azione memorabile nella storia, gloria imperitura della vostra nazione, che voi potete aggiungere a quella di tante altre generose azioni da voi compiute nei secoli... Ma quando quest’ordine, di cui l’Europa era soddisfatta, è finalmente caduto, un po’ perchè il popolo che l’aveva creato a suo profitto ha voluto abusarne, un po’ perchè voi l’avevate minato sotto sotto con la vostra generosa e implacabile protesta, non aveva il mondo diritto che voi faceste un grande sforzo per definire questi diritti imprescrittibili dei popoli, per i quali il mondo intero andava in fiamme? Per fare una realtà di quella fratellanza dei popoli liberi, che avevate annunciata come la legge di vita all’Europa sino dal 1848? «Invece voi — o almeno il governo che vi rappresenta — non ha trovato, per riordinare il mondo, che delle combinazioni di forze nello stile del Bonaparte!... Saranno ingegnose, quanto volete, queste combinazioni; ma credete voi di poter fermare i tedeschi sulla via delle loro ambizioni, opponendo loro soltanto dei cannoni e dei soldati, e non una dottrina e un’idea? Se il domani sarà in balìa della forza, pensate che i tedeschi hanno il numero. E pensate che l’Europa attende da voi il compimento di una promessa che data ormai da più di cento anni...». Il mio interlocutore mi ha guardato, e poi levandosi, mi ha detto con forza: «Noi manterremo la promessa. La nostra storia è piena di contradizioni, di violenze, di catastrofi; ma è pura di tradimento. Non tradiremo i popoli, che avranno avuto fiducia in noi». — «Speriamo» — conchiusi io, rassicurato un po’, ma sino a un certo punto soltanto. VI. La radice del male[12] Il 1919 non passerà nella storia come l’anno in cui il nuovo ordine di cose, ardentemente desiderato dagli uomini, è incominciato; ma come quello in cui la rovina dell’antico fu consumata. L’Europa è un caos, a paragone del quale l’ordine, che vigeva ancora nel 1914, poteva considerarsi come perfetto o poco meno. Quell’ordine si reggeva per un equilibrio di forze vere e per l’autorità di alcuni principî invecchiati ma non ancora morti. Oggi non c’è più nè equilibrio di forze nè autorità di principî. Tutte le forze sono state o distrutte o spossate dalla guerra; tutti i principî, esautorati o confusi dai trattati di pace, già compilati a Parigi o in preparazione. Come nitida comincia ad apparire nelle sue linee maestre a chi ha occhi per vedere, la tragedia a cui l’Europa ha soggiaciuto inconsapevole, come l’agnello soccombe sotto il coltello del beccaio. Che cosa è un trattato? È un pezzo di carta che lega e comanda per una sua misteriosa e quasi magica virtù. Ma da che nasce questa virtù? Dalla forza soltanto, no: perchè non essendo sempre chiaro chi sia il più forte e chi oggi passa per più forte potendo domani scoprirsi più debole, ogni trattato sarebbe un’occasione di guerre continue. Quella virtù magica dei trattati nasce dalla autorità di un principio, riconosciuto dalle due parti contraenti come vero e inviolabile, e per rispetto al quale anche la parte a cui il trattato è di peso, consente ad osservarlo. Nel diritto pubblico, che resse l’Europa prima della rivoluzione francese, questo principio imperativo era l’onore dinastico. Un trattato era considerato come un impegno d’onore del sovrano, che l’aveva firmato. Un sovrano guerreggiava lunghi anni prima di acconsentire a scrivere il proprio nome in fondo a un foglio di carta, nel quale dichiarava di ceder ad un suo fratello questo o quel territorio. Egli sapeva che quella goccia di inchiostro era indelebile. Riconosciuto dagli altri sovrani, il trattato era un titolo indiscutibile a favore del sovrano, a cui il territorio era stato ceduto. Ma le firme dei sovrani, che nel secolo XVIII erano il simbolo di un principio di diritto pubblico, divennero a poco a poco una formalità nei trattati del secolo XIX, quando la coscrizione e le rivoluzioni democratiche ebbero scatenato sull’Europa le guerre dei popoli. Il principio dell’onore dinastico si indebolì, e tra gli avanzi dell’antico diritto pubblico si insinuò un principio nuovo: che un trattato non può esser considerato valido in sè e per sè, ma solamente in quanto non violi certi diritti dei popoli. La Francia sostenne, dal 1871 al 1914, la prova del fuoco per il nuovo principio. In forza di questo principio la Francia ha dichiarato quasi per mezzo secolo di subire ma di non riconoscere come valido il trattato di Francoforte, perchè questo trattato violava un diritto imprescrittibile dell’Alsazia e della Lorena, di cui nessun governo poteva disporre. Questo principio ha preso forza nell’animo e nell’immaginazione dei popoli, durante la guerra mondiale. I governi dell’Intesa — e in parte anche i governi nemici — avevano dichiarato di riconoscerlo come il fondamento dell’ordine nuovo. Ed è un principio alto e nobile, dal quale un nuovo diritto pubblico dell’Europa potrebbe nascere, ad una condizione però: che ci sia un certo accordo ed una certa lealtà nel definire questi diritti dei popoli, di cui la forza non può fare scempio, a cui anche la vittoria deve inchinarsi. Se no, che cosa accadrà? Che cosa accadrà se ogni gazzettiere o filosofo o poeta o diplomatico o uomo di stato o cavadenti sarà libero di definire a volta a volta, come gli piace, questi diritti dei popoli; se ogni popolo vorrà essere giudice inappellabile del proprio diritto e del proprio dovere? Nessun trattato avrà più alcun valore, fuorchè quello che vorrà riconoscergli il capriccio dei contraenti; ogni popolo potrà dichiarar nulla la parte di un trattato che non gli garba come lesiva di qualche diritto, che ciascuno poi definirà come meglio gli piace. È proprio quel che accade ora. Il diritto dei popoli sta precipitando l’Europa in un caos di discordie, di odî e di guerre: castigo meritato dell’incoerenza, con cui l’Europa ha lasciato la Francia, dopo il 1870, dichiarar nullo _in aeternum_, in nome di quel diritto, uno dei trattati su cui posava la pace del mondo, senza curarsi poi di definire questi inviolabili diritti dei popoli. Il concetto nuovo del diritto dei popoli ha indebolito l’antico rispetto in cui i trattati, come cosa sacrosanta, erano tenuti; ma senza acquistare consistenza, precisione, virtù imperativa da governar esso il mondo. Il Presidente Wilson aveva intravisto la difficoltà; ed era venuto in soccorso dell’Europa. Proponendo i famosi quattordici punti, si era assunto il compito, adempiuto con tanto splendore dal Talleyrand nel Congresso di Vienna; aveva tentato di definire i principî, con i quali giudicare i diritti che i nuovi stati e gli antichi dicevano di poter vantare sui territori disponibili. Impresa necessaria, ma difficilissima: sia perchè i famosi punti erano soltanto un abbozzo; sia perchè, per pacificare davvero l’Europa, occorreva che questi principî fossero riconosciuti sinceramente non solo dei vincitori, ma anche dai vinti, come il principio di legittimità era stato riconosciuto da tutte le potenze nel Congresso di Vienna. Ma appunto perchè l’impresa era ardua, era dovere tentarla. Quale vertigine ha travolto le classi governanti e con esse i governi dell’Italia, della Francia, dell’Inghilterra? Per quale ragione, mentre le moltitudini avevano acclamato Wilson, come il salvatore, tante forze oscure hanno cospirato a screditare come un vano sogno il primo e più urgente tra i preliminari della pace? L’Europa non sa ancora quello che ha fatto; non ha capito ancora di aver distrutto tutti i sostegni dell’ordine internazionale e quindi della pace, proprio nel momento in cui doveva restaurare nel mondo la più vasta pace che si fosse ancora fatta. Oggi i trattati non hanno più nessun punto fermo e solido a cui appoggiarsi: non la complicata e gagliarda struttura giuridica della società del secolo XVIII, non la tradizione diplomatica delle Corti e l’equilibrio delle forze del secolo XIX, non i principî del nuovo diritto pubblico, che nessuno vuol riconoscere, se non in quanto vanno d’accordo con le proprie ambizioni e cupidigie. Non resta che la forza. Ma chi sa ormai dove risiede la forza? L’Intesa ha vinto, ma insieme, e grazie alla mitraglia d’oro del nuovo mondo; chi può sapere oggi quale sia la forza di ciascuna delle potenze dell’Intesa da sola e quelle dei nuovi stati sorti dalle ruine degli antichi? Cento anni di guerra, dunque! «Colpa del capitalismo» — dicono i socialisti. I socialisti non conoscono la storia dell’Europa meglio dei nazionalisti. Essi non sanno che la dissoluzione presente è l’ultimo effetto di un disordine intellettuale, che incomincia con il Rinascimento e con la Riforma; e di un rivolgimento militare e politico, che incomincia con la spartizione della Polonia e con la rivoluzione francese: prima che il «capitalismo» ossia la grande industria nascesse. Il male è più antico e profondo che i socialisti non credano; e il rimedio da essi proposto, la soppressione del capitalismo, non basterebbe a curarlo. A leggere i fogli socialisti, d’Italia e di fuori, si direbbe che il trattato di Versailles è gemello del trattato di Brenno. Ma chi conosce il trattato scuote le spalle. Esso contiene, sì, alcune disposizioni che sono o troppo dure o ineseguibili accanto ad altre, che sono savie e giuste. Ma il suo vero difetto è pur troppo un altro: che tutte queste disposizioni — le giuste come le ingiuste — non riposano su principî chiari, precisi, riconosciuti dalla coscienza universale dei vinti e dei vincitori; ma su improvvisazioni e compromessi di principî opposti, spesso arbitrari, poco chiari e contradditorî. Onde tutti gli interessi lesi possono denunciare come ingiuste anche le sue clausole più giuste; e siccome ormai i trattati che non sono giusti, sono considerati come pezzi di carta, dichiararlo nullo, in tutto od in parte. Non se ne fanno scrupolo gli stessi vincitori: immaginarsi i vinti! La Germania non riconoscerà questo trattato come giusto ed impegnativo più che la Francia abbia riconosciuto il trattato di Francoforte; e non lo eseguirà che nella misura in cui sarà costretta ad adempierlo dalla forza. Impresa difficile e piena di pericoli, per un trattato che impegna almeno due generazioni e in tempi esausti dagli eccessi deliranti della nazione armata. Non mi meraviglio punto che già la Francia e l’Inghilterra siano piene di inquietudini. L’inchiostro con cui il trattato è stato scritto non è ancora asciugato, le ratifiche non sono ancora perfette, e già da ogni parte si teme che la fatica di quest’anno sia stata quella di Sisifo. Mi meraviglio piuttosto che tanta gente si sia illusa e si illuda ancora, come se quel trattato potesse valere altrimenti, se non per la forza materiale su cui potrà fare assegnamento. E poichè le disgrazie non vengono mai sole, ecco che delle inquietitudini e della insicurezza, generate da questi trattati, a cui manca l’autorità per imporsi, approfittano i governi per tentare di ingrandire su questo immenso sfasciume di rottami, l’antico militarismo, autore e padre della rovina presente! PARTE TERZA. I TRATTATI _Questa terza parte si compone di articoli pubblicati dal Secolo nel 1920 e nel 1921, che sono qui ristampati con qualche ritocco, dopo essere stati legati in un insieme coerente. La data posta sotto il titolo indica il giorno in cui l’articolo fu pubblicato nel giornale. L’ultimo scritto_, La politica realistica, _è inedito: breve nota che ho ritrovato tra i miei appunti del 1920._ _Questi articoli riuniti sono uno studio sulla pace, fatto circa un anno dopo la conclusione dei trattati, e quindi maturato nella meditazione e alla luce dell’esperienza. Le impressioni, i presentimenti, le intuizioni, ancora oscillanti e confuse, che avevo fissate sulla carta durante il Congresso della pace, si precisano e si confermano in alcune conclusioni definitive sulla natura, gli effetti, i difetti della pace, le quali si appuntano e si riassumono in una conclusione generale: un trattato o un corpo di trattati non poter reggersi che o per la forza o per il consenso o per l’uno o l’altra; ai recenti trattati di pace far troppo spesso difetto così la forza come il consenso. Onde una specie di protettorato del mondo impotente, scritto sulla carta, e ragione di malcontento universale, di insicurezza persistente e di oscuri pericoli._ I. L’America e i mari (27 novembre 1920) I trattati, che dovevano ripristinare la pace in Europa, sono stati sottoscritti da più di un anno, ratificati tutti, sia pure a denti stretti, fuorchè il trattato di Sèvres; e in parte applicati. A mano a mano che ci allontaniamo dal Congresso, la «tragedia della pace», osservata durante il Congresso nei singoli episodi staccati, si allinea innanzi al mio sguardo, come un insieme ed una unità. Tragedia meno vistosa e clamorosa che la guerra, perchè quasi clandestina. Non l’hanno capita neppure gli attori da strapazzo, che l’hanno recitata. Ma se meno vistosa, è forse più terribile che la guerra. Una catastrofe, i cui effetti colpiranno le generazioni, è accaduta in poche settimane, all’insaputa di tutti, senza che alcuno se ne accorgesse, nei conciliaboli segreti di pochi uomini, che un destino cieco aveva scelti a caso, a cui aveva conferito il potere quasi divino di disporre dei destini del mondo, e che se ne sono serviti senza sapere quello che facevano. Il principio della catastrofe fu così semplice, che nessuno se ne accorse. Chi ricorda ancora come la cosa avvenne? Sul finire del 1918 Clemenceau pronunciò alla Camera francese un grande discorso, per esporre le viste e i propositi del Governo francese intorno alla pace. In quel discorso il Clemenceau lasciò chiaramente capire che non credeva alla Lega delle Nazioni; che rimaneva fedele alla vecchia scuola delle alleanze e degli equilibrî, e che vagheggiava una alleanza tra l’Italia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti per imporre la pace al mondo. Aggiunse avergli Lloyd George chiesto se a parer suo senza l’armata inglese la guerra sarebbe stata vinta; come egli avesse risposto che no; e si fosse accordato con il primo ministro inglese di opporsi insieme nel Congresso a tutte le proposte, che diminuissero o limitassero la potenza di quella armata. La Francia e l’Inghilterra si dichiaravano avverse alla libertà dei mari, chiesta dall’America; e rifiutavano di discutere al Congresso un nuovo statuto delle acque, meno barbaro di quello che oggi impera sui mari. Nessuno, in Europa, badò allora a questo annuncio. Eppure in quel rifiuto era già contenuto, come la pianta nel seme, così il fallimento della Lega delle Nazioni disegnata dal Wilson, come il fallimento delle alleanze vagheggiate dal Clemenceau; così il riaccendersi delle dispute e delle discordie che già avevano minacciato di distruggere la civiltà occidentale, come il fallimento di tutto il Congresso. Per quale ragione? Il velo del destino oggi si squarcia. Perchè l’America dichiarò la guerra alla Germania? Perchè la Germania voleva chiudere a suo arbitrio le vie del mare al commercio tra l’America e i suoi nemici. L’America non volle riconoscere il monopolio e la padronanza degli Oceani, che la Germania si arrogava. Ma non la Germania sola: chè l’America ebbe, sin dal principio della guerra, fiere dispute anche con l’Inghilterra intorno al blocco, al contrabbando e ai diritti che anche l’Inghilterra si arrogava sul commercio tra le potenze neutre e i suoi nemici. Scoppiata la guerra europea, gli Stati Uniti hanno ad un tratto trovato sul mare, di cui essi si erano serviti sino allora liberamente, come della grande via comune del genere umano, due potenze nemiche tra loro, ma concordi nell’affermare che quella via era invece loro proprietà e monopolio, e che esse avevano il diritto di chiuderla a tutti, quando i propri interessi lo richiedevano. L’America ha allora affermato, sotto nome di libertà dei mari, i diritti generali di tutto il genere umano sulla via comune delle acque; ma non potendo sostener questi diritti contro le due potenze ad un tempo, si è unita alla più arrendevole e conciliante, contro la più fiera e intransigente. Senonchè l’America si impegnava nella guerra mondiale, in parte almeno, come nemica della sua alleata e come alleata della sua nemica. Nell’ardore del combattere, sinchè la guerra durò, il mondo, e la stessa America, non si accorsero della contraddizione; ma la contraddizione si fece manifesta, appena la guerra finì. Vinta in terra e sul mare, catturata la flotta con cui aveva atterrito gli Oceani, la Germania si univa subito all’America per chiedere la libertà dei mari; ossia si mutava in alleata. A sua volta l’America non poteva più chiedere il premio della sua vittoria alla nemica, perchè la Germania, catturata la flotta, non la minacciava più sui mari; doveva chiederlo all’alleata, all’Inghilterra, che, distrutta la flotta tedesca, restava più potente e prepotente di prima sui mari. L’alleata prendeva dunque, nei negoziati, il posto della nemica; e lo prendeva così pienamente, che rifiutava di pagar essa all’America, al posto della Germania, il premio della vittoria. Lo statuto dei mari doveva restare barbaro e confuso come prima della guerra; nessuna soddisfazione doveva essere data ai popoli, che reclamavano il mare come via comune del genere umano. Questo diceva, a chi avesse orecchie per intendere, il rifiuto dell’Inghilterra, annunciato dal Clemenceau alla Camera francese, sul finire del 1918, come un fatto che si intendeva di per sè. Quel rifiuto era la prima catastrofe della vittoria. L’America fu defraudata del giusto premio e doppiamente delusa; perchè ebbe danno, e grave, dalla vittoria. Annientando la flotta tedesca l’America ha accresciuto il pericolo inglese sul mare; tanto è vero che oggi è costretta a far sui mari le veci della Germania, varando una immensa armata, per bilanciare la forza inglese. Ma il rifiuto non colpì solo direttamente l’America; colpì anche di rimbalzo l’Europa. L’Europa non potè più, dopo quel rifiuto, chiedere all’America che partecipasse o alla Lega delle Nazioni o a qualsiasi alleanza europea. Durante tutto il Congresso della pace il Presidente Wilson e il Clemenceau hanno voluto salvare il mondo, ma ciascuno a modo suo e meglio dell’altro; l’uno con la Lega delle Nazioni, l’altro con la vagheggiata alleanza tra l’Europa e l’America. Alla fine, dopo molto combattere, si sono accordati di salvarlo due volte, con la Lega delle Nazioni e con l’alleanza della Francia, dell’Inghilterra e dell’America. Nè l’uno nè l’altro sembrano aver neppur sospettato che ormai, dopochè l’Inghilterra aveva rifiutato di venire a patti sugli Oceani, ambedue i disegni non erano più che utopie; perchè l’America non poteva prender parte nè alla Lega delle Nazioni nè ad un’alleanza europea, di cui l’Inghilterra facesse parte. Eppure è così. Che cosa era comune alla Lega delle Nazioni imaginata dal Wilson e alla alleanza proposta dal Clemenceau? Lo scopo: mettere al sicuro tutte le potenze che ne facessero parte, anche l’Inghilterra, da una egemonia continentale in Europa. Ma si poteva chiedere all’America di impegnarsi a difendere l’Inghilterra sul continente europeo e contro i suoi futuri dominatori, quando l’Inghilterra rifiutava di darle alcuna garanzia contro i pericoli di una egemonia degli Oceani? Ormai il pericolo per l’America era in Inghilterra, non in Germania: e si voleva che si alleasse all’Inghilterra contro la Germania? Quando mai s’è vista un’alleanza od una lega, che addossa tutti gli oneri ad una parte e riconosce tutti i vantaggi all’altra? Il giorno in cui l’Inghilterra rifiutò di discutere quella che gli americani avevano chiamata «la libertà dei mari», _gli Stati Uniti erano esclusi dagli affari europei_. Non riconoscendo l’Europa il solo interesse, che avrebbe potuto spingere l’America a garantire in parte l’ordine e la pace dell’Europa, non restava agli Stati Uniti che ritornarsene a casa loro. Le poche persone, che non sognavano ad occhi aperti, come i bevitori di _haschisch_, non si sono meravigliate punto che, non ostante i generosi sforzi del Presidente Wilson, il popolo americano abbia, nelle elezioni recenti, con un gesto risoluto, buttato dalla finestra tutti i protocolli di Parigi: Lega delle Nazioni e alleanze. Il solo miracolo che si ripete a giorno fisso è quello di San Gennaro. II. Le garanzie (15 dicembre 1920) Mentre l’Inghilterra rifiutava di riconoscere nel Congresso della pace la libertà dei mari, la Francia chiedeva garanzie e riparazioni. Richiesta non indiscreta, ma che pur troppo era in contraddizione con le ambizioni oceaniche dell’Inghilterra. Prendendo per sè i mari, l’Inghilterra toglieva alla Francia e agli altri alleati così le garanzie come le riparazioni. Il Congresso non se n’è accorto; e perciò ha perduto sei mesi per sciogliere un nodo insolubile. Cerchiamo di chiarir questo nesso un po’ nascosto tra i mari e la terra. Da che pericolo voleva essere garantita la Francia? Dalla forza della Germania. In che sta questa forza? Nel numero. Tra le ragioni per cui la guerra mondiale è scoppiata, non bisogna dimenticare lo sbilancio della popolazione tra Francia e Germania. La guerra non sarebbe scoppiata, se ci fossero stati dieci milioni di francesi di più o dieci milioni di tedeschi di meno. Ma questo sbilancio non è stato livellato dalla guerra mondiale. Oggi la Germania non soltanto è più popolata che la Francia; ma, caduta la Russia e smembrata l’Austria, è il primo Stato di Europa per il numero degli uomini, e resterà tale sinchè la Russia non risusciti. È chiaro che, finchè la Germania potrà opporre tre tedeschi a due francesi, la Francia sarà in pericolo; e l’Europa tutta in bilico e malsicura. La Francia chiedeva dunque garanzia, che i tedeschi non potessero approfittare a suo danno dell’essere in più. La richiesta, pur essendo giusta, non era semplice e facile. Ma non poteva essere soddisfatta che o per imposizione o per accordo. Per imposizione, se, come Napoleone dopo aver vinto a Jena la Prussia, l’Intesa avesse approfittato della presente prostrazione della Germania per imporle una limitazione unilaterale degli armamenti. Per accordo, se, sotto nome di Lega o Società delle Nazioni, le grandi potenze europee avessero conchiuso una tregua alla gara degli armamenti e alla lotta per le alleanze; e se in forza di questa tregua la Germania si fosse impegnata a limitare i suoi armamenti in modo da non minacciare più la Francia. La Lega delle Nazioni sarebbe stata allora simile alla Santa Alleanza, che fu per l’appunto una tregua. Tutti sanno che il Congresso di Parigi ha preferito di imitare il grossolano empirismo di Napoleone, anzichè prendere esempio dal Congresso di Vienna. Nè è dubbio che in parte questa scelta deve essere imputata ai popoli, perchè nei sei mesi seguìti all’armistizio nessuno dei vincitori, in Europa, ha voluto sentir parlare sul serio di una tregua o di una lega per la pace, che imponesse dei doveri ai vincitori. Ma anche se i popoli fossero stati meno pazzi, se avessero desiderato davvero di conchiudere una tregua, non avrebbero potuto, dopo che l’Inghilterra aveva chiuso i mari al Congresso. In una tregua universale, simile a quella conchiusa un secolo fa a Vienna, che cosa poteva chiedere la Germania all’Europa, che cosa poteva offrire l’Europa alla Germania in cambio della sua rinuncia al primato del numero sul continente e ai suoi vantaggi? Una sola cosa: una rinunzia equivalente dell’Inghilterra al primato navale e ai suoi vantaggi. Messa in disparte la questione dei mari non si poteva più stringere una lega volontaria per la pace e una tregua universale, perchè tutto il beneficio sarebbe stato per l’Inghilterra, tutto il peso per la Germania. L’Europa avrebbe chiesto alla Germania di spogliarsi della sua forza sulla terra in cambio di nulla, così come aveva chiesto all’America di entrare gratuitamente, con doveri soltanto e senza diritti, in un’alleanza permanente a favore delle potenze dell’Intesa! Nei primi mesi dell’armistizio le ambizioni oceaniche dell’Inghilterra si sono trovate d’accordo con la pazzia dei popoli vittoriosi, per strangolare nella culla quella tregua fra le grandi potenze europee, che sola poteva salvarle tutte. Esclusa la tregua e l’accordo, era necessità ricorrere all’imposizione; accettare il disarmo coattivo e unilaterale, che già aveva fallito a Napoleone, sebbene la Prussia del 1806 fosse più debole che la Germania moderna e la Francia potesse allora contare sull’alleanza della Russia. Questo famoso fallimento avrebbe dovuto indurre il Congresso e l’Europa a chiedersi un po’ seriamente, se era il caso di ritentare la prova, senza la Russia anzi con la Russia nemica. Non solo invece nessuno ha dubitato; ma anche oggi uomini di Stato e di penna, diplomatici e soldati, stentano a capire quel che pure i fatti dimostrano ogni giorno a chi ha occhi e sa vedere: la garanzia esser diventata uno spavento. Una garanzia, se è davvero una garanzia, rassicura e tranquilla: questa invece inquieta, spaventa, toglie il sonno anche a chi, per ora almeno, potrebbe dormire tranquillo. Poichè questo è il tragico nodo della politica continentale. La Francia, che per il momento è sicura, si crede in pericolo, perchè le hanno dato questa garanzia di sicurezza! Che un nuovo 1813 minacci, ora o tra poco, non pare verosimile. Il paragone non regge. L’Intesa, se non ha saputo fare la pace, non ha abusato della vittoria come Napoleone. La Germania è spossata e ha bisogno di riposo. Lo stato presente dell’Europa è dunque per la Francia una seria garanzia. Ma questo disarmo imposto e accompagnato da tanti controlli offende e umilia la Germania, perchè la sottopone al protettorato dei vincitori. Nessuno sembra essersi accorto ancora che il trattato di Versailles contiene in potenza il protettorato della Germania. Chi può supporre che il popolo, ieri ancora più potente del mondo, ieri ancora ammirato, a torto o a ragione, come il _leader_ della civiltà occidentale, si rassegni da un giorno all’altro a esser trattato come il Marocco? Subirà l’imposizione, ingoierà l’umiliazione, sinchè abbia sul collo la mano del nemico più forte, ma protestando che è ingiusta, maledicendo quella mano, anche se non possa sperare in una pronta riscossa. Ed ecco voltarsi in veleno tutte le garanzie con cui la Francia potrebbe e dovrebbe rassicurarsi. Che tranquillità possono darle alcune migliaia di cannoni distrutti o gli effettivi ridotti, quando sa che la Germania è piena di odio, e che, se la vendetta si offrisse, non esiterebbe? La garanzia vera non è negli strumenti ma nell’_animo_. Il numero e le armi senza l’_animus nocendi_ non inquieterebbero la Francia. Il numero e l’_animus_, anche con poche armi, la spaventano. Quali garanzie imaginare contro l’odio di un popolo, e contro le occasioni che le vicende dei tempi possono offrirgli? Anche disarmata la Germania, con la sua popolazione soverchiante e con il terrore che risveglia il ricordo di quello che osò e seppe fare, apparirà sempre un pericolo ai vicini che essa odia. E a rinfocolare il suo odio provvede appunto ed egregiamente il disarmo obbligatorio, dato dal Congresso alla Francia come garanzia! Purtroppo l’Europa è già ricascata in quel circolo vizioso in cui si dibatteva prima del 1914. La Germania ha paura della Francia e l’accusa di opprimerla spietatamente; la Francia a sua volta ha paura della Germania e l’accusa di volerla distruggere. La paura genera l’odio, e l’odio alimenta la paura. La Germania è esasperata dalla umiliazione del disarmo obbligatorio e sorvegliato; ma questa esasperazione non lascia dormire la Francia, a cui quel disarmo doveva conciliare i sonni tranquilli. Più la Germania disarmerà e più la Francia si insospettirà, perchè crescerà l’odio della nemica. Non può accadere altrimenti. È una catena. Un anno dopo la pace, la Francia arma 700.000 uomini per disarmare la Germania; ma mentre la Germania si crede vittima di una intollerabile iniquità, la Francia si sente minacciata. I due popoli, uno disarmato e l’altro armato sino ai denti, si odiano più che mai, perchè tutti e due hanno paura. Il più grande orrore della storia europea! III. Le riparazioni (1 gennaio 1921) I tedeschi hanno fatto la guerra con il proposito di vincere e di rovinare i nemici. Il crudele Dio della guerra, da essi adorato e obbedito dopo il 1870, comandava di distruggere anche la proprietà del nemico. Non è meraviglia che, terminata la guerra, le nazioni più straziate abbiano chiesto le giuste riparazioni. Ma la giustizia è spesso impotente a colpire gli uomini alla spicciolata: imaginarsi i popoli! I governi, pur tentando di soddisfarlo nella misura del possibile, avrebbero dovuto cercar di frenare questo giustificato risentimento, ricordando ai popoli che, purtroppo, è sempre più facile distruggere che creare, fare il male che ripararlo. Invece lo hanno eccitato. Sul finire del 1918 Lloyd George prometteva all’Inghilterra la testa del Kaiser e il risarcimento totale delle spese di guerra, affermando pubblicamente che la Germania avrebbe potuto pagare anche 600 miliardi. Ma quando i grandi delirano, chi può sperare che i popoli siano savi? L’ossessione dell’indennità si impadronì dello spirito pubblico. Chi lo ha osservato da vicino al lavoro, sa con quanta leggerezza il Congresso della Pace trattò questa materia. Non discusse mai seriamente nè in quale misura si potesse chiedere riparazione secondo giustizia e con fondata speranza di ottenerla; nè con quali mezzi ottenerla e con che garanzie; nè come misurare il danno e il risarcimento di ciascun alleato. Discusse invece tumultuariamente cifre grosse, mediocri, piccole, ma tutte campate in aria; alla fine, come in un mercato, dopo un lungo contrattare, venne nell’accordo di chiedere alla Germania un primo acconto di 125 miliardi e di affidare ad una «Commissione delle riparazioni» il compito di fissare la somma totale entro il 1º maggio 1921; quanto al pagamento, qualche santo aiuterebbe. Nella fretta non si accorse neppure, che aveva condannato la Germania a essere debitrice in perpetuità, ingiungendole di pagare sul suo debito totale un interesse annuo del cinque per cento. Non i tedeschi, ma i francesi, hanno calcolato che sommando quell’interesse ogni anno al capitale, la Germania, pur pagando da 3 a 5 miliardi all’anno, di qui a 30 anni dovrebbe ai suoi nemici su per giù la stessa somma! Non c’è da farsi illusioni. Queste riparazioni abborracciate e incoerenti, invece di riparare i guasti fatti dalla guerra, guasteranno anche quel che alla guerra è scampato. Che la Germania voglia e possa pagare anche solo 125 miliardi nello spazio di una generazione, sembrerà per lo meno molto dubbio ad ogni persona di buon senso. Gli scrittori francesi si sforzano da qualche tempo di dimostrare che la Germania può pagare. Ma i loro argomenti, se sono ingegnosi, peccano tutti per lo stesso difetto; suppongono che la Germania voglia, perchè può e deve, lavorare per le sue vittime e per i suoi nemici, con lo stesso fervore con cui prima della guerra lavorava per sè, per la sua ricchezza e per i suoi piaceri. La Germania potrebbe pagare, se acconsentisse a dare al mondo un così sublime esempio di pentimento cristiano. Ma chi la crederà ambiziosa di questa palma? La civiltà occidentale da un secolo non conosce riposo. Ma con che pungolo ha incitato l’innata pigrizia degli uomini all’insonne travaglio? Con l’allettamento di maggiori comodità e di maggiori piaceri. Da un secolo in Europa e in America l’agiatezza e il lusso delle moltitudini crescono, con spavento non piccolo e scandalo di molti; ma che cosa sono l’uno e l’altra se non il premio e lo sprone della cresciuta alacrità? L’uomo non lavora, se non spera un premio. Gli europei e gli americani lavorano molto più che gli orientali, perchè hanno contratto bisogni e si sono avvezzati a godere molti beni, che gli orientali non conoscono. Chi spera che i tedeschi lavoreranno per una o due generazioni anche più indefessamente che nel passato, contentandosi di vivere poveramente, come dei mussulmani, si illude. E se i tedeschi non faranno questo sacrificio, come potranno riparare il male? Risarcire una vittima vuol dire lavorare per essa gratuitamente. Nè la forza può in questa materia far nulla. Anche la vittoria è impotente. Lo staffile e la paura possono muovere alla meglio un rozzo schiavo maldestro; non un operaio, nè un contadino dei nostri tempi, e tanto meno un intero popolo. Se si tenterà di obbligare con la forza la Germania a lavorare per le sue vittime, la Germania si spopolerà. Già l’industria tedesca ha incominciato ad emigrare, per lo spavento delle imposte che la minacciano. La guerra mondiale ha impoverito la Germania più che i suoi nemici; e molti fatti inducono a credere che questa miseria durerà a lungo, se pure non crescerà. Ma come sperare che la Germania impoverita voglia e possa rifare tutto ciò che i suoi eserciti hanno devastato? Questi non sono arcani di saggezza riposta ma considerazioni del buon senso. Molti ne convengono, ragionando a quattro occhi: ma a che serve? L’Europa è incatenata dai trattati. I governi si attengono ai testi di questi trattati; come se potessero eseguirsi alla lettera. I ministri delle finanze fanno i loro conti, come se i crediti sulla Germania fossero di scadenza infallibile. E potrebbero gli uni e gli altri fare altrimenti? Potrebbe un governo, un anno dopo aver firmato dei trattati di quella mole e averli proclamati la felicità e il prodigio del mondo, dire che non sono applicabili? Potrebbe un ministro delle Finanze dichiarare di sua testa inesigibile un credito, scritto in alcuni dei più solenni documenti della storia universale? A loro volta nessun giornale, nessun uomo eminente e autorevole vuole assumersi la responsabilità di dichiarare imaginarî e irreali dei diritti, che i governi dichiarano validi e fermi. Tutti coloro, che sanno come stiano le cose, si legano a vicenda nella menzogna o nel silenzio complice. Il pubblico, che non può discernere chiaramente in così grandi cose il possibile dall’impossibile, e che è spinto a chiedere riparazione e vendetta dalla giustizia e dall’interesse, si conferma nella persuasione che la Germania pagherà. Che pagherà, perchè _deve_ pagare. Ma questa sicura aspettazione dei popoli lega i governi. Quale governo oserebbe denunciare per malsicuri quei crediti, quando i popoli già si immaginano di palpare il denaro? I popoli non intenderebbero ragione; e si risentirebbero, come derubati, contro i governi. Senonchè questo malinteso non può durare eternamente. Un giorno o l’altro tutte le illusioni saranno sbugiardate dalla brutalità del reale. Prima o poi, i popoli dovranno accorgersi che la Germania non può perchè non vuole, e non vuole perchè non può pagare se non una piccola parte delle indennità imposte. Che cosa accadrà quel giorno tra i popoli illusi e delusi, e i governi compromessi e impegnati? Io non so che cosa accadrà, e non voglio tentare di indovinarlo. Ma confesso di non poter pensare a quel giorno senza ansietà, perchè troppo dubito e temo che il terribile nodo non possa sciogliersi a poco a poco, tranquillamente, senza strappi. In questo almeno il Keynes ha ragione: un aiuto serio e efficace non poteva esser dato ai paesi che più hanno sofferto per le devastazioni delle guerre, all’Italia, alla Francia, al Belgio, alla Serbia, se non da un accordo tra gli alleati. I più ricchi e fortunati tra i vincitori avrebbero dovuto integrare, a condizioni eque e con sussidi diretti e indiretti, le ragionevoli indennità imposte ai vinti, per salvar ciascuno in particolare, salvando tutti insieme, vincitori e vinti. Il sacrificio consentito dagli alleati più ricchi sarebbe stato presto ricompensato dal rapido rifiorire della prosperità generale. Ma questa intesa rigeneratrice non poteva essere stretta senza l’America; e poteva l’Europa chiedere questo servizio e questo sacrificio all’America, quando le aveva tolto il frutto della sua vittoria? Si ricasca sempre lì. Esclusa dal Congresso della pace la questione dei mari, tutte le questioni continentali sono diventate insolubili. Perfino quella delle riparazioni. IV. Trattati di carta velina (13 gennaio 1921) Fu un tempo, che i trattati si incidevano nel bronzo e nel marmo. I tempi nuovi si accingono a copiarli sulla carta velina? L’inchiostro dei trattati di Versailles e di Sèvres non era ancora seccato, e già si parlava di rifarli! Non s’era visto ancora nella storia un così pronto pentirsi dell’irrevocabile. Sul trattato di Versailles cadono fitte le accuse. Sarebbe iniquo, oppressivo, dettato dall’odio alla prepotenza. Esagerazioni. Il trattato ha pregi e difetti; e tutt’assieme l’Europa potrebbe forse compensare gli uni e gli altri in una applicazione savia e giudiziosa, se non avesse davvero un difetto di cui nessuno parla, ma che è peggiore di tutti i vizi denunciati, veri o falsi. Ed è che non si sa precisamente se esista o non esista; se sia un trattato vero e vivo, o un pezzo di carta inoperante a dispetto delle ratifiche. Chi dice che è un trattato vero e chi dice di no; tutti aspettano impazienti che i fatti sciolgano il dubbio, ma i fatti non hanno fretta; la parte buona come la parte cattiva del trattato riposa sopra un’«incertezza», che non vuol chiarirsi. Onde la strana ansietà che si impossessa dell’Europa, perchè non sa se ha o se non ha fatto la pace. L’evento è così strano, che giova intenderlo bene. Un pezzo di carta scritta non diventa un trattato operante, un impegno sacro, una legge imperativa tra i popoli se non per virtù di consenso spontaneo o di coazione. Affinchè un trattato non resti lettera morta e sia osservato, è necessario che, o il vinto lo riconosca e si consideri obbligato, sia dall’onore, sia dal suo stesso interesse, a obbedirgli; o che il vincitore sia tanto forte che il vinto non osi ribellarsi e l’osservi. Il trattato di Versailles sfugge all’uno e all’altro dei due requisiti. Questo è il suo vero difetto. A torto o a ragione, i tedeschi sono persuasi di aver dovuto subire a Versailles il ricatto di Brenno. Come i francesi dopo il trattato di Francoforte, essi maledicono il trattato e denunciandolo iniquo si considerano tenuti ad osservarlo soltanto nella misura in cui la forza li costringa. Alla forza spetterebbe dunque di far rispettare il trattato. Ma la forza c’è? In questo sta il tutto. La Germania è stata vinta nella guerra mondiale da una coalizione, che in parte si è sciolta, in parte si è rallentata. Nessuno potrebbe oggi dire quali forze sarebbero pronte domani per imporre il trattato alla Germania recalcitrante. La Francia sola? La Francia e il Belgio? La Francia, l’Inghilterra, il Belgio? Nè è facile indovinare quel che la Germania potrebbe fare domani, se volesse tentare di lacerare il trattato od opporre una resistenza passiva. Nessuno lo sa, neppure la Germania. Chi dice la Germania prostrata per secoli; chi la rivede tra pochi anni più potente e minacciosa di prima. Il male segreto che strugge l’Europa è proprio questa incertezza. La Germania vorrebbe accertarsi che la coalizione nemica è sciolta o impotente: ma i fatti la confortano appena di qualche malsicura speranza. A sua volta la Francia vorrebbe esser certa che la coalizione con cui ha vinto la guerra non l’abbandonerà mai; e che anche se si sciogliesse, basterebbero al trattato le sue sole forze. Ma anche per la Francia i segni dei tempi sono confusi e malsicuri. Le altre potenze aspettano gli eventi, senza far nulla per chiarire quell’incertezza, parlando come se la coalizione sussistesse ancora ed operando come se non ci fosse più. Onde la coalizione e quindi la forza che dovrebbe imporre il trattato c’è e non c’è; ora par che ci sia, ora no; e il trattato compilato con tanta fatica sussiste e non sussiste, ora c’è, ora non c’è, secondo che pare o non pare esistere una forza adeguata per imporlo. La Germania si acconcia ad eseguire ad uno ad uno gli impegni meno gravosi del trattato, ma tutti all’ultimo momento, lentamente, cercando di guadagnar tempo e sperando che alla fine il trattato apparisca non essere altro che un pezzo di carta, per la parte non eseguita. La Francia invece fa disperati sforzi per tenere legata la coalizione, e, temendo che alla fine si sciolga, cerca di affrettare l’esecuzione; ma è sempre in ansia di trovarsi tra le mani una lettera morta. Del trattato di Sèvres il discorso è ancora più semplice. Qui non ci sono dubbi. La forza per imporlo non è mai esistita; e perciò il trattato non è esistito mai fuorchè nell’immaginazione dei suoi compilatori. L’Inghilterra, la Francia, la Grecia fecero un giorno un bel sogno: spartirsi le spoglie della Turchia, vinta nella guerra mondiale, e della Russia, smembrata dalla rivoluzione. Senonchè non bastava aver vinto un esercito tedesco sul Reno per impadronirsi della Mesopotamia, della Palestina, della Siria, di Costantinopoli, del Mar Nero; occorreva mandare in Asia un esercito, e strappare con una nuova guerra quei paesi alla religione che ancora li domina. Nè la Francia, nè l’Inghilterra potevano; e allora Lloyd George immaginò di intendersi con Venizelos, offrendo in premio Smirne e la Tracia. Senonchè la combinazione pericola, un po’ perchè l’esercito greco non basta al compito, un po’ perchè il popolo greco non vuol più saperne di questa guerra. Per odio alla guerra il suffragio universale ha rinnegato Venizelos.[13] Ma se viene a mancare la sola forza, su cui l’Europa poteva fare assegnamento per imporlo, che altro sarà il trattato di Sèvres se non un pezzo di carta? L’Inghilterra cerca oggi di mettersi d’accordo con re Costantino, affinchè continui in Asia Minore la guerra incominciata dal Venizelos: ma questo stratagemma puerile potrà soltanto ingrandire la catastrofe, differendola di qualche mese. «Il mondo non muta — dicevano volentieri, durante la guerra, i «realisti» e gli scettici. — In questa come in tutte le guerre, i vincitori cercheranno alla fine di ingrandirsi a spese dei vinti, obbedendo al proprio egoismo. È un sogno supporre che l’Inghilterra acconsentirà mai a spogliarsi anche parzialmente, a favore del genere umano, del dominio del mare; o che le grandi potenze superstiti, amiche e nemiche, potranno intendersi tra loro e con l’America per tentare un riordinamento generale degli affari di Europa, prendendo le mosse dalla limitazione degli armamenti». E purtroppo lo scetticismo ha avuto ragione. I vincitori hanno fatto la pace, come se questa fosse una delle solite guerre, badando ciascuno al suo interesse singolo e imponendolo nella misura della sua forza. Ma si è avverata anche la previsione, che la saggezza veggente opponeva a quello scetticismo: la pace non è pace e sta deludendo l’orgoglioso egoismo che l’ha dettata. Non avendo riordinato l’Europa su principî di solidarietà accettati dai vinti e dai vincitori, i vincitori non hanno potuto nè dare alla Francia le garanzie da questa richieste, nè agevolare ai paesi devastati dalla guerra la necessaria restaurazione; ed alla fine hanno compilato dei trattati, la cui osservanza dovrebbe essere imposta da una forza che spesso non c’è; più spesso non è ben sicuro se esista o no. V. Il capovolgimento dell’Austria-Ungheria (29 gennaio 1921) Nata dall’antico odio di Francia e Germania, la guerra mondiale ha distrutto gli Absburgo. Ai vincitori è toccato anche il compito di spartire l’eredità di quella corona. Tutti sanno come si governava l’impero poliglotta degli Absburgo. Molte razze diverse erano sottoposte al dominio di due razze egemoni, i tedeschi e gli ungheresi, e all’autorità della corona imperiale che le governava tutte, dominate e dominatrici, per mezzo di un’antica aristocrazia e di una burocrazia fedelissima. Non erano pochi i difetti di questo governo. Teneva in soggezione le classi medie e l’intelligenza; cercava di soffocare la coscienza nazionale di tutti i popoli dell’impero, che non parlavano tedesco o magiaro; accarezzava la plebe e le permetteva anche di civettare con la rivoluzione sociale, purchè fosse contenta di essere plebe soltanto e non aspirasse a diventare nazione. A compenso di tutti questi difetti l’impero aveva una qualità: non si reggeva soltanto per la forza. Tra i suoi titoli di autorità c’era, oltre l’esercito e la polizia, anche il prestigio della dinastia. Sebbene nell’ultimo mezzo secolo il sentimento nazionale si fosse risvegliato nei popoli soggetti all’egemonia tedesca e magiara, non aveva spento l’antica devozione alla dinastia. L’impero si reggeva ancora, negli anni che precedettero la guerra, perchè milioni di uomini parlanti lingue diverse veneravano l’imperatore come il legittimo signore, e si credevano obligati ad obbedirgli. La guerra l’ha provato. Da principio molti predissero che l’impero sarebbe stato dopo pochi mesi sfracellato dall’esplosione degli odî nazionali. Invece tra le razze dell’impero sottoposte all’egemonia tedesca e magiara solo gli czechi hanno, sino dal principio della guerra, resistito con un certo vigore all’autorità imperiale. Le altre hanno combattuto fedelmente fino al 1918. Soltanto nella seconda metà del 1918, quando la misura delle sofferenze fu colma, il sentimento nazionale esplose nelle moltitudini, come un accesso di disperazione. Tutti quei popoli vollero essere nazioni, quando s’accorsero che la corona austro-ungarica non poteva più salvarli. Così si sfasciò l’impero degli Absburgo. Con i suoi frammenti e con numerose amputazioni dell’Ungheria, della Germania e dell’antico impero russo, i trattati di pace hanno costituito tre nuovi stati: la Polonia, la Czeco-Slovacchia, la Jugoslavia. Ma come li hanno costituiti? Capovolgendo l’antica Austria-Ungheria degli Absburgo. In questa il governo era monarchico e aristocratico. In quei nuovi stati è repubblicano, fuorchè nella Jugoslavia; e in tutti è democratico, perchè il suffragio universale è la fonte dell’autorità. Nell’impero degli Absburgo i tedeschi e i magiari erano i dominatori e gli oppressori: nei nuovi stati i tedeschi ed i magiari hanno preso, insieme con alcuni popoli nuovi, il posto delle antiche loro vittime, mentre queste salivano al rango di dominatori. Il che può anche parere giustizia, almeno in una certa misura. _Qui gladio ferit, gladio perit_. I tedeschi e i magiari hanno troppo abusato della loro potenza nell’impero, impegnandolo nell’orribile guerra. Che questi nuovi regni e queste nuove repubbliche siano stati fondati quasi per rappresaglia contro l’impero, e che le minoranze, prima della guerra sottoposte all’egemonia tedesca e magiara, vogliano far sentire agli antichi padroni che il mondo si è capovolto, si capisce, sino ad un certo punto. Il Congresso della pace, impegnato a voler sciogliere tanti nodi insolubili, non ha avuto la forza di frenare queste vendette. Ma un pericolo c’è. Nell’impero degli Absburgo i tedeschi e i magiari imponevano la loro egemonia un po’ colla forza, un po’ con il prestigio secolare della corona degli Absburgo. Nei nuovi stati l’egemonia dei polacchi, degli czechi, dei serbi sui tedeschi, sugli ungheresi, sui croati, sugli sloveni, sui montenegrini, sugli albanesi e sui bulgari potrà farsi valere soltanto con la forza. Appunto perchè i nuovi stati riposano sul principio nazionale, non possono giustificare con nessun principio di diritto l’oppressione delle altre nazionalità, la persecuzione delle loro lingue, la chiusura delle loro scuole, la loro degradazione politica. La forza resta il solo argomento. Onde la guerra ha liberato i popoli, regalando loro dei governi che, sinchè lo spirito attuale di rappresaglia infierisca, saranno molto più duri che l’impero degli Absburgo; tanto più duri e violenti, quanto più deboli. Poichè questi stati nascono deboli. Nascono esauriti dalla guerra, e già falliti prima di aver cominciato ad amministrare; senza uomini e senza mezzi adeguati al compito, senza altro principio di autorità che il suffragio universale, ossia in balìa di moltitudini avvezze da secoli ad obbedire un’autorità quasi assoluta. Potranno soverchiare minoranze indocili, perchè avvezze da secoli a comandare? E infatti vivono già tutti nel sospetto. La Polonia ha paura della Russia e della Germania; e non è nemmeno sicura della Czeco-Slovacchia. La Czeco-Slovacchia guarda con diffidenza la Germania e l’Ungheria. La Jugoslavia ha paura dell’Ungheria e della Bulgaria; e, dopo la caduta di Venizelos, non si fida più nemmeno troppo della Grecia. Ogni stato si chiude in sè, si isola, vieta persino il commercio con i vicini. I grossi eserciti sarebbero un buono scudo; e la voglia di possederli non mancherebbe a nessuno di questi stati. Manca invece il denaro; e non son neppur sicuri gli uomini, perchè nelle moltitudini, ieri schiave oggi sovrane, le idee comuniste fanno strada. Incominciano gli intrighi diplomatici, le intese, i progetti di alleanza offensiva e difensiva, man mano che in ogni stato l’odio tra dominanti e oppressi si inasprisce. La piccola Intesa è il primo tentativo di corroborare, con gli accordi e con diplomazia, forze vacillanti e poco sicure di sè. Insomma nella pace austriaca ritroviamo lo stesso difetto che nelle altre paci. Anche questi trattati hanno creato un ordine di cose che non può reggersi se non sulla forza: ma se la forza necessaria per reggerlo esista, è dubbio. Onde un’incertezza, un sospetto, un’ansietà universali. Se oggi ci sia nel cuore dell’Europa più giustizia che prima della guerra, non so; ma è certo che c’è molto più odio e molta più paura. L’odio che genera la paura; e la paura che genera l’odio. Come uscire da questa tragica stretta? VI. La Polonia e la Russia (28 agosto 1920) L’Intesa è miracolosamente scampata ad una disfatta in Polonia. Quando la fortuna volgeva favorevole alle armi sue, il Governo di Mosca, prendendo a testo e ad esempio il trattato di Versailles, aveva annunciato di voler imporre alla Polonia, tra le condizioni di pace, il disarmo obbligatorio. Se la Polonia non avesse avuto la forza di respingere l’invasore, che cosa avrebbe potuto fare l’Intesa? L’Intesa non poteva aiutarla nè con armi temporali nè con armi spirituali. Non poteva mandare soldati in Polonia; non poteva protestare contro il disarmo imposto dai bolscevichi, poichè essa l’aveva imposto alla Germania. Difatti il governo inglese aveva già consigliato la Polonia di chinare il capo, aggiungendo che il vinto aveva meritato la sua sorte; e molti, in Inghilterra e altrove, aguzzavano i sofismi per dimostrare che le condizioni poste dai bolscevichi alla pace erano eque e generose! Non sembrerà vero ai posteri, ma è così. La Polonia sarebbe diventata un protettorato russo: invece di essere il cuneo cacciato tra la Russia e la Germania per separarle, sarebbe stata il ponte che le avrebbe congiunte; il primo passo verso l’alleanza della Russia e della Germania sarebbe stato fatto; e si sarebbe visto il primo schieramento per una nuova guerra generale, più o meno lontana. Sarebbe difficile immaginare per l’Intesa una disfatta più grave. Eppure l’Inghilterra e l’Italia parevano già rassegnarsi in precedenza! La Polonia, se ha commesso molti errori nel suo primo anno di vita, ci ha almeno risparmiato questa calamità. Ad una condizione però: che Francia, Italia, Inghilterra sappiano meritare l’insperata fortuna delle vittorie polacche. La politica russa dell’Intesa è viziata da una contraddizione, che è la ragione profonda di molti guai presenti e che sarà seme di infiniti mali futuri. L’Intesa vuole che la Russia risusciti. Lo sprofondamento del grande impero ha fatto in Europa ed in Asia un tal vuoto, che l’equilibrio dell’intero pianeta è stato alterato. Sinchè questo vuoto non sia in qualche modo riempito, non si potrà rimettere in pernio e bilanciar bene nè l’Europa e nè l’Asia. Ma poichè i grandi e sùbiti rivolgimenti ripugnano alla natura umana, sembra ai governi dell’Europa che più prontamente e meglio di ogni altro riempirebbe quel gran vuoto uno stato che rassomigliasse all’impero caduto: ossia unito e vastissimo. Si aggiunga che nel vuoto fatto dall’impero russo sprofondando, è sparita anche una parte della fortuna dell’Europa. Non potendo scendere nell’abisso a rintracciare i suoi tesori, l’Europa non vedrebbe di malocchio che di sotto ai rottami uscisse un nuovo gigante, capace di riportarli sulle sue spalle alla luce del sole. Francia e Inghilterra sognano un impero sifatto, che pagherebbe i debiti contratti dall’antica Russia. Per queste ragioni l’Intesa vorrebbe che la Russia rinascesse con la forza e il vigore e la ricchezza di un tempo, se non maggiore. Ma aspettando che risorga, la mura viva in precedenza, per il giorno della resurrezione, nell’interno dell’Europa e dell’Asia. L’Inghilterra l’ha isolata dal Baltico, con la sua oscura politica, che mira a far clienti le repubblichette sorte negli ultimi anni sulle sponde di quel mare. La Polonia è stata ricostituita, perchè sia la sua carceriera dalla parte di Occidente e della Germania. Il trattato di pace con la Turchia consegna Costantinopoli all’Inghilterra, alla Francia e all’Italia; e sbarra di una triplice porta le sue comunicazioni con il Mediterraneo. Il trattato tra la Persia e l’Inghilterra, per fortuna già sospeso e che sarà abrogato, sarebbe stato un altro sbarramento, che la Russia, ritornata a vita, avrebbe trovato nell’Asia Centrale. È possibile supporre che la Russia, il giorno in cui ricuperasse una parte dell’antico vigore, si acconcerebbe a vivere entro quella prigione? I trattati di pace firmati nel 1919 e nel 1920 portano nei loro fianchi molte guerre future; e tra queste anche una grande guerra tra l’Inghilterra e la Russia e una grande guerra tra la Russia e la Polonia. La Russia non potrà tollerare, se non per debolezza e impotenza, di essere esclusa dal Baltico, di esser sorvegliata ed isolata in Europa da una Polonia diffidente ed ostile, di aver tre grandi potenze europee come sue carceriere a Costantinopoli. Quel che farebbe la Russia il giorno in cui avesse recuperato le forze, si può argomentare da quel che fa oggi, quasi agonizzante. Nè si creda che l’Europa avrebbe da guadagnare, per questo rispetto, da un mutamento di regime. Qualunque fosse il governo con cui si reggesse la Russia, anche fosse un governo insediato dalle armi dell’Intesa, sarebbe costretto a tentar di lacerare i trattati di pace del ’19 e del ’20, appena potesse, da una necessità vitale. Questo stato di cose spiega in parte, se non giustifica, l’attacco della Polonia. Esso è stato severamente biasimato. Non si negherà che da un popolo, al quale la forza e la conquista avevano inflitto tanti tormenti, si poteva aspettare di meglio, che questa fretta famelica di conquistatori arrivati troppo tardi! Senonchè non bisogna dimenticare che la Polonia è stata posta dall’Intesa in una posizione quasi disperata di sentinella morta e che deve pensare ai casi suoi. Si trova tra due giganti feriti; e sa che il primo, che abbia fasciate le sue piaghe e recuperato le forze, le salterà addosso, se non le salteranno addosso tutte e due insieme. Se anche prima della guerra presente essa si faceva delle illusioni, non potrebbe più ignorare che in una guerra con la Russia, essa non può sperare nessun aiuto se non di consigli e di parole dai suoi alleati di Occidente. Essa deve perciò cercare di indebolire quanto più può la Russia, anche con guerre aggressive, per non ritrovarsi domani a subire una pace simile a quella che i bolscevichi volevano imporle; poichè non c’è altra alternativa finchè un nuovo spirito non soffi sull’Europa. O la Russia muore di estenuamento e si dissolve in pulviscolo; o risorge, e la Polonia non può sperare miglior sorte che di essere la sua protetta e il ponte che la congiunge alla Germania. Se ne ricordi, chi vuol orientarsi nel caos presente. Occorre, se si vuol ridare la pace all’Europa, rifare la pace con la Russia; ma sarebbe imprudente credere che la pace con la Russia sia minacciata soltanto dall’imperialismo polacco. Grande e lodevole è lo zelo per la pace di Lloyd George, dei pacifisti e dei laburisti inglesi; ma si risveglia un po’ tardi. Sarebbe stato meglio si fosse manifestato non soltanto quando i polacchi incominciavano ad essere respinti dagli eserciti rossi; ma allorchè il Governo inglese firmava il trattato con la Persia, o incominciava la sua oscura politica baltica, o compilava il trattato di pace con la Turchia. Se lo spirito e l’indirizzo di tutta la politica dell’Intesa verso la Russia non mutano; se non si cesserà di considerare la Russia come un moribondo, caduto sul campo di battaglia, e che i saccomanni possono spogliare prima ancora che sia spirato, le vittorie dei polacchi non serviranno a nulla. VII. Il protettorato del mondo (10 agosto 1921) Ho riletto in questi giorni, uno dopo l’altro, tutti i trattati di pace, che avrebbero dovuto sigillare per qualche secolo le porte di Giano. Mi è parso di leggere un nuovo capitolo delle «Mille e una notte». Poichè in quei trattati sta scritto il protettorato del mondo: nè più nè meno. In forza di quei trattati la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e il Giappone si assumono di governare, o ciascuna in nome proprio o tutte insieme, o per governo diretto o per via di protettorato, l’Europa, l’Africa e quasi tutta l’Asia, ad eccezione dei territori in potere dei bolscevichi: quello, insomma, che per gli antichi era il mondo. Non si potranno accusare i vincitori della guerra mondiale di soverchia modestia! Il trattato di Versailles sottopone le armi della Germania e le industrie che fabbricano le armi alla sorveglianza di commissioni permanenti delle potenze alleate. L’obbligo delle riparazioni, nella forma in cui è stato imposto alla Germania, necessita il controllo delle finanze. La commissione delle riparazioni ha già ricevuto ampi poteri dal trattato di Versailles; ma questi non bastano. Già si parla di una vera e propria commissione internazionale, che riveda i conti dello stato tedesco, imponga economie e balzelli, impedisca alla Germania di frodare i creditori dissipando la sua fortuna. Ma dal controllo delle armi e delle finanze al controllo della politica estera il passo sarà breve. È una catena. A che giova controllare le armi ed i conti, se poi si lascia libero lo stato disarmato di cercare alleanze, che compensino la sua debolezza? La Germania è dunque ormai un protettorato collettivo della Francia, dell’Italia e dell’Inghilterra. Quella che era ieri la prima potenza del mondo è oggi protetta da tre potenze, ciascuna delle quali è molto più debole di essa! Eguale è la condizione in cui i trattati di pace hanno posto l’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria. Le potenze vincitrici si sono assunta la sorveglianza delle armi e delle finanze. Dell’Austria anche la politica estera è sottoposta a controllo, almeno nei riguardi della Germania. L’Ungheria invece è sorvegliata, se non dai trattati, dalle Cancellerie, nelle sue istituzioni interne, poichè non può sciegliere tra la repubblica e la monarchia o eleggere un nuovo re senza il consenso dei vincitori. Dell’antico impero turco la Siria, la Palestina, la Mesopotamia sono diventate, sia pure per l’interposta persona della Società delle Nazioni, e con la formola dei mandati, protettorati dell’Inghilterra e della Francia. Le chiavi dei Dardanelli passano alla Commissione degli Stretti, ossia all’Inghilterra, alla Francia, all’Italia. Il trattato di Sevrès vorrebbe che il Califfo difendesse l’Islam da Costantinopoli non più sua, come inquilino e protetto delle grandi potenze europee, mezzo cristiane e mezzo miscredenti. Disarma la Turchia e sottopone il suo esercito alla vigilanza di una commissione; le impone una gendarmeria comandata da ufficiali europei, alleati o neutri; crea una commissione finanziaria, che rivedrà i conti del governo turco, e sarà composta dai rappresentanti dell’Italia, della Francia, dell’Inghilterra e della Turchia, ma quest’ultimo a solo titolo di consultazione. Senza il consenso di questa commissione nessun bilancio sarà valido e il governo turco non potrà alterare nè imposte nè dogane! Nè basta. Già il 13 dicembre del 1914 l’Inghilterra aveva proclamato l’Egitto un suo protettorato, spezzando, con una prepotenza innanzi a cui anche i tedeschi avrebbero forse esitato, quella che si potrebbe chiamare l’ossatura legale di una civiltà tanto antica. Nel ’19 essa tentava di impadronirsi, con un trattato, della Persia. Infine le grandi potenze vittoriose si sono impegnate ad aiutare con denari, con consigli, con funzionari, con appoggi diplomatici, gli stati nuovi e vecchi, che sono nati o si sono ingranditi sulle rovine dell’impero russo e della duplice monarchia: le repubbliche baltiche, la Polonia, la Czeco-Slovacchia, la Rumenia, la Jugoslavia, la Grecia. Anzi è già incominciata la gara per assicurarsi la clientela di queste piccole potenze, in cambio di una benevola protezione. La Francia mira alla Polonia, alla Czeco-Slovacchia, alla Rumenia, alla Jugoslavia; l’Inghilterra alla Grecia e alle repubbliche baltiche. È noto a tutti, infine, quel che accade tra il Giappone e la Cina. Ma Giappone e Cina, per fortuna, sono molto lontani. Siamo dunque i padroni del mondo. Roma è oscurata. Proconsoli, pubblicani, amministratori: avanti! Se ci siamo assunti di governare tre continenti e tante lingue, razze e religioni così diverse, vuol dire che il genio politico corre le strade. Non voglio qui discutere se questo «sistema» attui o rinneghi le dottrine bandite dall’Intesa durante la guerra. Ma vorrei chiedere invece se l’Italia, la Francia e l’Inghilterra — poichè il Giappone si chiude negli affari dell’Oriente Estremo — hanno tutte insieme e singolarmente i soldati, le intelligenze, la scienza di stato, necessaria a reggere un così vasto e molteplice impero che abbraccia tanti popoli e stati diversi. Chi non vede che occorrerebbero milioni di soldati, ingenti capitali, un personale esperto che conoscesse a fondo tutti questi paesi, dei governi saggi, risoluti, concordi nell’azione comune, onniveggenti, che sapessero tenere d’occhio i quattro punti cardinali, conoscere egualmente bene quel che matura in Germania, nei Balcani, nell’Asia minore; provvedere con pari prontezza e sagacia a un pericolo o a un bisogno che nascesse o sulle frontiere della Persia o sulle rive del Baltico? Ci sono in Italia, in Francia, in Inghilterra questi soldati, questi capitali, questi funzionari, questi governi di esemplare saggezza? E se non ci sono, questo «sistema» non crollerà un giorno sul capo degli incauti architetti, come una torre di altezza spropositata? Si rimprovera spesso a quei trattati lo spirito imperialista. Se almeno fossero davvero imperialistici! La forza è una forza, se esiste davvero, anche quando abusa. Ma i vincitori della Germania hanno voluto abusare di una forza, che non possedevano. I trattati sono non imperialisti, ma chimerici, perchè per applicarli occorrerebbero forze che non ci sono. Sembrano aver pensato solo ai vantaggi che assicuravano ai popoli, non agli impegni e alle responsabilità che assumevano in loro nome, imponendo certe condizioni ai nemici; cosicchè per disarmare, diminuire, umiliare il nemico vinto e obligarlo a risarcire una parte del male fatto, hanno caricato sulle spalle dei loro disgraziati popoli un peso, che questi non possono sopportare. Dei quali pesi il più grave è forse il disarmo dei nemici vinti, che nella ingenua convinzione dei vincitori doveva essere il loro maggiore sollievo. I trattati di pace hanno disarmato la Germania, l’Austria, l’Ungheria, la Bulgaria e la Turchia; ma i loro sagaci autori non sembrano aver pensato che, disarmando questi stati, i popoli vincitori si assumevano la responsabilità dell’ordine interno e della sicurezza esterna degli stati disarmati, ossia di immensi territori in Europa e in Asia, dei quali la maggior parte sfugge e sfuggirà sempre alla loro potenza. Dopo averli disarmati, gli Stati vincitori non possono e non potranno, se gli Stati vinti siano assaliti da nemici esterni od interni, dir loro che provvedano ai casi propri con le piccole forze di cui dispongono, anche se queste non bastano! Abbandonerebbero una terza parte dell’Europa all’anarchia. L’Alta Slesia è un bell’esempio dei pericoli, che aspettano al varco questi protettori del mondo senza forze sufficienti. Inebriata dalla vittoria, l’Intesa si è immaginata che lo spirito di Salomone si fosse incarnato in lei; e che potrebbe dividere secondo giustizia l’Alta Slesia tra polacchi e tedeschi. Senonchè al momento di procedere alla spartizione, il novello Salomone si è accorto che spartire il paese non bastava, bisognava anche persuadere o costringere i due contendenti ad accontentarsi della parte che sarebbe toccata a ciascuno di loro. Quanto ai tedeschi, finchè la Francia potrà mantenere sotto le armi 700.000 soldati, Salomone, salvo l’imprevisto, non dovrebbe correre pericolo di essere vituperato come un giudice iniquo a Berlino. Ma i polacchi? Con qual mezzo costringerli a rispettare la giustizia di Salomone? Il nodo insolubile dell’Alta Slesia è questo. L’Intesa non ha nessun mezzo sicuro per farsi obbedire dai polacchi. I cannoni della flotta britannica non servirebbero molto più che i discorsi di Lloyd George. Se i polacchi si ribellassero a Salomone, l’Intesa dovrebbe o permettere alla Germania di difendere i suoi diritti da sola annullando il disarmo, o impegnarsi essa in guerra con la Polonia a difesa della Germania disarmata. Chi può credere che la Francia acconsentirà ad annullare da un giorno all’altro il disarmo imposto alla Germania dal trattato di Versailles, senza i compensi e le garanzie che nessuno vuol dare? Chi può credere che i soldati francesi, inglesi e italiani rischieranno la vita per difendere gli interessi e i diritti tedeschi nell’Alta Slesia? Ma l’Alta Slesia è il primo dei grossi imbrogli, nati da questo impotente protettorato del mondo. Il primo, non il maggiore. Altri nasceranno, e più pericolosi, in Europa e in Asia. Lasciate che i tempi e gli eventi maturino. Che peso è e sarà questo protettorato del mondo, assunto da Stati che dovrebbero piuttosto pensare ai casi proprî! VIII. La politica realistica I vincitori della guerra mondiale vogliono: _a_) disarmare la Germania, imporle il proprio protettorato, costringerla a pagare una taglia di centinaia di miliardi; _b_) mutilare l’Ungheria e fare la guardia all’Austria; _c_) murare la Russia nell’interno dell’Asia e dell’Europa, addossandola ai ghiacci del polo; _d_) togliere all’Islam Costantinopoli, smembrare l’impero turco, conquistare l’Asia minore, la Siria, la Palestina, la Mesopotamia; Nel tempo stesso: _a_) hanno espulso dall’alleanza l’America; _b_) si son fatti tra di loro mille dispetti e tradimenti, cosicchè oggi il Belgio ha ragione di rinfacciare ai grandi alleati la loro ingratitudine, l’Italia può lagnarsi a ragione d’essere stata maltrattata, sotto sotto c’è un gran malumore tra Inghilterra e Francia; _c_) l’Inghilterra ha congedato quasi tutti i suoi eserciti; l’Italia ha congedato quasi tutti i suoi eserciti; il Belgio ha congedato quasi tutti i suoi eserciti; restano ancora sotto le armi 700.000 francesi, che devono sostenere la pace e l’ordine del mondo; e la Francia si rovina per mantenerli. Nel secolo XX questa si chiama «politica realistica». PARTE QUARTA. VINTI E VINCITORI NEL CAOS DELLA PACE _La quarta parte si compone di articoli pubblicati nel_ Secolo _tra il 1921 e il 1923, che analizzano e studiano alla luce delle idee le conclusioni esposte nella terza parte, gli eventi di maggiore importanza accaduti in quei due anni: la conferenza di Washington e quella di Genova, la proclamazione dell’indipendenza dell’Egitto, le difficoltà dell’Europa orientale, la riscossa della Turchia nell’Asia Minore, la questione dei debiti, l’aggrovigliarsi del nodo delle riparazioni, la nuova guerra tra la Francia e la Germania, incominciata con l’occupazione della Ruhr. Mentre tutti questi eventi si spiegano con le conclusioni della parte precedente, a loro volta le confermano, mostrando come molte delle previsioni precedenti si sono verificate._ I. L’Europa dopo due anni di pace (8 novembre 1921) Sono due anni che la pace è stata scritta sulla carta. In che condizione si trova l’Europa? Diamo un’occhiata in giro. I trattati avevano intimato ai vinti di consegnare le armi. Invece di obbedire, la Turchia le ha passate al governo di Angora, il quale demolisce con quelle il trattato di Sèvres prima ancora che entri in vigore. La guerra mondiale continua in Oriente; e gli Alleati possono soltanto dare ai turchi e ai greci dei buoni consigli, che nessuno dei belligeranti ascolta. Invano l’Inghilterra ha spinto innanzi la Grecia! Mezza Asia Minore è devastata; la Grecia è rovinata e speriamo non susciti per disperazione o per vendetta qualche grosso disordine; gli affari d’Oriente precipitano in una anarchia, a cui non ci sarà per lungo tempo rimedio. Strana ironia del destino! Quando tanti eserciti formidabili della coalizione germanica si sono sciolti o sono stati sbaragliati, tiene il campo, nell’interno dell’Asia, invincibile, un piccolo esercito raccogliticcio di turchi, che si sostiene come può. Un po’ meglio vanno le cose in Bulgaria. Qui almeno c’è un partito, il quale riconosce giuste e prende sul serio le intimazioni e le minaccie dell’Intesa... Ma quanto pesa la Bulgaria sui destini del mondo? Come procedono le cose in Ungheria si è visto or ora.[14] L’Ungheria non ha disarmato, ma ha nascosto armi e soldati dietro una tenda; quanto basta, affinchè le apparenze siano salve, e l’Intesa possa far le viste di non vedere. Di chi la colpa? L’Italia sospetta la Francia, la Francia l’Inghilterra, l’Inghilterra l’Italia. Ma la colpa è della Geografia che non vuole essere, come l’opinione degli uomini, umile ancella della Vittoria. L’Ungheria fa oggi il comodo suo, perchè due anni dopo l’armistizio, le grandi Potenze dell’Intesa non hanno più nessun mezzo di imporle il disarmo, mancando tra l’una e le altre quella contiguità di frontiera, che tiene gli stati deboli nella soggezione dei forti. Gli stati nuovi che circondano l’Ungheria e la isolano, non hanno potuto assumersi il compito di imporre e di controllare di giorno in giorno il disarmo, perchè hanno cento altre faccende e forse anche perchè il compito supera le loro forze. Hanno preferito stringere la piccola Intesa. L’Ungheria non ha disarmato e non disarmerà, come non pagherà il suo riscatto. E poichè è stata in certe parti mutilata a capriccio, sta in agguato, aspettando l’occasione. Carlo di Absburgo ha avuto troppa fretta. Il paese è spossato, acefalo, in guerra con sè medesimo. Ma che di qui a qualche anno ritrovi un po’ di forza, un governo ed una occasione... La Germania è, insieme con l’Austria, la sola tra le nazioni vinte che abbia disarmato davvero, costretta dalla contiguità territoriale con la Francia. La Germania, dunque, se non ha adempiuto proprio alla lettera il trattato di pace, ha consegnato le armi che per quattro anni furono il terrore del mondo; e per il momento non è in grado di minacciare nessuno. Possiamo almeno qui respirare? Consolarci, che la minaccia tedesca è sventata? Che la Francia potrà a sua volta deporre l’armatura che la schianta? Proprio all’opposto. La Francia e il Belgio sono costretti a tenere sotto le armi quasi un milione di uomini, perchè hanno disarmato la Germania. Questo è il paradosso, che strangola l’Europa come un laccio. L’ho già scritto e lo ripeterò una volta ancora, perchè questa semplice verità è la chiave di tutto il disordine presente. Il trattato di Versailles, con le clausole del disarmo e con certe clausole che riguardano le riparazioni, ha fatto della Germania un protettorato comune dell’Italia, dell’Inghilterra e della Francia. Immaginarsi che quella che era ancora, sette anni fa, la prima potenza del mondo, accetti di diventare il Marocco di tre potenze, discordi tra di loro e ciascuna più debole, è vivere con la testa nelle nuvole. La Germania subirà questo protettorato, nella misura in cui la forza lo imporrà. Ha disarmato perchè ai confini c’era un milione di soldati, pronti ad invaderla. Sinchè questo milione di soldati minaccerà le sue frontiere, obbedirà ruggendo di furore. Ma per quanto tempo la Francia potrà mantenere, insieme con il Belgio, questo milione di soldati sotto le armi? La Francia, già indebitata per trecento miliardi? Dal giorno dell’armistizio è cominciato tra la Francia e la Germania un nuovo duello; incruento, muto, quasi direi immobile, ma non meno implacabile e terribile che la guerra. C’è in Germania un partito, che vuole eseguire il trattato, come esso dice, «nella misura del possibile». Questo partito governa oggi. Ma perchè neppure questo partito riesce a tranquillare la Francia? Perchè, in Francia, l’ansietà pubblica non si calma mai, sia che il governo tedesco accenni ad eseguire il trattato, sia che mostri di rifiutarsi? Perchè anche quella debole e vacillante volontà di eseguire il trattato è legata, in Germania, alla minaccia imminente di quel milione di uomini in armi. Ma ad eseguire il trattato occorrerà, a dir poco, mezzo secolo almeno; e chi può illudersi che la Francia, spossata dalla guerra, oberata di debiti, reggerà per mezzo secolo al compito erculeo? La Germania non ebbe da tendere altrettanto muscoli e nervi, dopo il 1870, per far rispettare il trattato di Francoforte; eppure non ha resistito più di 44 anni, e alla fine fu, dallo stesso suo sforzo, precipitata nella guerra. La resistenza passiva della Germania metterà la Francia ad un cimento forse più terribile che la rivolta aperta. Il tragico nodo della pace per la Francia è proprio questo. Quel milione di soldati, con cui oggi la Francia e il Belgio impongono alla Germania l’obbligo suo, non possono restare per anni ed anni a guardare un nemico, che resiste passivamente, come non l’hanno potuto, e in condizioni meno difficili, i grossi eserciti della Germania vittoriosa dopo il 1870. Presto o tardi, se si lasciano andare le cose per la loro china, accadrà o che i debiti rovineranno e sposseranno la Francia, o questo esercito precipiterà sulla Germania, trascinato dalla sua stessa mole e dal suo stesso peso, come una valanga che si stacca dal monte. Le occasioni e le ragioni non mancheranno. Per quanto si guardi, non si vede a quale altro fine siano avviate le cose dell’Europa, se non o a una grande crisi in Francia o all’invasione della Germania, o forse all’una e all’altra. In tutti e due i casi avverrebbe il grande schianto dell’Europa. Una grande crisi interna in Francia diroccherebbe quel che resta dell’ordine sociale; e chi potrebbe prevedere tutti gli effetti di un’invasione della Germania? Entrare in Germania sarà facile ad un esercito francese e belga. Il difficile sarà d’uscirne. Washington si accinge intanto a ripigliare l’opera fallita a Parigi. Il Congresso, convocato dal presidente Harding per le limitazioni degli armamenti, ha incominciato a sedere. II. L’America e i mari (25 ottobre 1921) Washington si accinge dunque a ripigliare in parte l’opera fallita a Parigi. E la ripiglia dalla questione dei mari cui il Congresso di Parigi voltò le spalle per frugare nelle tasche della Germania qualche miliardo di più, o per recuperare qualche quadro rubato un paio di secoli fa. Non poteva essere altrimenti. Risaliamo con la memoria di otto anni il corso della storia; e scopriremo facilmente perchè la questione dei mari è vitale oggi per tutta la civiltà occidentale. Una pace sonnolenta regnava allora sulle acque. Primeggiava per numero e per reputazione la flotta inglese. Ma le cresceva accanto la flotta tedesca, più piccola, tutta nuova, tutto ardore e impazienza di mostrare quel che sapeva fare; e sapeva — al Jutland si vide — manovrare e tirare meglio dell’inglese. Venivano poi la armata americana, poderosa per numero di navi e potenza d’armi; la francese, un po’ invecchiata e di crescita lenta, ma illustre per tradizioni e memorie, forte di navi magnifiche e condotta da ufficiali valenti; l’italiana, giovane, un po’ ineguale, ma plastica e di forza crescente; la russa, ferita dalla sconfitta recente e in convalescenza; l’austriaca, piccola ma saldamente annidata nell’Adriatico. Nell’Estremo Oriente la cadetta della famiglia, ma già celebre e ammirata per le prodezze compiute nell’ultima guerra: la flotta giapponese. Tutte queste armate si facevano allora equilibrio con il solo mostrarsi, nella sottintesa volontà comune a tutti i popoli di rispettare il mare come la grande via del genere umano, e di non intralciare l’accesso alle terre, se non con un protezionismo ancora blando, non universale, e quasi dappertutto temperato da trattati di commercio. Che nei libri dei giureconsulti e negli archivi dei ministeri sonnecchiasse un diritto di guerra sul mare barbaro e corsaro, chi lo sapeva? Il mondo viveva beato nella sicurezza di tutti i suoi mari, finalmente esplorati in ogni più recondito seno, finalmente purgati dagli ultimi avanzi della pirateria, liberi finalmente e aperti a tutti i popoli laboriosi. Che resta di questo bell’ordine, meraviglia dell’ultimo secolo? Tre di queste flotte sono sparite in fondo al mare: la tedesca, l’austriaca, la russa. Due — la francese e l’italiana — vegeteranno per molti anni, scarseggiando il denaro a mantenerle. Scomparse o declinanti le altre armate, l’Inghilterra è ormai padrona dell’Atlantico e del Mediterraneo, il Giappone del Pacifico. L’armata inglese sarà anch’essa costretta, per economia, a rimpicciolirsi, ma senza danno, perchè resterà più forte dei rivali che nel 1914, alcuni di questi essendo morti, gli altri feriti. Il Giappone invece è diventato in questi sette anni un colosso dei mari. Arricchito dalla guerra mondiale e liberato dalla rivalità della Russia, giganteggia nell’Estremo Oriente come il campione dell’Asia contro i barbari dell’Occidente. L’equilibrio delle forze è rotto sui mari; e con l’equilibrio delle forze qualunque nozione di diritto. Nessuna dottrina o tradizione, nessun trattato o pezzo di carta tenta neppure più di definire, nonchè di garantire, i diritti che i più deboli potrebbero vantare contro i più forti sui mari. La libertà dei mari, di cui godevamo prima del 1914, era uno stato di fatto, mantenuto dall’equilibrio e dal consenso; e perciò vacilla ora che, venuto meno l’equilibrio delle forze, non si sa più se il consenso sussista ancora. Se l’Inghilterra, _per il momento_, non sembra voler abusare della sua forza, il Giappone è un enigma. Il Congresso di Parigi, infuriato a disputarsi i brandelli dell’Europa, ha lasciato il Giappone e l’Inghilterra impadronirsi dei mari senza condizioni, restrizioni e servitù, in tempi in cui un furore selvaggio di prepotenza agita tutti gli Stati, e il mondo sembra voler ripiombare in un secondo Medio Evo, irto di monopolî e di pedaggi. Ha lasciato: o piuttosto, avrebbe lasciato, se non ci fosse stata l’America. Gli Stati Uniti sono ancora in grado di varare una flotta pari all’inglese; e perciò possono assumersi il compito di chiarire se il tridente di Nettuno sia un gingillo, da borseggiare nelle sale di un congresso diplomatico, approfittando della distrazione degli altri Stati. Gli Stati Uniti non furono delusi dalla guerra meno che i grandi Stati europei. Cadute la Russia e la Germania, indebolite la Francia e l’Italia, mutato in un odio e in un sospetto universale quel tacito consenso dei popoli, che era la legge non scritta dei mari, l’America s’è trovata, a guerra finita, minacciata sui due fianchi. In fondo ai due Oceani, che ne bagnano le coste e che sono le sue porte sul mondo, stanno ora le due potenze egemoni del mare. Che esse vogliano abusare della loro forza, non è provato: ma quali garanzie offre il futuro? Chi potrebbe, per esempio, impedire domani al Giappone, alleato con l’Inghilterra, di tentar di fare della Cina una colonia? La Russia per il momento è in catalessi. Molte cose, intorno a cui l’Europa farnetica assai, si spiegano se non si dimenticano questi fatti. Si spiega che gli Stati Uniti abbiano stracciato il trattato di Versailles, il quale imponeva loro grandi obblighi e non riconosceva nessun diritto. Si spiega che vogliano varare una grande armata. Si spiega che esigano i loro crediti di guerra. Si spiega che convochino la conferenza di Washington. Non si spiega invece — o si spiega come una contraddizione dei tempi babelici — che vogliano fare di Panama un passaggio americano privilegiato: pericoloso esempio, che l’Inghilterra potrebbe ritorcere contro gli Stati Uniti. La Conferenza di Washington, massime se l’America, come si dice, tenterà di indurre le potenze ad un accordo, che apra a tutti egualmente le porte della Cina e che limiti gli armamenti navali, tenterà dunque per la prima volta di strappare gli Oceani a quell’anarchia della forza, a cui il Congresso di Parigi li ha abbandonati. Le potenze navali minori, quelle minacciate più seriamente dalla presente anarchia, provvederanno al proprio interesse aiutando l’America, perchè se la Conferenza non riescisse in questo suo compito, non resterebbe a queste potenze minori, che lasciare la gara degli armamenti infuriare tra i due colossi superstiti sino al cozzo definitivo; e cercare allora che questo termini con la distruzione del più forte e l’irrimediabile spossamento del più debole. Se spesso la saggezza è impotente, qualche volta l’impotenza è saggia. III. Guerra e pace al Congresso di Washington (20 novembre 1921) Per trent’anni la pace fu la più solenne tra le imposture ufficiali. Ogni Stato era solito dichiararsi pronto a disarmare, se gli altri avessero dato l’esempio; e siccome tutti aspettavano che qualcun altro incominciasse, nessuno si muoveva. Non si potrà negare agli Stati Uniti il merito di aver rotto questa tacita cospirazione di pravi intendimenti e di aver preso le altre potenze in parola, dicendo loro: «se davvero siete disposte a limitare gli armamenti, purchè una grande potenza prenda l’iniziativa, son qua io. Eccomi pronta». Dopo tante promesse, dopo tante menzogne, dopo tanti sofistici contorcimenti, questa rude e quasi brutale franchezza è un ristoro. Gli Stati Uniti hanno fatto quello che la Francia, l’Inghilterra, l’Italia avrebbero dovuto fare a Parigi due anni fa. Hanno posto al mondo il quesito, se vuol la pace o la guerra, se vuol rinascere o dissolversi; hanno messo il mondo a confronto con la propria coscienza; gli hanno intimato di uscire dalla torbida contraddizione, in cui si logora da tanti anni, preparando la guerra mentre dice che vuole la pace. Il merito è grande. Ma grande è pure la responsabilità. La prova è ardua per gli Stati Uniti non meno che per gli altri Stati. Che benedizione sarà, per l’intero universo, se il tentativo riesce, anche soltanto in parte. Ma se non riesce? Al quesito, posto così rudemente dall’America: «volete la pace o la guerra?», tutti gli Stati hanno risposto: «la pace». Quale avrebbe osato rispondere: «la guerra?» Ma non lasciamoci illudere dalla unanimità di queste risposte. Il mondo non farà senza disperate resistenze l’esame di coscienza e la scelta, a cui l’America lo sforza con così categorico invito. La proposta americana non ha trovato e non troverà innanzi a sè che sorrisi, inchini e vie cosparse di fiori! Nessuno oserà affrontarla a viso aperto. Ma attenta alla spalle! Quante insidie la minacceranno nei particolari tecnici, nelle applicazioni pratiche, nelle commissioni segrete! Quelli che mi fanno paura sono i «periti», gli «esperti», i «tecnici», che gli uomini di Stato hanno condotti a Washington in tanto numero. Che curioso personaggio, l’«esperto», della guerra mondiale! È quasi sempre un uomo oscuro e ignoto, pescato in fondo a qualche pubblico ufficio, il quale in virtù di una competenza indefinibile dovrebbe sapere tutte le cose, che nessun altro sa, anche le più difficili e oscure. Come sarebbe: quali siano i giusti confini tra due Stati, che non esistono ancora; o quali i necessari armamenti di due Stati, che non sanno se sono amici o nemici. A Parigi gli «esperti» furono i piloti nascosti che condussero a rompersi su scogli invisibili molti buoni propositi. In verità sono una delle tante imposture moderne: compiacenti prestanome, dietro i quali gli uomini di Stato, con il pretesto della competenza tecnica, mettono in salvo la propria responsabilità. Confini e armamenti sono materie che appartengono non ai professori di statistica e di geografia, o agli ufficiali di terra e di mare, ma alla grande arte di governo, in cui l’uomo di Stato deve essere solo esperto, perito, competente e maestro, con piena responsabilità. Se avessimo uomini veri di Stato, essi creerebbero dalla propria mente i principî direttivi della limitazione degli armamenti, consultando gli uomini dell’arte militare soltanto per i particolari e per l’applicazione. Con uomini come quelli che oggi reggono tanti governi, deboli, incerti, poco autorevoli, gli «esperti» possono diventare gli occulti e irresponsabili sicari, che strozzeranno al buio, con i sofismi e gli egoismi della propria arte limitata, un’idea di valore universale. Nè la tecnica è il solo pericolo. Non si potranno limitare gli armamenti, se non si freneranno le cupidigie e le ambizioni che si appiattano dietro le armi e che le muovono. Un disarmo parziale suppone una parziale pacificazione; e perciò richiede che almeno alcune tra le maggiori discordie, da cui i popoli sono oggi fatti l’uno all’altro nemici, siano composte con una transazione, che accontenti per qualche tempo tutte le parti. La Conferenza sarà dunque costretta a tentare di comporre le discordie e le rivalità di maggior momento: compito arduo, nel quale i nemici occulti della pace cercheranno di colpire a morte il piano della limitazione degli armamenti. I popoli vogliono la pace, ma non sempre ne sanno il prezzo, o son disposti a pagarlo. Facilmente si accendono per rivalità e per interessi, che un giorno o l’altro li obbligheranno alle armi, quando meno se lo aspetteranno e quando sarà troppo tardi. Dalla rivoluzione francese in poi tutti i macchinatori di guerre hanno approfittato di questa debolezza dei popoli, per sforzarli a combattere. Ne hanno approfittato a Parigi, per deludere l’universale desiderio di pace; e ne approfitteranno per far fallire anche il Congresso di Washington! È necessario dunque che l’opinione di tutti i paesi vigili; perchè molti tentativi saranno fatti per ingannare anche a Washington «lo spirito del mondo». La stretta è forse decisiva; perchè chi potrebbe prevedere gli effetti di una seconda delusione, che seguisse quella di Parigi? In Europa la disperazione si impadronisce dello spirito pubblico, in tutti i paesi. Pur sapendo che se gli Stati non conchiudono almeno una tregua di mezzo secolo, nessuno potrà sfuggire ad una ruina totale, i popoli hanno quasi perduto la speranza che questa tregua salvatrice si possa mai stringere. Se dopo Parigi, anche Washington dovesse fallire, la disperazione diventerebbe irrimediabile. Gli odî e i sospetti tra gli antichi alleati, già così grandi, divamperebbero irrefrenabili. Nulla esaspera più che un tentativo fallito di pacificazione. O la conferenza di Washington riuscirà ad assestare un po’ le cose del mondo, o sprofonderemo nell’anarchia e nel disordine per generazioni. Sarebbe puerile imaginare che Washington possa comporre tutte le discordie, che oggi aizzano gli uni contro gli altri i popoli. Ma avrà fatto poco meno di un miracolo, se riuscirà a comporre alcune di queste discordie, _perchè avrà mostrato con i fatti all’universale scetticismo che il comporle non è impossibile_. Indicibile sarà il conforto che questa rinascente fiducia infonderà nello spirito del mondo, oggi sgomento. Riconfortato, lo spirito del mondo che oggi sta per abbandonarsi disperato alla minacciosa oscurità del destino, ritroverà la forza di provvedere alla propria salvezza. In ogni impresa, il difficile è cominciare. Siano i popoli questa volta, più attenti, più chiaroveggenti, più fiduciosi, che non durante il Congresso di Parigi. È il solo consiglio, che sembri quadrare con la realtà, sulle soglie della nuova Conferenza, nell’imminenza della seconda prova. IV. Concatenazione (3 dicembre 1921) Il proposito del presidente Harding di circonscrivere le discussioni è già stato in parte deluso. La terra e il mare, l’Oriente e l’Occidente sono così legati, che da tre settimane le discussioni di Washington si svolgono attive e feconde solo quando si allargano, mentre quelle che non si allargano si spengono. È apparso subito chiaro che non si potevano bilanciare secondo una certa proporzione le tre maggiori armate del mondo, lasciando fuori del conto le due minori: Francia e Italia. Ma come fissare una proporzione tra le due flotte minori e le maggiori, e tra l’una e l’altra delle due flotte minori senza pesare almeno i maggiori interessi inclusi in quella che si suole chiamare la politica mediterranea? Francia e Italia sono potenze continentali. Le armate navali e gli eserciti di terra sono i due bracci della loro difesa. Se nell’Estremo Oriente la necessaria potenza delle flotte dipende in parte dalla Cina, dalle sue rivoluzioni, dalla politica che le potenze vogliono seguire nel vasto impero di mezzo, nel Mediterraneo dipende in parte anche dall’assetto del continente europeo. Per questa sola concatenazione, la questione dei mari tende ad allargarsi fino ad abbracciare mezza la terra. Ma non è la sola. Si è discusso e si discute assai, a Washington, dei sottomarini. Ma le sorti dei sottomarini sono legate al diritto di blocco e al contrabbando di guerra. Sinchè l’Inghilterra non rinuncierà a dichiarare contrabbando di guerra tutto ciò che le piace, e al diritto di fare morire di fame i suoi nemici, che hanno bisogno del mare per nutrirsi, nessun popolo potrà gettar via quest’arma. Il sottomarino è la fionda di David nel duello contro il Golia dei mari. I tedeschi l’hanno infamato, distruggendo le navi invece di catturarle; ma hanno ricorso a questo odioso procedimento, perchè i loro porti erano troppo distanti dai mari dove operavano. Nel Mediterraneo i sottomarini potrebbero far la guerra di corsa come gli incrociatori, catturando e rimorchiando nei porti le navi mercantili del nemico, in regola con la coscienza del mondo. Sembra che la discussione intorno agli armamenti terrestri si sia già o stia per arenarsi a Washington, nonostante gli sforzi della delegazione inglese e della delegazione italiana. Chi può meravigliarsene? Armi e trattati di pace sono legati tra loro in Europa. Dei trattati conchiusi nel 1919 e nel 1920 alcune parti di maggiore importanza non si reggono, se non perchè sono puntellate da parecchi milioni di baionette. L’Ungheria e la Bulgaria stanno ferme, solo perchè strette in una cerchia di ferro. Il trattato di Sèvres è un pezzo di carta, perchè l’Intesa non ha le forze per imporlo. Limitare l’esercito francese e voler piegare la Germania sotto il mezzo protettorato del trattato di Versailles, è un controsenso. Il Briand ha fatto al Congresso una pittura della Germania, che all’ingrosso è fedele. La Germania si chiude in un odio torvo che, se è impotente per ora, è già una tacita sfida ai vincitori. È quindi probabile che un parziale disarmo della Francia accrescerebbe piuttosto il coraggio di questo odio che non ne addolcirebbe il furore. Ma se la tesi ufficiale della Francia si ferma qui, un osservatore imparziale deve procedere oltre e chiedersi per quale ragione la Germania, che pure anch’essa ha tanto bisogno di pace, ritorna a desiderar nel fondo del cuore la guerra. La risposta è sicura: perchè nel trattato di Versailles sono scritte alcune condizioni così umilianti, che nessuna grande potenza accetterà mai, anche se possa essere costretta per qualche tempo a subirle da una forza soverchiante. I posteri stupiranno, che uomini di Stato si sieno illusi di poter fare della Germania un Marocco europeo, senza condannare l’Europa alla guerra perpetua. Un Congresso, che non possa o non voglia considerare nel suo insieme lo stato presente dell’Europa tutta, potrà soltanto sfiorare la questione degli armamenti. Si direbbe che l’universo intero prema alle porte del Congresso di Washington, per invaderlo con tutti i suoi disordini, le sue furie, i suoi dolori, i suoi feroci egoismi; e che nella angusta sala in cui si radunano, gli uomini del Congresso facciano forza alla porta, perchè resista alla spinta. Il giorno in cui la porta si spalancasse e l’Universo irrompesse con il suo terribile corteo, gli uomini del Congresso dovrebbero fuggire saltando dalle finestre! Si ricasca in quel tormento che non dà pace agli uomini dal giorno in cui la guerra è cominciata. Il mondo è diventato troppo grande, troppo complesso, troppo difficile, per la mente degli uomini, che devono governarlo. La creatura è confusa dalla enormità della propria creazione; e si perde in piccoli vaneggiamenti. Che cosa fu il Congresso di Parigi, se non la tragica frantumazione e dispersione di un pensiero universale? Si doveva rifare il mondo; ma l’Inghilterra era ipnotizzata da pochi pozzi di petrolio, la Francia dal Reno, l’Italia da Fiume. Spaventato dalla grandezza del mondo e dei compiti che nel mondo lo aspettano, lo spirito della civiltà occidentale corre a rifugiarsi in se medesimo, facendosi piccino piccino. Quanto siamo lontani dal pensiero sintetico e costruttivo, che regnò nel Congresso di Vienna! Di qui l’universale trionfo, proprio quando più necessiterebbero le grandi menti, di tanti piccoli sofisti e di tanti piccoli rètori: i primi, abilissimi nel rimpicciolire le cose grandi, i secondi nell’ingrandire le piccole, e gli uni e gli altri nel confondere, illudere, ingannare insieme lo spirito pubblico. V. La Germania e il suo riscatto (17 marzo 1921) Non mi ero ingannato. Il nodo delle indennità tedesche è peggio che un nodo gordiano, perchè non può essere nè sciolto nè tagliato. È inutile tormentare tabelle, numeri e cifre per sapere se la Germania possa o non possa pagare: gli oracoli matematici non rispondono della volontà dell’uomo. La Germania non vuole pagare; il popolo tedesco tutto quanto, dai contadini e dagli artigiani ai magnati dell’industria e della finanza, non vuole espiare la guerra mondiale con mezzo secolo di lavori forzati. I vincitori si trovano alle prese non con le arti e gli accorgimenti volpini d’un governo; ma con la chiara, risoluta, brutale volontà di un popolo. Non pago! Hanno essi il mezzo di piegarla? Nel governo tedesco, che dovrebbe essere il collettore del riscatto, gli Alleati non hanno trovato e non troveranno che un’invincibile malavoglia, figlia di un deliberato proposito e di una reale impotenza. Rovesciata la monarchia ereditaria, il governo tedesco deriva oggi i suoi poteri, la sua autorità, la sua legittimità dal suffragio universalissimo. La repubblica tedesca sarà, se volete, un’impostura in tutto il resto; in questo no. L’unico appoggio su cui può far leva, per agire, è la volontà del popolo, vera o supposta, espressa dal suffragio universale. Ma poichè il popolo tedesco non vuol pagare il riscatto, il governo tedesco dovrebbe far leva sulla volontà del popolo per violentarla proprio nel suo desiderio più vivo e più forte. Questo è, come avrebbero detto gli antichi, un «problema d’Archimede»: la quadratura del circolo. Se gli Alleati vogliono il riscatto, dovranno andare a riscuoterlo da sè. Questa è la verità. La logica implacabile dei loro errori e delle loro illusioni li spinge a invadere la Germania. Fanno ora un primo passo, timido e incerto, sperando di spaventare il governo tedesco, di forzargli la mano e di poter tornare presto indietro con la cambiale firmata, annunciando ai popoli che la questione è assestata e che il riscatto sarà pagato. Hanno essi, gli invasori, almeno tanta voglia di poter domani ritornare indietro, quanto i tedeschi di vederli partire! Ma anche questa è una nuova illusione. Ceda o non ceda il governo tedesco, firmi la cambiale o la laceri, non ci sarà guadagno. Sinchè il popolo tedesco tutto quanto non voglia nè intender ragione nè espiare nè pagare — e pur troppo non lo vorrà mai — gli Alleati dovranno passo passo avanzare in Germania sino ad occuparla tutta: operazione gigantesca, che supera le forze degli Alleati, che costerebbe più che non possa fruttare, e che, riuscendo, sconvolgerebbe l’Europa. Se la Germania fosse governata da una monarchia autorevole e potente, come era ai suoi bei giorni quella che cadde nel 1918, essa potrebbe forse, in una certa misura, costringere il popolo a pagare il riscatto ai vincitori. Ma ora c’è la repubblica, il governo del popolo anche in Germania; il suffragio universale anche in Germania ha debellato il principio dinastico e calpestato il diritto divino; e non c’è mezzo di venire a capo di nulla con quest’obbligo, che pure dovrebbe essere sacrosanto per tutti i tedeschi, di aiutare le loro vittime a rifarsi il tetto e il focolare distrutto. Ma i popoli sono dei bestioni irresponsabili, peggio dei re assoluti di un tempo, dallo spirito semplice, che non si curano di molti proprî interessi, perchè non li conoscono neppure; che non chiedono sul serio se non pace e lavoro, pane e companatico, circensi e baldorie; che di solito si contentano di buone parole e di bei discorsi. Ma guai se alcuno di questi bestioni si fissa in una idea semplice, che sia capita dal suo grosso cervello e che esalti qualche sua forte passione! Nessuna forza dello spirito e della materia potrà vincere quell’ossessione. I ragionamenti dell’Equità, della Saggezza, del Buon senso e della stessa Evidenza non avranno altro effetto che di mettere il bestione in un furore indicibile. Nessuna parola, neppure se risuoni dal cielo, troverà la via della sua mente e del suo cuore. Nessuna frusta, o bastone, o flagello, o catena avrà ragione del suo cuoio indurito, anche se i suoi guardiani osassero adoperarli. Ma i guardiani non oseranno adoperarli; perchè appena il bestione monta in furia, fuggono tutti spaventati a rimpiattarsi. Di nuovo la Francia vede insorgere contro di sè le dottrine e i principî della rivoluzione che essa ha bandito al mondo per liberarlo; è delusa in un suo diritto da quel suffragio universale, per cui versò il suo sangue migliore nel ’48. Quale è l’oscuro e profondo disegno della Provvidenza — uso il linguaggio della Chiesa — nel ferire la nobile nazione con le armi stesse della sua spensierata generosità? O vecchio mandarino cinese, forse tu solo hai letto a libro aperto nella storia dell’Europa, che per tanti di noi è ancora un libro chiuso. Ad un illustre deputato socialista belga, che alcuni anni fa si trovava a Pechino, e che magnificava la rivoluzione francese, il vecchio mandarino disse, scrollando il capo: «Sì, sì: la rivoluzione francese è stata un grande evento. Ma è ancora molto recente. Sarebbe forse prudente, prima di giudicarla, aspettare a vedere dove va a finire!» È forse questa la ragione profonda per cui la Francia sembra abbandonare la rivoluzione e le sue dottrine, quando l’una e le altre stanno per trionfare? La Rivoluzione sarebbe forse una figlia snaturata, di cui la madre deve diffidare, perchè la tradisce? VI. La guerra e la ricchezza (17 dicembre 1921) Ma la Germania è proprio povera come si dice? O tende la mano e si veste di cenci per impietosire il passante e disarmare il creditore? Questo è il rompicapo con cui il mondo è da due anni alle prese. Anche questo è un caso strano davvero. Nessuna epoca ha tanto amato, magnificato, studiato la ricchezza. La ricchezza passa per essere la cosa più positiva, solida, reale, che esista. Ed ecco che, tutto ad un tratto, nessuno la sa più distinguere dalla povertà e riconoscere a segni sicuri e stabili, in uno degli Stati più grandi del mondo e che, fino a sette anni fa, passava per uno dei più ricchi. Ogni tanto l’Europa rabbrividisce. Un grido di spavento si leva dalle Borse, dalle Banche, dalle Gazzette, «La Germania sta per fallire; la sua moneta è vilissima carta; il suo governo implora dai vincitori una dilazione del riscatto, come lo scampo supremo dalla imminente catastrofe». Ogni tanto giungono dalle città, un tempo così floride, dell’impero, notizie di una miseria profonda, che rode le ossa e i muscoli della nazione: le classi lavoratrici e la condizione media. Senonchè nel tempo stesso l’Europa si domanda se per caso l’asse della terra non si sarebbe spostato. Con la moneta ancora poco inquinata e la finanza non del tutto a brandelli; con un immenso impero di cui la vittoria ha arrotondato i confini, gli inglesi hanno sulle braccia milioni di operai senza lavoro. Invece la Germania, sola tra le grandi potenze manifatturiere, può oggi mantenere accesi tutti i fuochi, far muovere tutti i telai. Essa ha già riconquistato tutti i mercati, da cui la guerra l’aveva staccata, scacciandone i concorrenti inglesi, americani e francesi; e già ricomparisce con navi e commercio suo sugli Oceani, su cui l’Inghilterra si era illusa di non ritrovarla per secoli. La flotta mercantile tedesca è la sola che non marcisce nei porti, e tutti prevedono che sarà tra poco la prima, se non per il numero bruto, per la giovinezza, per l’attività, per la potenza. Perfino con la Russia i tedeschi sembrano avviare di nuovo il commercio, e con profitto! Gli inglesi ci si erano provati, anche essi; e non era certo la voglia che difettava loro. Lloyd George non aveva forse dichiarato che «un popolo di mercanti non può aver troppi pregiudizi?» Un imperatore romano non aveva già detto dell’oro _non olet_ e gli inglesi non si vantano di essere i romani moderni? Ma il desiderio è stato vano. Là dove essi hanno fallito, soli i tedeschi sembrano riuscire. L’Europa assistè ad una specie di risurrezione della Germania, che sembra una sfida a tutte le leggi della ragione e della giustizia, perchè segue una sconfitta rovinosa, una rivoluzione più rovinosa ancora, e procede di passo con il fallimento dello Stato. Ebbi spesso occasione, negli anni passati, di osservare che la guerra mondiale era tutto un tragico groviglio di controsensi. Ma questa risurrezione del vinto è l’ultimo, il più profondo ed arcano di quei controsensi; quello che colpisce più fortemente la immaginazione dei popoli e turba con una specie di sbigottimento mistico quel po’ di buon senso, che ancora sopravvive nelle menti. Molti si domandano in cuor loro, con un certo terrore, se la Germania non era nel vero, quando mosse alla guerra con quelle dottrine, da sette anni oggetto di tante maledizioni ufficiali. Altri si chiedono se non abbia fatto qualche patto con il Diavolo, così caro ai suoi poeti e ai suoi filosofi; e conosciuto dal Diavolo il segreto di cavar oro, fortuna e prosperità anche dalle catastrofi. E non pochi spiano ogni suo atto e gesto, per veder se riesca loro di scoprire questo segreto. Ma il segreto non c’è. La Germania si è messa a lavorare con furore, perchè è stata impoverita molto più che i suoi nemici dalla guerra. Impoverimmo tutti durante la guerra; ma noi popoli dall’Intesa meno della Germania, perchè facemmo guerra da signori, indebitandoci fra noi, con i neutri di tutto il mondo e con gli Stati Uniti, limitando quanto era possibile, sia pure a spese dell’avvenire, le privazioni. Questo è oggi il vero, l’unico e semplice segreto della ricchezza e della povertà in Europa. Che la guerra abbia impoverito il mondo, tutti, più o meno, sono persuasi. Molti, tuttavia, osservando che il danaro circola, che se ne spende più di prima e che il mondo continua a camminare, almeno in apparenza, come una volta, si domandano in che cosa consista questo impoverimento; e se veramente è grande quanto si suppone. Cerchiamo di rispondere a questi dubbi, e di chiarire come la guerra abbia distrutto una parte della ricchezza comune. L’ha distrutta con lo sterminio degli uomini e con la devastazione dei territori. Ogni uomo che sa lavorare è un capitale, perchè ha costato e perchè produce. Noi raccapricceremmo, se potessimo valutare in denaro gli otto o dieci milioni di uomini che la guerra ha uccisi, le devastazioni che hanno mutato in deserti tanti floridi territori. La lista era già lunga nel 1918; bisogna ora aggiungere l’Asia Minore, spopolata dai Greci e dai Turchi. Ma la guerra non ha soltanto ucciso milioni di uomini e devastato ricchi territori; ha anche sperperato immensi capitali. Prima della guerra l’Europa e l’America consumavano ogni anno una parte di quello che possedevano, non per soddisfare i propri bisogni ma per produrre altri beni; per costruire fabbriche, per coltivare terre, per sfruttare miniere, e via dicendo. Perciò la ricchezza totale cresceva ogni anno. Dal 1914 al 1921 pochissimi capitali sono stati destinati alla moltiplicazione dei beni che gli uomini consumano; i risparmi sono stati quasi tutti, negli Stati più ricchi del mondo, inghiottiti dalla guerra o dai disavanzi dei bilanci; non hanno dunque servito ad accrescere il lavoro ma ad alimentare il consumo; ossia a permettere a molte, a troppe persone di consumare più che non producessero. Da un anno, per questo rispetto, si va un po’ meglio; ma il miglioramento è lento. E quanti anni ci vorranno per recuperare il perduto! Si aggiungano i paesi ormai esclusi dal giro degli scambi, come la Russia, l’Austria, la Turchia. Si aggiungano gli impegni contratti dai governi con i debiti di guerra, con le pensioni, con i risarcimenti. Si aggiungano le imposte, il caos monetario e gli impacci del commercio, moltiplicati dalla guerra e dalla pace. Questa lista delle cause che spiegano la povertà presente del mondo, è già lunga. Ma non basta. C’è ancora una complicazione, a cui troppo poco si bada, ma che è di grandissima importanza, perchè esaspera la povertà comune. _La ricchezza totale non è soltanto diminuita, ma è anche distribuita in maniera diversa._ In tutti i paesi la guerra ha smisuratamente arricchito un piccolo numero di persone e impoverito più o meno le masse. Quando la ricchezza totale aumenta, tutti possono arricchire, perchè ognuno migliora il suo stato, attingendo a questa nuova ricchezza aggiunta all’antica. La guerra invece arricchisce sempre un piccolo numero di persone nel tempo stesso in cui, attirando a sè tutti i capitali, impedisce che la ricchezza totale cresca, e, distruggendone una parte, la diminuisce. Ma se la somma della ricchezza totale resta uguale o diminuisce, un piccolo numero di persone non può arricchirsi che impoverendo tutti gli altri. E questo è successo, più o meno, dappertutto, dopo il 1914. Così è accaduto che in tutti i paesi belligeranti, le classi medie sono impoverite ed ora impoveriscono anche le moltitudini, mentre un piccolo numero ha accumulato favolose fortune. Proprio come accadde in tutta l’Europa durante le guerre della Rivoluzione e dell’Impero. Ma in Germania questo sbilancio della fortuna tra i pochi arricchiti e la massa impoverita è maggiore che nei paesi dell’Intesa, perchè noi abbiamo in parte fatto la guerra col danaro del mondo. Dal 1914 al 1919 l’America e l’Inghilterra hanno guadagnato favolose ricchezze, vendendo al mondo intero a caro prezzo le loro materie gregge, i loro manufatti, i loro servizi. Con questi guadagni hanno pagato una parte delle proprie spese di guerra e fatto i prestiti agli alleati: prestiti che sono stati fino ad ora dei regali, perchè i debitori non hanno pagato nessun frutto. C’è dunque stato durante la guerra, e per causa della guerra, un trasporto di ingenti ricchezze da tutto il mondo nei paesi dell’Intesa, per il quale una piccola minoranza ha potuto arricchirsi senza troppo impoverire la massa. Lo sbilancio apparisce invece in tutto il suo orrore nella Germania, la quale ha dovuto far la guerra e sostenere gli alleati con la sua sola sostanza; senza altro sussidio di ricchezze esterne fuorchè i saccheggi dei territori invasi, il Belgio e gli altri. Questi saccheggi le hanno fruttato, ma le hanno anche costato assai; e non si possono paragonare ai vantaggi assicurati all’Intesa dal commercio mondiale dell’Inghilterra e dell’America. E questa è la vera ragione per cui la Germania è agli estremi. Sulla Germania corrono oggi due opinioni contradditorie. C’è chi la dice prospera; e chi la vuole rovinata. Ma tutte e due le affermazioni sono, in un certo senso, vere. Una parte della Germania — industriali, banchieri, speculatori, proprietari grandi e piccoli — si è favolosamente arricchita; la condizione media e le classi operaie sono impoverite. Il rinvilio della moneta è stato l’agente più attivo di questa rivoluzione economica. Gli operai si sono meno impoveriti che le classi medie, perchè possono difendersi meglio, ma anche per gli operai la prosperità del 1914 è ormai un lontano ricordo. E questo è, secondo me, il grande spavento e pericolo della Germania, che non dobbiamo mai perder di vista, se vogliamo capire ciò che succede e ciò che purtroppo succederà tra poco nell’antico impero degli Hohenzollern. Parlavo, alcuni giorni fa, con un uomo politico, colto e intelligente, il quale mi diceva di non capire come la Germania potesse esser stremata, poichè non aveva debiti con l’estero. «Ma la ragione della sua povertà è appunto questa — risposi. La Germania è rovinata, perchè ha dovuto far tutta la guerra con le sue sostanze, e non ha potuto far debiti fuori. Chi fa un debito, finchè non lo paga, arricchisce. Quello che ci ha salvati, sinora, noi dell’Intesa, son questi debiti. In parte noi abbiamo fatto la guerra con il danaro altrui». Singolare paradosso da aggiungere agli altri! I debiti sono oggi la nostra vera ricchezza. Ma sotto questa luce si vede subito quanto è vitale la questione nei debiti, che tanti trattano così leggermente! VII. I debiti (16 maggio 1922) In che consiste la vera questione dei debiti? Ci è facile di rispondere ora che sappiamo come la guerra ha impoverito il mondo. Indebitati siamo tutti, più o meno, in Europa. Vinti e vincitori siamo tutti imprigionati in una intricatissima rete di crediti e debiti, il cui capo è di là dell’Atlantico nelle mani dell’America, creditrice di tutti. Di fronte agli Stati Uniti, che non hanno debiti ma crediti soltanto, e in tutto il mondo, si allineano la Russia, la Germania, l’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria, che sono soltanto debitrici. In mezzo stanno l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, il Belgio, la Rumenia, la Serbia, il Portogallo, che sono a volta a volta creditrici e debitrici: tra loro, con l’America, con gli altri Stati vinti. Quale è la dottrina dell’America, creditrice universale? Che i debiti devono essere pagati. Ma a questa dottrina, gli Stati, che hanno debiti soltanto, oppongono di non potere. Gli Stati intermedi, creditori e debitori ad un tempo, inclinano a professare una dottrina a doppia faccia: aver diritto di riscuotere interi i crediti, ma non poter pagare i debiti. Come raccapezzarsi, ai piedi di questa nuova Babele? Che tutti gli impegni — debiti antichi, debiti di guerra, riparazioni — _dovrebbero_ essere mantenuti, è ovvio. Uno Stato, che promette e non mantiene, compie un atto ostile, perchè defrauda lo Stato contraente del suo diritto. Che fiducia e quale Spirito di intesa può regnare tra Stati, i quali minacciano tra i denti l’uno all’altro di distruggere le tavole su cui scrissero d’accordo i diritti e i doveri reciproci? Un impegno è un impegno, se non è un pezzo di carta. Ma se è vero che i debiti _dovrebbero_ essere pagati, è anche vero, purtroppo, che a pagarli c’è un impedimento quasi insuperabile in ogni paese; quello sbilancio delle fortune, quell’impoverimento del maggior numero, quell’arricchimento di pochi che è stato di tutti i frutti della guerra il più amaro. Soltanto le classi più numerose possono alimentare di somme ingenti gli erari. Sulle classi più numerose vivevano prima della guerra i grandi Stati. Ma chi può pensare che il popolo e le classi medie stremate dalla guerra potrebbero oggi provvedere allo Stato le immense somme, con cui ognuno potrebbe liberarsi? La Germania per esempio: affinchè la Germania mantenesse gli impegni del trattato, occorrerebbe un governo così forte, da potere estorcere alle classi medie e alle moltitudini, senza compenso, per trenta o quaranta anni, la somma di lavoro, necessaria a rifare in Francia e altrove quanto gli eserciti hanno distrutto. Senonchè anche in Germania, ora che la monarchia è caduta, il governo è creatura del suffragio universalissimo, cosa propria di quelle classi medie e popolari, che dovrebbe spremere sino alle ossa. Il suffragio universale dovrebbe creare un governo, il quale lo riducesse dalla povertà in cui è ora alla disperazione; essere, come un asceta di altri tempi, il proprio tormentatore e flagellatore! Chi crederà che ciò sia possibile? L’Italia non è stata impoverita dalla guerra, quanto la Germania e l’Austria; perchè essa non è stata costretta a nutrire la guerra soltanto con la propria sostanza; e ha potuto in parte alimentarla con il credito altrui. Quei venti miliardi di oro, che l’Italia deve alla Francia, all’Inghilterra, all’America, colmano la differenza tra la sua discreta agiatezza e la povertà della Germania o dell’Austria. Ma se noi dovessimo restituire quelle somme dovremmo spolparci e diventare, come l’Austria, scheletri ambulanti. Gli Absburgo hanno potuto, durante la guerra, ridurre il loro impero pelle e ossa: ma sono caduti proprio per questa ragione. Nessun governo potrebbe ripetere questa crudele operazione, in Italia ed in tempo di pace. Il governo che la tentasse non arriverebbe al terzo giorno. Per uscire da questa stretta mortale, non si vede che un mezzo: non già le _tabulae novae_, la cancellazione, ma una riduzione generale di tutti i debiti: russi, tedeschi, austriaci, ungheresi, bulgari, francesi, italiani e via dicendo. Bisognerebbe che i creditori acconsentissero di buon grado a ridurre i propri diritti alla misura del possibile; e che i debitori si accingessero sul serio a mantenere gli impegni così ridotti, riconoscendoli sacri. La America, che riceverebbe il danno maggiore da questa riduzione universale, dovrebbe ricevere compensi d’ordine politico. Sarà possibile un atto di così generosa saggezza? Io non lo so. Ma mi pare manifesto che, senza questo accordo, non ci sia modo di sfuggire ad una frantumazione morale dell’Europa, ancora più atroce del disordine, che oggi imperversa. Il fallimento universale, di cui gli Stati si minacciano a vicenda, lascerebbe dietro sè rancori e diffidenze implacabili, poichè tutti i popoli si crederebbero vittime, i creditori spogliati come i debitori insolventi. Il diritto, in nome del quale i creditori denuncerebbero la frode subìta, sarebbe incriminato dai debitori come una mostruosa sopraffazione. VIII. I trionfi dell’imperialismo europeo: l’indipendenza dell’Egitto (23 marzo 1922) Per quanto il proposito di eludere il principio nelle eccezioni provvisorie sia manifesto, non è cosa di poco rilievo che l’Inghilterra si rassegni a riconoscere l’indipendenza dell’Egitto. Gli artigli incominciano ad aprirsi. Il tempo farà giustizia delle riserve mentali e dei tranelli diplomatici. La formula, che può definire la guerra dell’Intesa, si trova già nella Somma di S. Tommaso. Fu una guerra combattuta «per una causa giusta ma con prava intenzione». Le grandi potenze dell’Intesa volevano la pace, perchè della guerra avevano troppa paura, e se fosse dipeso dalla volontà loro, le armi sarebbero rimaste appese alla parete. Assalite con perfidia e all’improvviso, corsero a staccarle con il solo proposito di difendere la propria vita. Ma poi, quando videro che erano in molti, e in forze, e in grado di aver ragione del nemico, si lasciarono tentare dalla gola di fare qualche «buon colpo». L’occasione pareva di quelle che non tornano due volte in un secolo. La prava intenzione entrò nella giusta causa, come un baco in un bel frutto intatto. L’Inghilterra fu la prima e la più audace ad allungare le mani. Già il 13 dicembre del 1914, con il pretesto di abolire gli ultimi diritti sovrani della Sublime Porta sulla terra dei Faraoni, proclamava il protettorato dell’Egitto. L’occupazione del 1882 era stata un atto arbitrario e temerario, del quale l’Italia e la Francia onestamente e saviamente non vollero essere complici; perchè mancava di ragione e giustificazione, ed ebbe terribili conseguenze alla distanza di più che trent’anni. Per quale ragione, nel 1914, la Turchia prendeva le armi e scendeva in campo a fianco degli imperi centrali? Perchè l’altra parte l’aveva costretta a questo passo, pericoloso per sè e funesto pel mondo, con un seguito di minaccie e violenze, che incominciano appunto con la occupazione dell’Egitto e terminano con la conquista della Tripolitania. La Turchia incomincia a staccarsi dall’Inghilterra e ad avvicinarsi alla Germania, dopochè, occupando l’Egitto, l’Inghilterra si fu interposta tra essa e l’Africa mussulmana. Gli Inglesi furono nel 1882 troppo lesti di mano con il Nilo e l’Egitto; e perciò nel 1914 la Turchia isolava la Russia dai suoi alleati, la precipitava nell’abisso, e con la Russia avrebbe forse precipitato tutta la Intesa, se l’America non accorreva al soccorso. Gli uomini di Stato seminano vento e i popoli raccolgono tempesta. L’Egitto è tanta parte del mondo mussulmano e del sistema mediterraneo, che soltanto un imperialismo senza cervello poteva illudersi di impadronirsene senza generare, presto o tardi, qualche enorme disordine. Ma alla reazione degli eventi contro la sua prima violenza, l’Inghilterra rispose ribadendo l’errore; proclamandosi protettrice di un paese mussulmano che tollerava di mala voglia perfino la sovranità nominale del Sultano di Costantinopoli; assumendo senza autorità l’alto governo di un vasto paese, che non potrebbe reggere se non con la forza. Ma di queste piccolezze nessuno si diede pensiero a Londra, nel 1914. Il ferro e il fuoco dominavano allora la terra ed i mari. Il mondo formicolava di soldati. La legge marziale impose all’Egitto il protettorato, strappò alla gleba i coloni per arruolarli negli eserciti, confiscò al «fellah» il cotone che aveva coltivato con il suo sudore.... Ma alla fine la pace ritornò. L’Inghilterra si accorse allora che non aveva alcuna autorità per installarsi in Egitto come erede dei Faraoni e dei Tolomei: che non avrebbe potuto «proteggere» l’Egitto, se non opprimendolo con centinaia di migliaia di soldati; e che questi soldati non aveva. E allora, di mala voglia, si è a poco a poco incamminata sulla via delle necessarie rinuncie.... Avrebbe dovuto accorgersi prima, che non possedeva nè l’autorità nè la forza per governare l’Egitto, come potenza sovrana. La tragedia della guerra e della pace sta tutta qui. Socialisti e imperialisti hanno deriso insieme la «guerra liberatrice dei popoli» e «la pace giusta e democratica»; hanno canzonato Wilson e coloro che lo hanno preso sul serio; hanno detto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole; che anche questa guerra, come tutte le altre, doveva terminare con la spogliazione e lo sterminio dei vinti. Eppure se coloro che bandirono quelle formule, spesso le intesero confusamente, le spiegarono male e confondendole si confusero essi stessi, essi balbettavano almeno la verità vitale della guerra e della pace, chiusa agli ottenebrati intelletti degli altri. Il mondo versa in tremenda confusione, perchè non ha saputo estrarre questa verità da quelle formule confuse. A quale mutamento soggiace l’ordine universale, per effetto del grande cozzo dei popoli e degli imperi? Anche i meno chiaroveggenti lo vedono: il mondo si sta spartendo tra un grande numero di stati medî. I grandi imperi, o sono già stati distrutti come l’impero russo, l’impero turco, l’impero austro-ungarico, o sono stati amputati e ritagliati come l’impero tedesco, o vacillano, come l’impero inglese e il francese. Francia e Inghilterra possono sperare di conservare ciò che possedevano fuori di Europa prima della guerra, se useranno la necessaria prudenza; ingrandirsi, no. La guerra le ha troppo indebolite. «Il vincitore cadrà moribondo sul cadavere del vinto», dissi nel 1916. Non occorreva virtù profetica, per indovinarlo; bastava avere occhi e vedere. L’uomo di Stato può essere indifferente al bene e al male; ma deve almeno capire e indovinare l’inevitabile. Invece i governi dell’Intesa incominciano ad accorgersene appena adesso, dopo tre anni di vaneggiamenti e litigi; leggono nel libro del destino, solo quando la necessità li obbliga a compitarlo. Eppure l’avvenire è scritto a lettere cubitali in quel libro, aperto a tutti. Non espansioni, conquiste, nuove rivalità; ma o, come nel 1815, raccoglimento e riconciliazione, o la rovina. L’Inghilterra cederà l’Egitto, sgombrerà Costantinopoli, non si reggerà a lungo in Mesopotamia e in Palestina; e Dio solo sa quel che l’aspetta in India. La Francia ha sgombrato la Cilicia e non pare probabile che possa prender saldo piede in Siria, tanto più che inglesi e francesi non sono riusciti ad andare d’accordo. Molto incerto appare anche nell’Africa il destino delle più recenti conquiste: Tripolitania e Marocco. Il mondo si sta spezzettando in un grande numero di Stati di media grandezza, distinti più o meno chiaramente e sicuramente secondo lo spirito nazionale, retti da istituzioni elettive. L’êra dei grandi imperi è finita. Quella condizione di cose per cui fu possibile ad alcuni Stati europei, nel secolo XVIII e XIX, di raccogliere sotto il loro dominio un grande numero di popoli e di territori, viene meno. Se sarà bene o sarà male, si può discutere: ma è così. Sono queste le due grandi realtà storiche, adombrate sotto le formule un po’ nebulose: diritto dei popoli a governarsi e pace democratica. Gli imperialisti e gli imperialismi arrivano in ritardo, come frutti fuori di stagione. Non c’è ambizione, che possa resistere a questa forza dei fati e dei fatti. Alle grandi potenze superstiti dell’Europa — all’Italia, alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania — non resterebbe più che intendersi per esercitare, aiutandoli, una certa autorità morale su questi nuovi governi che sorgono, o sugli antichi che si rinnovano; per impedire eccessi, sbalzi, scosse troppo violente; e per assicurare la pace e la ricostruzione della fortuna universale. Questa è la sola politica «realistica», a cui dovrebbe por mano la Lega delle Nazioni, il giorno in cui scendesse dalle nuvole, dove amici e nemici l’hanno collocata. Fuori di questo vero «realismo» non ci sarà per l’Europa che il disordine, la violenza e la povertà. IX. L’imbroglio orientale (15 maggio 1922) Nessuno cancro fu più difficile ad estirpare dalla chirurgia diplomatica, che quello da cui oggi è rosa l’Europa: i recenti, non imperialisti, ma chimerici trattati di pace. Se Stati e popoli sono pronti a rifarli nelle parti di cui si lagnano, nessuno vuole che siano toccati là dove gli assicurano — o sembrano assicurare — qualche vantaggio o speranza, vera o illusoria. Pacificare il mondo, sì, tutti vogliono — popoli e Stati: ma nessuno è poi capace per pacificarlo davvero di fare un sacrificio serio e fecondo; tutti sperano anzi di rifarsi nella Conferenza di Genova di molte delusioni passate, vere e immaginarie. Prendiamo un esempio solo: gli affari orientali. Molti li credono pericolanti a danno e con minaccia di tutti, solo perchè alcuni Stati di Europa si ostinano a fare il broncio al governo dei Sovieti. Aspettano quindi con impazienza che la pace con i bolscevichi sia suggellata, per gridare anch’essi: _nunc est bibendum!_ A leggere certi giornali si direbbe che il giorno in cui tutta l’Europa abbraccerà la Russia e con questo abbraccio accoglierà di nuovo la figliuola prodiga nella famiglia, la antica felicità perduta ritornerà a far lieti tutti i popoli. Ma sono anche queste illusioni. Purtroppo gli affari dell’Europa orientale non sono così semplici, come molti pensano. Quale è il pericolo, che sordamente minaccia quella tormentata parte dell’Europa? L’incerta posizione in cui la Polonia, la Ceco-Slovacchia e la Rumenia stanno di fronte alla Germania e alla Russia. Amici o nemici? In guerra o in pace? Non si sa. Intermettendosi tra la Germania e la Russia, la Polonia e la Ceco-Slovacchia si sono poste in istato di ostilità latente con ambedue. La Polonia ha anche esasperato la ostilità latente, quando ha preso territori, che la Germania e la Russia, a torto o a ragione, considerano ancora come proprî. A sua volta la Ceco-Slovacchia è sorta come una sfida al mondo germanico, che per tanti secoli aveva oppresso le popolazioni slave della Boemia. Che meraviglia se i tedeschi la guardano con occhio torvo? Nè la Rumenia ha esitato ad aprire un grosso conto con la Russia, prendendo la Bessarabia. La piccola Intesa si schiera dunque sopra un doppio fronte: contro la Russia e contro la Germania. Ed ha alle spalle l’Ungheria che, persuasa anch’essa di essere stata derubata, spia un’occasione.... Le nuove frontiere tracciate dall’Intesa nell’Europa orientale tra le rovine degli imperi moscovita e austro-ungarico non sono riconosciute nè dalla Germania, nè dalla Russia, nè dall’Ungheria, come l’annessione dell’Alsazia e della Lorena non fu riconosciuta dalla Francia dopo il 1870. Il nuovo ordine di cose, creato nell’Europa orientale dai trattati di pace del 1919, posa sopra un diritto, riconosciuto per tale soltanto dai vincitori, il che vuol dire che non posa su nessun diritto, ma sulle baionette. E allora, come si regge? Si regge perchè, _per il momento_, Ungheria, Russia, Germania sono incatenate. È impotente l’Ungheria, mutilata e decapitata: monarchia senza re. È impotente la Russia, la cui spada, già spuntata dagli czar, è stata spezzata dai bolscevichi. È impotente la Germania, esausta dalla guerra, disarmata dai trattati, e minacciata sul Reno da un grosso esercito di francesi e di belgi. Molti giornali si meravigliano che a Genova la piccola Intesa segua la Francia, piuttosto che la Inghilterra e l’Italia. Pensano forse che, per far l’Europa obbediente ai vincitori, bastino i discorsi di Lloyd George? Ma le catene dell’Ungheria, della Germania e della Russia, non saranno eterne. Se le tre nazioni sono oggi impotenti, quanto tempo potrà durare per noi questa comoda felicità di cose? In questo sta il tutto. È inutile farsi illusioni: le potenze vittoriose saranno fra poco capaci forse di pacificare il mondo, ma non più di sorreggere con la forza gli Stati che hanno creati o ingranditi nell’Europa Orientale. L’Inghilterra e l’Italia hanno già ridotto i loro eserciti alla stretta misura della difesa; e presto la Francia dovrà imitarle. La Francia sta impegnando il letto e la pentola per fare con un grosso esercito il gendarme dell’Intesa e dei trattati nell’Europa continentale, lucrando per di più, come ricompensa, l’odio universale. Si stancherà di questo ingrato e rovinoso ufficio. E allora? Che cosa accadrà, quando la Polonia, la Ceco-Slovacchia e la Rumenia dovranno fare assegnamento sulle proprie forze soltanto? Massime se al Sansone moscovita ricominceranno a spuntare i capelli? Quel che prepari l’avvenire nell’Europa orientale, nessuno può indovinarlo. Ma il presente è minato sotto sotto da una incertezza incurabile, perchè i vincitori _si sono illusi di potere rifare l’Europa orientale da soli, contro la Russia e contro la Germania ad un tempo_. Bisognava rifarla o d’accordo con la Germania o d’accordo con la Russia: d’accordo con la Germania, dunque, poichè l’Occidente aveva voltato le spalle alla Russia, infuriato, dopo la rivoluzione. Si ricasca sempre lì. I vincitori non hanno capito che la rivoluzione russa — la massima vittoria della Germania nella guerra — imponeva loro l’obbligo, se non volevano precipitare l’Europa nel caos, di fare alla Germania condizioni molto miti, perchè se la Germania era vinta, non era però messa, e non poteva esser messa, nell’impossibilità di vendicarsi di una pace cartaginese. Dico oggi queste cose, perchè le ho dette e scritte nel 1919: ma allora chi dava retta, in Italia, in Francia, in Inghilterra? Appena si nominava la Germania, si vedeva spuntare, sul volto dei vincitori, il cipiglio truculento di Brenno. Ci voleva invece il sorriso di Alessandro I, di Talleyrand e di Metternich. Come le cose dell’Europa non poterono essere assestate nel 1815 senza il concorso e il consenso della Francia, così nel 1919 erano condannate a restare in un rovinoso disordine senza il concorso e il consenso della Germania. Lo so: soltanto una saggezza quasi sovrumana avrebbe saputo sorridere nel 1919, sanguinanti ancora le ferite. Il risentimento, che ha dettato i trattati di pace, era umano. Ma non sarà, per questo, meno funesto alle vittime. Sia che discutano la pace con la Russia, sia che preparino patti di garanzia, sia che cerchino nella riduzione degli armamenti uno scampo dal fallimento, sia che vagheggino l’intesa e la riconciliazione con la Germania, i vincitori inciampano sempre in quello scoglio: l’ordine di cose, creato da loro nell’Europa orientale, è subìto, non è riconosciuto per giusto e legittimo dai vinti. Proprio come accadde alla Germania, dopo il 1870, nell’Alsazia e nella Lorena. La storia si ripete. La Polonia, la Ceco-Slovacchia, la Rumenia fanno ora vive istanze, perchè i bolscevichi si impegnino per iscritto, nero sul bianco, a riconoscere i mutamenti territoriali, operati dai trattati di pace. E i bolscevichi acconsentiranno, come prometteranno di pagare i debiti e di accogliere fraternamente i capitali stranieri. Ma i patti sarebbero osservati, se domani le forze crescessero alla Russia? Quando la buona fede non fosse più la maschera dell’impotenza? Pericolo lontano, ma che turba e inquieta, quasi fosse imminente. Nè può essere altrimenti. L’errore, commesso nell’ebbrezza della vittoria, quando si volle rifare l’Europa orientale contro la Germania e contro la Russia, è di quelli che incatenano a sè per lungo tempo; che non si possono riparare, senza averne prima pagato il fio con molte sofferenze e delusioni. Almeno se vinti e vincitori non fossero disposti nell’Europa orientale a far omaggio alla Pace, gli uni di una parte dei loro rancori e delle loro proteste, gli altri di una parte delle loro ambizioni e delle loro cupidigie.... Ma sarebbe un miracolo! X. I trionfi dell’imperialismo europeo: la riscossa turca (22 settembre 1922) Le grandi Potenze dell’Intesa possono ora contemplare in Oriente l’opera propria e dichiararsi soddisfatte. La Grecia, rovinata e tra poco in rivoluzione; l’Asia minore devastata; la Turchia in armi, nemica, furente, e in procinto di chiudersi ai cristiani e all’Europa forse per secoli. Non la piccola Grecia è stata vinta, sotto Smirne; ma la grande Inghilterra, ma l’Europa, ma tutto il mondo, che si dice ancora ed è cristiano di nome soltanto, con le sue torbide o impotenti ambizioni. Il male è sempre quello: il non voler riconoscere, i vincitori della guerra mondiale, che la vittoria, _se ha accresciuto la loro sicurezza, ha diminuito la loro potenza_. In Inghilterra, in Francia, in Italia, gruppi pur troppo influentissimi, ma ciechi, si imaginano ancora che la vittoria abbia conferito loro una specie di sultanato del mondo; un diritto regio di dominazione su territori, su razze, su popoli che sfuggono invece al loro infiacchito vigore. E per correre dietro a questa immaginaria potenza quei gruppi farebbero getto anche del frutto acquistato davvero con tanti sacrifici: la sicurezza! Eppure anche questa pagina della storia è scritta in caratteri chiari, per chi sa leggere il libro. Negli ultimi secoli l’Europa ha potuto conquistare tante parti del mondo, perchè dal giorno in cui un tedesco incominciò la guerra chimica tritando e mescolando del carbone, del salnitro e dello zolfo, gli europei sono stati sempre superiori nelle armi. Ma questa superiorità è finita con la guerra mondiale. Con la guerra mondiale l’Europa si è disarmata forse per secoli. Se la spada dei vinti è spezzata, quella dei vincitori è spuntata ed ottusa: questa è la verità. Nè l’Inghilterra, nè la Francia, nè l’Italia non possono più mandare eserciti in terre lontane, per spedizioni di lunga lena. Potremmo rifare, domani, l’impresa di Tripoli? Quando uno Stato è più forte per armi, può giustificare le sue conquiste con la ragione del cannone. Tuttavia, se vuol ricorrere alla dottrina, è regola di buona prudenza, anche per lo Stato più forte, non contraddire con la dottrina la propria violenza: non incatenare in nome della libertà, non saccheggiare a difesa del diritto di proprietà! Ma i vincitori della guerra mondiale hanno commesso anche questo errore. Mentre si assumevano, quasi inermi, una specie di protettorato del globo, bandivano la teoria dei diritti delle nazioni. Il vero nemico dell’imperialismo è il nazionalismo; eppure quasi dappertutto i nazionalisti sono anche imperialisti. Se la patria è il sommo bene per gli italiani, sarà il sommo bene anche per i francesi, per i tedeschi, per gli slavi, per i magiari, per i turchi. Che logica è questa, di volere che di qua da un palo il difendere la patria sia il più santo dei doveri e il più infame dei delitti di là da quel termine? Se le patrie non imparano a rispettarsi, il patriottismo diventerà legge di universale sterminio per la distruzione di tutte le patrie. Se la logica manca, ci fossero almeno i cannoni! Se i cannoni arruginiscono, ci fosse almeno un po’ di logica! Ma la bizzarra insegna del nuovo imperialismo, fermentato nelle ebbrezze della vittoria, è proprio questa: senza logica e senza cannoni. Inerme, impotente, prepotente. Contro la ragione, fuori della verità, nella sfera dei torbidi sogni! Che meraviglia se le catastrofi si seguono? Poichè anche questa di Smirne è una catastrofe. Aspettando di subirne gli effetti, poniamo il quesito: quale fu la cagione? Una piccola dimenticanza, in cui sono incorsi gli uomini di Stato che imbastirono a San Remo il trattato di Sèvres. Costoro avevano dimenticato una cosa da nulla: che la Russia era caduta; che, sparita la Russia, non c’era più, in tutta l’Asia continentale, altro esercito fuorchè l’indiano, troppo piccolo e troppo lontano, per servire al caso; che quindi non c’era più alcuna forza capace di imporre alla Turchia vinta il trattato, nelle parti in cui la Turchia non lo accettasse. Mezzo secolo fa, quando l’Europa era ancora un continente civile e colto, queste cose si sapevano nelle Cancellerie. Nel 1920, i capi di tre grandi Stati, tra i quali quel Lloyd George, a cui alcuni si affiderebbero addirittura per l’alto governo dell’Europa, non ci hanno pensato! Kemal pascià si rifugiò tre anni fa ad Angora con tremila uomini. Perchè ha potuto preparare pazientemente l’esercito, che ha riconquistato l’Asia minore? Perchè non c’era più nessun esercito in Asia, che potesse rompergli a tempo la tela sul telaio. L’Inghilterra chiamò in aiuto i Greci: espediente vano e quasi ridicolo. La religione e il sentimento nazionale fecero l’opera loro d’accordo. Il governo di Angora ha puntato contro l’Intesa non solo i cannoni della vecchia Turchia e dei bolscevichi, ma anche i principî della libertà dei popoli, con cui l’Intesa avea sollevato il mondo contro i tedeschi. Ed ora molti credono che, per ristabilire la pace in Oriente, l’Inghilterra, la Francia e l’Italia debbano interporsi tra i Turchi e i Greci. Beati coloro, che non hanno occhi! Ma se è proprio contro i supposti pacieri che i Turchi combattono, per la riconquista di Costantinopoli e di Adrianopoli! Smirne è solo una tappa: meta il Bosforo, e le città sante dell’Islam. Se i turchi non sono in grado di riconquistare Costantinopoli, dominata dal mare, non andrà molto che il terreno di Bisanzio scotterà sotto i piedi alle Potenze che la occupano. Presto o tardi — o forse più presto che non si creda — l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, saranno costrette o a stracciare anche le ultime pagine del trattato di Sèvres, sgombrando Costantinopoli, o a mandare in Asia eserciti a combattere i turchi. Tener Costantinopoli dal mare è come voler appendere una donna a un albero per i capelli. Perciò non c’è da sperare una pace facile e prossima. Dopo la guerra dell’Europa contro se stessa, incomincia con questa rivincita dell’Islam la guerra dell’Asia contro l’Europa. Come le guerre della rivoluzione e dell’impero fecero perdere all’Europa la maggior parte dell’America, la guerra mondiale le costerà l’Asia e una parte dell’Africa. Dall’Asia minore lo spirito aggressivo dell’Islam passerà in Siria, in Palestina, in Mesopotamia, in India, in Egitto, nell’Africa settentrionale. Inghilterra, Francia, Italia si troveranno presto impegnate in una guerra lunga, minuta e implacabile contro l’Islamismo. Molto sangue sarà ancora versato; molte ricchezze saranno disperse e distrutte. Chi semina vento raccoglie tempesta. E l’Europa ha seminato tanto vento, da un secolo in qua! XI. Il nodo insolubile delle riparazioni (24 maggio, 6 giugno e 22 novembre 1922) Che la Germania non pagherà se non una piccola parte del riscatto iscritto nei trattati, ed a stento, sono forse stato il primo a dirlo, sino dal 1919. Dissi allora, ed ho ripetuto molte volte, che la Germania non manterrà i suoi impegni, perchè le classi medie e le masse sono state impoverite troppo dalla guerra; onde nessun governo sarà così forte, da poter estorcere alla nazione le favolose somme del riscatto. La giustizia sarà impotente contro questa immunità, assicurata alla Germania dalla immensità stessa delle sue distruzioni. Purtroppo la Germania gode «l’irresponsabilità del terremoto». Ma per quanto sia persuaso di esser nel vero, riconosco che non tutti sono obbligati a pensar così, perchè questa è una congettura verosimile, ma non obbligatoria per la sua evidenza; perchè le teste non sono fatte a squadra, e le passioni e gli interessi divergono anche più delle teste. Anzi riconosco che a due popoli è ancor quasi impossibile di vedere questa verità, che agli altri apparisce ogni giorno più evidente: onde una nuova lacerazione dell’Europa. Questi popoli sono la Francia ed il Belgio. Molti credono che il nodo delle riparazioni sia insolubile, perchè la Francia è governata ora da partiti a cui si fa colpa di essere «militaristi» e «imperialisti». A un secolo di distanza Napoleone minaccerebbe ancora la pace dell’Europa dalla tomba degli Invalidi. Perciò molti sperano nelle elezioni future. Anche Mario Borsa è di questo parere. Ma credo che questa illusione sia frutto di una scarsa conoscenza delle cose francesi. Che la Camera francese del 1924 abbia a rosseggiare in confronto della presente, è possibile; ma non per questo la politica della repubblica muterà, nelle questioni che nascono dall’applicazione dei trattati, _almeno se la situazione non muta_. In questa politica è necessario distinguere le parole e i fatti, la forma e la sostanza. I discorsi degli uomini che da tre anni governano la Francia possono essere stati qualche volta poco felici; ma chi ha seguito i convegni diplomatici, tenuti dal 1920 in poi per discutere intorno all’applicazione dei trattati, sa che, pur cercando di non dar troppo nell’occhio e spesso affettando un’aria di transigenza, il governo francese ha concesso molto alla Germania. Per ricordare un esempio solo: le ha concesso l’anno scorso di pagare un miliardo, invece di dodici, alla prima grossa scadenza. Non è poco, mi pare. Quando gli «zelanti» — chiamiamoli così — rimproverano al governo francese di abbandonare in tutti i convegni qualche diritto della Francia, esagerano, forse, ma non inventano. Ma se gli atti inclinano spesso alla conciliazione, i discorsi sono quasi sempre fieri. E non quelli degli uomini di governo soltanto. Nessun capo di quella opposizione, che forse governerà domani la Francia, ha mai ammesso che il trattato di Versailles possa essere riveduto; tutti ripetono sempre, come il governo, che il trattato deve essere rispettato. Come si spiega questa contraddizione? Chi ama rovistare nei vecchi libri, può trovare nel Vattel, giurista famoso del XVIII secolo, questa curiosa teoria: i sovrani in guerra non dovere mai presumere che la causa propria sia più giusta di quella dell’avversario o che l’avversano abbia torto in suo confronto; ma considerare sempre la causa avversaria altrettanto giusta quanto la propria, e quindi scendere in campo, ammettendo che il proprio avversario abbia ragione. Teoria strana e paradossale, che il giurista conforta con una giustificazione non meno singolare. Egli dice che, tra due stati in guerra, nessuna autorità può decidere. Ogni parte è giudice della propria causa; tutte e due quindi si persuaderanno di avere la ragione per sè; e una volta persuase tutte e due di difendere la giustizia, la guerra diventerà eterna e universale. Diventerà eterna, perchè, le due parti essendo persuase di avere ragione, nessuna si vorrà mai rassegnare alla propria sconfitta, giudicandola immeritata. Diventerà universale, perchè le due parti, persuase di difendere il diritto, si crederanno obbligate a cercare in ogni parte quanti più alleati potranno. Anche a me le pagine del vecchio giurista erano parse strane ed oscurissime, quando le lessi per la prima volta, tanti anni fa. Che pretesa era questa, che uno Stato scendesse in campo contro un altro Stato, ammettendo che le ragioni avversarie valevano le proprie? Ma come la oscura dottrina mi sembra chiara e profonda, dopo le tragiche esperienze degli ultimi anni! Può sembrare strano, ma è così: l’Europa rischia di non avere più pace, appunto perchè nella guerra mondiale gli animi sono stati infiammati dall’idea della giustizia! Appunto perchè alla guerra i popoli sono stati chiamati come a una grande ordalia, i vincitori non furono paghi di averla vinta, ma vollero anche restaurare il diritto violato e fare giustizia. Se no, la vittoria sarebbe apparsa parziale e in parte inutile. Il vero nodo delle riparazioni, che nessun convegno, accordo, progetto, transazione o minaccia riesce a sciogliere, è questo. Si considerano di solito le riparazioni come una questione di dare e di avere. Così fossero! Le difficoltà, per quanto grandi, sarebbero piccole. Ma, pur troppo, nello spirito dei due popoli maggiormente offesi dalle invasioni tedesche, la Francia e il Belgio, le riparazioni sono anche una questione di giustizia, un risarcimento dovuto al diritto violato. Perciò la Francia e il Belgio sono intrattabili su questo punto; ed è loro così difficile di intendersi con l’Italia e con l’Inghilterra, che le considerano come un interesse economico. Gli uni parlano una lingua, che gli altri non capiscono. Provatevi a ragionare con un francese o con un belga, a dimostrargli che la Germania, impoverita dalla guerra e dalla altrui povertà, governata da un governo impotente, non riuscirà mai a mettere insieme le somme del riscatto. Nove volte su dieci, egli vi ascolterà per un po’, poi vi interromperà, dicendo concitatamente: «Noi volevamo la pace. I tedeschi, un bel giorno, hanno voluto la guerra, sono entrati nel Belgio a tradimento; grazie a questo tradimento hanno potuto invadere la Francia, fare scempio dei suoi dipartimenti più floridi. Hanno rotto: paghino. Non è giusto che la Francia e il Belgio debbano essere ridotte alla miseria, perchè un bel giorno ai tedeschi è venuto in mente di assalirli a tradimento, per la speranza di un grosso bottino». Che cosa possono i numeri, gli argomenti, i calcoli del possibile e dell’impossibile, contro questo ragionamento, dettato dal risentimento dell’offesa ricevuta? Molti francesi e belgi vogliono il denaro tedesco, come noi desideriamo che l’autore di un feroce assassinio sia giustiziato. Noi sappiamo che la morte del reo non ridarà la vita alle sue vittime; ma vogliamo la sua morte come una vendetta ed una espiazione necessarie a placare il nostro senso della giustizia offesa. Che la Germania non pagherà nè nella misura nè nei termini stabiliti dai trattati, molti incominciano a pensarlo, anche in Francia e in Belgio. Ma non importa: non vogliono rinunciare ai loro diritti, anche se in parte illusorî; vogliono con quelli spaventare, umiliare, maltrattare la Germania, perchè queste rappresaglie soddisfano il sentimento della giustizia offesa dall’aggressione. Moltiplicate questo stato d’animo per milioni di uomini e calcolate. Che marea di pubblica collera! L’Europa pericola tutta quanta, per la contraddizione, che corre tra questo stato d’animo e la realtà. Sinora si è tirato avanti alla meglio, supponendo l’insolvenza della Germania passeggera. Tutti gli accordi e i convegni dei capi di Stato si fanno per concedere differimenti e moratorie, che dovrebbero essere provvisorie, affinchè la Germania abbia il tempo necessario per prepararsi a pagare. Il giorno apocalittico sarà quello in cui la insolvenza della Germania dovrà essere riconosciuta ufficialmente come definitiva. Questo giorno, presto o tardi, verrà, e forse verrà più presto che non si creda. Che cosa accadrà quel giorno? In quali moti e scatti proromperanno la Francia ed il Belgio sotto il colpo di questa, che offenderà i due popoli come una delle più orrende ingiustizie della storia? Questo è l’enigma dell’avvenire: enigma pauroso, perchè in quel giorno le annose teorie del Vattel potrebbero avere qualche terribile riprova. Nè purtroppo si vede, almeno per ora, quel che si potrebbe fare, per parare questo pericolo. Ma forse sarebbe già un vantaggio, se gli altri popoli si convincessero che le riparazioni sono, per la Francia e per il Belgio, non soltanto affari di danaro, ma anche questione di giustizia. Comprendendo questo animo dei due popoli, gli altri Stati potrebbero almeno astenersi da argomenti e procedimenti che, pur dettati dal desiderio di riconciliare gli antichi avversari, irritano ancora più le ferite troppo fresche degli aggrediti. Appunto perchè avevano chiamato i popoli a combattere per la giustizia e per il diritto, gli uomini di Stato avrebbero dovuto sapere che era una tremenda responsabilità l’avere vinto la guerra e il fare la pace. Il fare giustizia tra i popoli è compito quasi divino. E invece... Ma chi legge ancora il Vattel? Aspettiamo, dunque, vigilando, che gli effetti degli errori maturino, con la speranza che maturi insieme anche qualche rimedio; e sforziamoci non tanto di fare la pace con la Russia quanto di prevenire una nuova guerra tra Francia e Germania. Poichè questo è il vero pericolo che ci minaccia. Il trattato di Versailles matura lentamente nei suoi fianchi questa nuova guerra, che potrebbe incominciare con una invasione, non contrastata, della Germania e finire.... Come potrebbe finire, nessuno lo sa. Non auguro alla nostra generazione, di veder come potrebbe finire, e perciò le auguro di non vederla neppur incominciare. La nuova guerra non rassomiglierebbe punto a quelle che i due popoli hanno combattuto nel secolo passato e nel presente. XII. Sisifo (9 gennaio 1923) Una volta ancora il mondo aveva sperato che il nodo delle riparazioni sarebbe sciolto, e una volta ancora è stato deluso. Ma la speranza era vana. Non mi ero ingannato, quando avevo, mesi e anni addietro, giudicato che le riparazioni sono un nodo che «_rebus sic stantibus_», nella presente condizione delle cose europee, non può essere nè tagliato nè sciolto. E neppure è difficile scoprire per quale ragione, a chi sappia che cosa è un trattato. Un trattato è un impegno tra Stati. Ora gli impegni tra gli Stati sono simili agli impegni tra i singoli: valgono o per il consenso o per la forza. Io fo’ a voce una promessa; e mi sento così obbligato dalla mia parola, che la mantengo spontaneamente anche a mio danno: questo è un impegno, che vale per consenso. Ma firmo un contratto, poi me ne pento, e vorrei, giunto il tempo, non osservarlo; senonchè ho paura di un processo, della giustizia, dell’usciere, e perciò lo adempio: ecco un impegno che vale per la forza. È manifesto che tutti gli impegni, privati o pubblici, con cui i singoli uomini e gli Stati si legano — contratti, promesse, trattati, convenzioni — vanno ascritti all’una o all’altra famiglia. Dove non c’è nè volontà pronta ad adempiere, nè forza capace di costringere la volontà riluttante, non c’è nè contratto nè trattato, ma un inutile pezzo di carta. Tale è purtroppo il caso delle riparazioni tedesche. Quale è la forza che potrebbe costringere la Germania a pagare per quaranta, o cinquanta anni il riscatto del sangue? Minacciando di varcare il Reno, gli alleati possono costringere il governo tedesco a firmare nuove cambiali e nuovi «pagherò», che alla scadenza saranno poi gettati con gli impegni precedenti nella fossa comune degli inadempienti. Per spremere dalla nazione tedesca i miliardi del riscatto, neppure l’occupazione della Ruhr basterà; gli alleati dovrebbero impossessarsi addirittura dell’intero governo del paese. Lo scrissi qui nel 1919, quando l’universale si illudeva che la vittoria avesse conferito all’Intesa una specie di sovranità illimitata sulle cose del mondo; lo ripeto ora, che i fatti incominciano a parlare chiaro anche ai sordi. Un riscatto, che deve essere pagato in cinquanta anni, non è una indennità di guerra, è un tributo. Ma per riscuotere un tributo, e un tributo di quella forza, occorre un esattore spietato. Sperare che in Germania, e in una repubblica governata dal suffragio universale per giunta, ci sarà mai un governo nazionale, disposto ad affrontare l’odio della esazione per il piacere all’Intesa, è puerile. La Intesa dovrà andare ad esigere il tributo in Germania, in tutta la Germania, e non soltanto nella Vestfalia, se proprio vuole il denaro. Ma chi crede gli alleati capaci di assumersi per mezzo secolo anche il governo della Germania, alzi la mano. La forza dunque non c’è. E non c’è neppure il consenso. È ridicolo chiedersi e discutere con tanta serietà, come fanno i governi, i ministri, gli esperti, i giornali, se la Germania possa o non possa pagare il riscatto. Ma se volesse, potrebbe pagare anche le somme che Lloyd George chiedeva nel 1918! Se volesse: ossia, se il popolo tedesco fosse disposto a vivere di pane e acqua e ad andare a piedi scalzi, per mettersi in regola con il trattato di Versailles. Ma non vuole, purtroppo; e non vuole perchè... Il «perchè» è il punto che la stoltezza dei vincitori non ha voluto capire nel 1919 e non vuol capire nemmeno adesso. Eppure in questo sta il tutto. Si dice spesso nei discorsi ufficiali — a Capodanno l’ha ripetuto anche il Presidente Millerand — che in Europa non ci sarà nè ordine nè pace, finchè i trattati internazionali non saranno rispettati. Verissimo. Ma poichè i trattati non sono rispettati che o per forza o per consenso, sarebbe stato necessario che i vincitori, là dove la loro forza non giungeva, avessero cercato di assicurare ai trattati il consenso «spontaneo e sincero» dei vinti. Non c’è impegno valido, nè nel diritto pubblico nè nel privato, se il consenso è viziato dalla violenza. Voler imporre ai vinti con la forza dei patti che i vinti non vogliono, e pretendere poi, quando la forza per imporli manca, che li osservino spontaneamente, come impegni d’onore liberamente accettati, è vana illusione. Molti si meravigliano che nel 1814 Talleyrand, pochi giorni dopo essere arrivato a Vienna per sostenere le ragioni della Francia vinta, fosse trattato dai vincitori come un amico, un collaboratore, un maestro. Ma quei vincitori che, nonostante la vittoria, avevano conservato un po’ di testa e un po’ di buon senso, sapevano che con la forza sola non avrebbero potuto imporre il trattato per molti anni alla Francia; volevano che valesse nel tempo e nello spazio oltre il breve raggio delle loro spade sguainate; si proponevano di esigere il rispetto anche in nome dell’onore e della lealtà. Ma come avrebbero potuto, se il consenso della Francia fosse stato strappato a forza, con la spada alla gola? La diplomazia del Sei e del Settecento era piena di singolari artifici, per escludere dalle trattative di pace l’argomento della forza. I protocolli del congresso di Vestfalia sono una interminabile accademia di discussioni giuridiche. Quanto hanno riso di queste sottogliezze, durante il secolo XIX, gli uomini di penna e di spada! Ma quei sovrani erano più savi dei loro matti motteggiatori; poichè essi volevano — e perciò aguzzavano l’ingegno a quelle sottigliezze — che i trattati valessero per se stessi, come impegni liberi dell’onore, e non solamente nella misura della forza pronta ad imporli. Che cosa hanno fatto, invece, i vincitori nel 1919? Hanno addirittura ostentato di imporre ai vinti i trattati di pace con la forza, con la sola forza, non tenendo conto del loro consenso, al punto che si son rifiutati di discuterli! Quando il Brockdorf-Rantzau tentò a Versailles di mercanteggiare la somma del riscatto offrendo cento miliardi, non fu nemmeno ascoltato. I tedeschi dovettero impegnarsi a occhi chiusi a pagare la somma, che una certa commissione fisserebbe nell’avvenire; ossia firmare una cambiale in bianco, sulla quale i vincitori avrebbero poi scritto a piacere la cifra del debito! E ora si vorrebbe che i tedeschi si sentissero impegnati dall’onore ad adempiere il patto? Ma siamo sinceri: ci sentiremmo noi in obbligo, se un trattato di questo genere ci fosse stato imposto dai tedeschi? I tedeschi ripetono oggi il ragionamento che i francesi fecero dopo il 1870: «il trattato ci è stato imposto con il coltello alla gola; nella misura in cui ci costringeranno ad osservarlo, lo subiremo; ma non lo riconosceremo mai». Per salvare nel 1919 l’Europa da una pace calamitosa quanto la guerra, occorreva capire il grande esempio del 1815 e sforzarsi di imitarlo: consorziare la Germania in una pace, discussa ed accettata da lei con la maggiore sincerità e libertà, che possano accordarsi con lo stato di necessità in cui si trova un vinto; impegnarla moralmente e interessarla nel tempo stesso a fare il possibile per riparare i guasti della guerra. L’impresa, lo so, era molto più difficile che nel 1815; ma bisognava almeno tentarla! Invece i vincitori volsero brutalmente le spalle al dovere. Ed ora le conseguenze dell’errore maturano... Sarà forza espiarle. Se le riparazioni sono un nodo insolubile nelle condizioni presenti, non vuol dire che il nodo non sarà sciolto mai e che ministri e giornalisti continueranno _in aeternum_ a emulare Sisifo. Questo problema, che non può essere sciolto nelle condizioni presenti, graverà su queste condizioni, per trovar modo di sciogliersi in una condizione di cose diversa. Il non poter gli alleati nè applicare nè modificare il trattato in una parte di tanta importanza come le riparazioni, indica che tutto l’ordine di cose creato dai trattati è precario; e che potrebbe essere sconvolto da inaspettati rivolgimenti. Il primo di questi rivolgimenti sarà l’invasione della Germania. Questa invasione era scritta, per chi lo sapeva leggere, nel trattato di Versailles; e il momento in cui non potrà esser differita dalla tardiva ma impotente saggezza dei vincitori, non dovrebbe esser lontano. Incomincerà timidamente; e forse è destinata a scatenare quella rivoluzione, che a molti segni si vede maturare in Germania, e a cui la caduta della dinastia servirà forse soltanto di modesto prologo. XIII. La nuova guerra (10 settembre 1923) «Una nuova guerra tra Francia e Germania è il vero pericolo che ci minaccia. Il trattato di Versailles matura lentamente nei suoi fianchi questa nuova guerra, che potrebbe incominciare con una invasione, non contrastata, della Germania e finire. Come potrebbe finire nessuno lo sa. Non auguro alla nostra generazione di vedere come potrebbe finire, e perciò le auguro di non vederla neppure incominciare. La nuova guerra non rassomiglierebbe punto a quelle, che i due popoli hanno combattuto nel secolo passato e presente». Così scrivevo nel _Secolo_ il 24 maggio 1922. La facile previsione si è avverata. La nuova guerra tra la Francia e la Germania, che maturava da quattro anni, è incominciata con la invasione non contrastata della Vestfalia; e non rassomiglia alle altre guerre della famiglia. La resistenza passiva, a cui il Governo tedesco si appiglia, sarà impotente. Utile nelle lotte intestine di un popolo e nelle guerre civili, lo sciopero e il _sabotage_ sono un _telum imbelle_, contro un esercito che avanza numeroso, agguerrito, compatto. In questa guerra tra un armato e un inerme, l’inerme non ha speranza. Chi tra le due parti in guerra ne andrà di mezzo sarà la Vestfalia, ridotta a grande scuola pratica di tattica rivoluzionaria — scioperi, _sabotage_ e via dicendo — per il proletariato dei due paesi. Poichè anche i soldati francesi, combattendo la guerriglia rivoluzionaria dei tedeschi, impareranno come si fa. Oh intelligenza dei governi! Ma se la resistenza della Germania è sterile, sterile è pure la forza della Francia e del Belgio. Nè la parte armata nè l’inerme possono sperar nulla da questa strana guerra. Quale risultato positivo palperanno la Francia e il Belgio alla fine della loro spedizione? Se la Francia e il Belgio vogliono che il Governo tedesco sottoscriva qualche nuovo «pagherò», vinceranno facilmente. Ma quello che importa alla Francia e al Belgio sono i pagamenti. E questi pagamenti, nelle condizioni in cui è ridotta, la Germania, neanche volesse, non potrà più farli per lungo numero di anni. L’effetto più terribile — o il più benefico — del rinvilio della moneta è proprio questo: che di quanto esso cresce, altrettanto diminuisce la potenza fiscale dello Stato. Là dove la moneta è distrutta, come in Germania, l’erario dello Stato non esiste più. L’esercito francese e l’esercito belga potranno arrivare fino a Berlino; non potranno spazzare via il lenzuolo di assegnati sotto cui la Germania è sepolta. Eppure questo miracolo soltanto potrebbe salvare i loro crediti e con i loro crediti l’Europa. La Germania è uno Stato fallito e insolvente. Solo il giorno in cui la sua moneta e il suo erario fossero ricostituiti, si potrebbe ricominciare a parlare sul serio dei suoi debiti e dei suoi impegni. Ma quanti anni ci vorranno, ed anni di vera pace? E allora? Più medito sugli eventi, e più mi pare probabile che dobbiamo aspettare o un miracolo o grossi rivolgimenti. La stretta a cui siamo giunti può definirsi così. Il trattato di Versailles e la Germania, quale oggi è, non possono coesistere. O il trattato di Versailles è stracciato; o la Germania presente sparirà per ricomparire in altra forma: quale, Dio solo lo sa. Molti inclinano oggi in Italia a credere che per la Francia il denaro del riscatto sia un pretesto, e copra il proposito di spezzare e smembrare la Germania. Questa supposizione sembra invece a me uno di quegli errori storici con cui il senno di poi fa combaciare le intenzioni e gli effetti. Il trattato di Versailles fu fatto con il sincero proposito che la integrità morale e territoriale della Germania fosse salva. La Francia aveva chiesto da principio che i territori posti sulla sinistra del Reno fossero staccati e ridotti a forma di repubblica indipendente. Inorriditi, Wilson, Lloyd George e Orlando gridarono «no»; e posto il principio che, quando avesse restituito il mal tolto, la Germania dovesse essere inviolabile nel corpo e nell’anima, come tutte le altre nazioni, compilarono il trattato di Versailles, credendo di togliere di mano alla Francia il coltello con cui avrebbe volentieri squartato il nemico. L’Europa può oggi misurare dagli effetti la chiaroveggenza degli uomini, a cui essa affidò il compito di fare la pace. _Ormai il trattato di Versailles non è più, e non può essere più che uno strumento per distruggere la Germania_. In che misura potrà distruggerla, nessuno lo sa. Ma non c’è dubbio, per chi ha occhi e vede, che una distruzione parziale o totale della Germania è il solo frutto, che esso può ancora maturare. Ineseguibile e chimerico nelle sue parti più importanti, ma non abrogabile perchè ci sono potenze che non possono rinunciare gratuitamente e per buon cuore ai diritti che conferisce loro, il trattato spinge e spingerà alcune tra le potenze vittoriose a misure di coercizione, che si aggraveranno per via e che non potranno aver altro effetto sicuro se non di gettare la Germania, già rovinata dalla guerra e dalla pace, nel caos. I lettori fedeli sanno con quale ostinazione batto e ribatto da quattro anni questo chiodo: che il trattato di Versailles piega la Germania sotto il protettorato collettivo dell’Italia, della Francia e dell’Inghilterra; che questo protettorato è una combinazione politica stravagante e fantastica, e sarà domani il vaso di Pandora di tutta l’Europa! Immaginate quello che era stato sino al novembre del 1918 il popolo più potente del mondo, mutato da un giorno all’altro nel Marocco di tre potenze tra loro discordi e di cui ciascuna è più debole; questo, sì, è futurismo politico! Ma all’ignoranza dei popoli il futurismo di Wilson, di Lloyd George, di Clemenceau e di Orlando, piacque, anzi parve un po’ timido, e fu perfino accusato di umanitarismo democratico. Erano stati davvero poco esigenti quegli uomini, che non avevano neppur voluto andare a dettar la pace a Vienna e a Berlino! Ed ecco, dopo quattro anni, la Francia e il Belgio sono presi nell’ingranaggio micidiale di questo protettorato impossibile, e trascinati dall’impegno di imporlo a misure di coercizione, di cui si può sicuramente prevedere che riusciranno a tutto fuorchè ai fini a cui mirano; che rovineranno la Germania senza salvare, anzi spossando, i suoi nemici. Poichè non è da credere che la Francia ed il Belgio possano sostenere per mesi e mesi una fatica di tanta mole, senza risentirsene. PARTE QUINTA. PRIMO DISCORSO AI SORDI _Questo_ Primo discorso ai Sordi _fu composto in tempi diversi, a mano a mano che le occasioni e gli eventi muovevano l’ispirazione. Alcuni frammenti furono pubblicati nel_ Secolo, _nella_ Revue Universelle, _nell’_Illustration, _e nell’_Hearst’s Magazine _di New-York. Lo pubblico qui intero, come conclusione e coronamento di questa storia ragionata di quattro anni._ INTRODUZIONE. Noi non sappiamo quel che facciamo: questa è la nuda verità. Non conosciamo il passato, non ci curiamo dell’avvenire, non sappiamo neppur vivere nel presente. Viviamo fuori del tempo, fuori della ragione, fuori della realtà, nel rapimento di un’allucinazione torbida. Che cosa vogliamo? È un mistero, che non possiamo mai chiarire a noi stessi, perchè vogliamo sempre l’opposto di quel che vogliamo. Sembra assurdo, ma è così. Noi vogliamo l’assenzio volendo il miele; la tenebra volendo la luce; la schiavitù volendo la libertà, la povertà volendo la ricchezza, l’anarchia volendo l’ordine, la guerra volendo la pace. Noi costringiamo, tiranni crudeli, tutte le cose del mondo, anche le più sacre, o a rinnegare la propria ragione di esistere, o a entrare in guerra con se medesime, o a falsificare la propria natura, o addirittura a suicidarsi sotto i nostri occhi per il nostro capriccio; ma senza cessar di volere i beneficî di cui potevano esserci larghe quando erano vive, schiette, coerenti. Mi guardate stupiti, o miei diletti contemporanei, come se parlassi il linguaggio della Sibilla? Queste parole vi sembrano oscure? Cercherò di spiegarle con alcuni esempi, se le vostre orecchie non saranno colpite da una sordità fulminea, appena giungerà loro la prima parola di verità. I. Il suicidio della forza Noi abbiamo creato l’impotenza moltiplicando la forza. Le civiltà che furono prima della rivoluzione francese, anche le più gloriose, erano deturpate da tre piaghe: l’ignoranza, l’ozio, l’isolamento. Pochi studiavano; chi lavorava, e chi no; e ciascuno da solo, o quasi; e schiavo delle regole dell’arte sua. Di costoro i più diventavano alla fine maestri; ma guai a coloro che l’eccellenza respingeva come indegni e incapaci! Cadevano nell’ozio, nell’accattonaggio o nel delitto. Nè i popoli, se rispettavano l’autorità, erano molto obbedienti. Obbedivano al re e allo Stato, ma solo quando l’uno e l’altro erano la voce e il braccio della tradizione e finchè si contentavano di poco. Aborrivano dal nuovo, non volevano balzelli e imposte, odiavano le armi; erano deboli, timidi, poveri, lenti, dispersi. Nè gli Stati erano forti. Paghi del rispetto, esigevano poco oro e punto sangue; poco potevano e poco osavano. Che mutamento, nel secolo XIX! Il mondo pullula di giganti dalle membra ciclopiche: popoli e Stati. Gli Stati diventano mostruose divinità onnipotenti. Obbligano i popoli a studiare, a lavorare, a fare la guerra; li smungono e taglieggiano senza tregua. Non li lasciano più dormire; non cessano un istante dal tormentarli con qualche nuova esigenza, in nome della libertà, del progresso, della patria, del re, dell’imperatore, della repubblica, del socialismo — nomi diversi che coprono tutti lo stesso dovere: obbedire, lavorare, pagare. Ma più sono tormentati, più i popoli si prestano, si fondono in grandi masse omogenee di professioni, di classi e di partiti; imparano a lavorare indefessamente e gregariamente; si lasciano addottrinare dal maestro, spremere dal pubblicano, maltrattare dal capo e dal sergente; vanno alla scuola, all’officina e alla caserma; obbediscono a tutte le leggi che i governi fanno in loro nome; vestono nel secolo della libertà, l’abito di tre discipline — lavoro, stato, esercito! L’ordine nato da questo straordinario rivolgimento era, fino a pochi anni fa, la meraviglia della storia. Era così perfetto e così solido, che pareva addirittura incastrato nell’ordine cosmico. Il giro delle cose umane — lavoro, soddisfacimento dei bisogni, sollazzi, riposo — procedeva regolare e puntuale come il giro del sole. Nella propria cerchia, e purchè non volesse uscirne, ogni uomo, dall’artigiano al milionario, poteva soddisfare ogni suo desiderio. L’obbedienza allo Stato era pronta e precisa, come un riflesso. Una parola ed un cenno: e le casse dello Stato rigurgitavano d’oro; e gli uomini più dolci e miti partivano infuriati per la guerra; e sarebbero stati pronti a volare, se una legge l’avesse ordinato. Che cosa resta oggi, dopo dieci anni, di questo ordine meraviglioso? Pochi rottami perduti in un caos apocalittico. Tutte le luci si spengono nel cielo e tutte le autorità cadono sulla terra. Le corone e gli scettri più antichi e venerati sono stati gettati dai popoli inferociti nel rigagnolo. I parlamenti sono esautorati e disprezzati. I figli non obbediscono più al padre; le donne non vogliono più dipendere dall’uomo; i cittadini si ribellano allo Stato, i soldati agli ufficiali, gli impiegati e gli operai ai capi. Chi ha il diritto di comandare? Chi ha il dovere di ubbidire? Mistero. Coloro che fino a dieci anni fa comandavano, oggi tremano. Coloro che ubbidivano, ridono del dovere come di una superstizione passata. Si lavora ancora, ma disordinatamente e a capriccio. Come accadde? Perchè un ordine, che pareva così saldo, si sciolse in così breve tempo nel caos? Si sono mai posti questi quesiti, i molti Sisifi di ogni lingua che ogni tanto si radunano in qualche città dell’Europa per ricominciare l’eterno lavoro della pace? Nessuna preparazione sarebbe migliore che il meditare questo punto. Poichè nella guerra mondiale noi abbiamo veduto compiersi uno dei fenomeni più terribili e meravigliosi della storia: il suicidio della forza. I vinti sono morti e i vincitori sono moribondi, perchè hanno abusato della propria forza, i vinti anche più dei vincitori, oltre i limiti dell’umano. Sì, i popoli obbedivano. E perciò gli Stati li hanno sottoposti alla più arbitraria delle tirannie, disponendo a capriccio della vita e dei beni di tutti, dissipando in sei anni, in folli spese, la fortuna faticosamente accumulata in cinquanta, gettando da un giorno all’altro alla rinfusa tutte le età, la giovinezza imberbe insieme con la maturità quasi canuta, in mezzo agli orrori e ai terrori della guerra più micidiale che abbia mai insanguinato la terra; falsificando la misura del lavoro, e profondendo tra gli uomini una vana ricchezza di carta filogranata. Neppure Tebe, Ninive e Babilonia hanno conosciuto questo delirio; hanno esercitato sul gregge umano l’onnipotenza quasi divina degli Stati moderni, tutti sorti in nome della libertà. Ma perciò i popoli non vogliono più obbedire a nessuno, e gli Stati giacciono tutti fulminati, rovinati, inermi, esautorati, senza finanze e senza esercito, i vincitori ridotti a dar quotidiano spettacolo della loro impotenza in faccia ai vinti, ai quali non resta nemmeno più la parvenza della forza. La Germania inerme o quasi disarmata incute più terrore che mai ai suoi nemici. Sui pianori dell’Asia Minore sono cominciate le resistenze passive, ben più difficili a vincere che i milioni di baionette e le migliaia di cannoni mostruosi della guerra mondiale. La forza si è suicidata! Noi non mediteremo mai abbastanza su questa verità semplice, luminosa e profonda, che è la chiave del presente e dell’avvenire. C’è un limite, oltre il quale la forza si annienta. La civiltà occidentale l’ha spensieratamente oltrepassato; e colpita fulmineamente da un’improvvisa incurabile debolezza, è stramazzata ansante. Noi abbiamo ancora milioni di soldati e milioni di baionette; ma non possiamo più servircene che per distruggere noi stessi. Le armi ormai non feriscono più che chi le fabbrica e le maneggia. La guerra e la rivoluzione — le due figlie gemelle della forza — sono ormai egualmente impotenti. Potranno impaurire, devastare, insanguinare ancora il mondo; inferociranno forse ancora spietatamente; ma non debelleranno più la debolezza inerme. A questa spetta ormai il dominio del mondo, sulle rovine della forza, esautorata dal suo stesso eccesso. Di nuovo il mondo si è capovolto. I deboli vinceranno i forti. Ma saranno i tempi capaci di intendere queste parole di verità? II. L’eterno passato Carichi di sapienza arcana, noi non sappiamo più quello che sanno i fanciulli: che il fuoco brucia, arde, consuma, incenerisce; che l’emorragia dissangua; che la distruzione vince sempre la creazione alla corsa. Il mondo non può credere ancora ai suoi occhi. Quella, proprio quella è la Russia, che dieci anni fa abbagliava l’Europa con la corona di Giustiniano e il mantello di Teodora? Quella che, coperta di piaghe, affamata, a brandelli, insozzata di fango e di sterco, tende la mano al passante sulle vie del mondo? L’antica regina dell’Oriente e dell’Occidente? Il nostro stupore non vuol arrendersi alla realtà. I re diventano mendicanti e i mendicanti re solo nelle favole dei poeti e sulle scene del teatro. Che questa regina sia stata deposta e condannata a marcire per lungo tempo nella miseria e nella sozzura, non ci pare possibile. Eppure, tra i dettami del buon senso e gli insegnamenti della pratica, c’è anche questo: il distruggere essere più facile e pronto che il creare. Occorrono all’uomo diciotto o venti anni per imparare a sussistere da sè. Un secondo basta ad ucciderlo. Il fuoco, acceso dalle nostre mani, è capace di divorare in una notte l’opera di molti secoli. L’ascia, che noi abbiamo arrotata sulla mola, orba in un giorno del loro pupillo prediletto — l’albero — gli innumerevoli anni, che lo tirarono su a poco a poco dal seno della terra. Se applicassimo questo dettame del buon senso alla Russia, non misureremmo con una occhiata sola la voragine del così detto «problema russo», spalancatasi nell’Europa orientale? Quattro anni di guerra e quattro anni di rivoluzione hanno divorato l’opera di parecchie generazioni. Molte generazioni saranno necessarie per rifarla. Il resto è illusione. Ma noi non ragioniamo così. Tra noi e questa verità elementare si interpone il ricordo di una favolosa avventura. Più di un secolo fa, un popolo volle rifare l’«edificio dei tempi»: l’ordine sociale. Per rifarlo, rovesciò la colonna maestra dell’edificio: l’autorità del Re. L’edificio rovinò addosso al demolitore; e sembrò seppellirlo per sempre, sotto le macerie. Quand’ecco, a un tratto, il popolo, scosse di dosso queste macerie, e sbucò fuori non solo illeso, ma con una forza così indiavolata, che in un baleno rifece l’edificio dei tempi, e conquistò mezza Europa, infondendole la propria energia. Dopo venti anni di guerra si trovarono tutti, vinti e vincitori, più forti che prima di impugnare le armi. Per la prima volta una civiltà fu rinsanguata e ritemprata da una emorragia torrenziale. Una guerra implacabile di venti anni fu il vestibolo del più operoso e del più fortunato tra i secoli della storia. Non c’è, da quattro generazioni, precetto umano o divino, dottrina sacra o profana, ammonimento dell’esperienza o dettame del buon senso, il quale abbia forza di resistere al ricordo di questa favolosa avventura, nella civiltà occidentale. Da quattro generazioni, la Rivoluzione e la Guerra sono due divinità, a cui la civiltà occidentale offre i suoi sacrifici in segreto, quando non osa pubblicamente. La poesia le ha inghirlandate; la scultura le ha onorate con il marmo e con il bronzo; la filosofia e la storia le hanno inchinate, adulate, sfruttate. Due antiche dinastie — gli Hohenzollern e i Savoia — le hanno prese tutte e due — non la Guerra soltanto, ma anche la Rivoluzione — al loro servizio, insieme con la Religione e la Scienza. E i popoli in travaglio, le classi e gli uomini maltrattati dalla fortuna, le dottrine in lotta con il presente le hanno invocate e attese come la vendetta e il riscatto. Ricordate la spensierata baldanza della Russia, quando le fiamme della rivoluzione incominciarono a lambirla e l’investirono? Essa rideva e danzava. Era così sicura — e il mondo con essa — che il fuoco l’avrebbe ringiovanita! L’antico regime era così guasto, corrotto, iniquo! E quando di nuovo, spezzata la colonna maestra, l’edificio dei tempi cascò addosso al demolitore, nessuno si spaventò. Come cento anni fa, il popolo sarebbe sbucato anche questa volta di sotto alle rovine più forte. Al dettame del buon senso, che il distruggere è facile, il creare difficile, nessuno pensò. E nessuno se ne ricorda neppur ora. Il mondo aspetta sempre, dopo cinque anni, sperando o temendo, le grandi sorprese della nuova rivoluzione. Che anche una rivoluzione possa spegnersi oscuramente e lentamente in una lunga miseria, non viene in mente a nessuno. Che giorno sarebbe quello in cui il mondo si persuadesse che la rivoluzione russa porta in grembo una sorpresa sola, la sorpresa che il semplice buon senso poteva prevedere sin dal principio: l’obbligo di rifare in molti anni quanto fu distrutto in poche settimane! Da quel giorno la civiltà occidentale rientrerebbe, camminando verso l’avvenire, in quello che si potrebbe forse chiamare «l’eterno passato»; nel destino comune di tutte le generazioni. Nessuno lo conosce più, questo «eterno passato»; perfino la storia l’ha dimenticato, per lo zelo di servire la Guerra e la Rivoluzione; e perciò tutti aspettano di rivedere ancora una volta il miracolo del fuoco che rigenera, dell’emorragia che rinsangua, della creazione che vince la distruzione alla corsa. Sì! più di cent’anni fa l’Europa uscì ringiovanita dal fuoco. Ma quando, di nuovo, tante benigne influenze pioveranno dalle stelle sopra il capo di un’epoca, come allora? Quanti secoli dovranno correre, prima che di nuovo tante circostanze favorevoli si incontrino nella breve ora di poche generazioni e si fondano in una unica spinta? Paragoniamo la rivoluzione francese a quella russa: che distacco nei tempi! La rivoluzione francese nasce in grembo alla pace e ad una tradizione di disciplina antica di secoli; è fatta da una generazione che aveva imparato a ragionare e ad obbedire. La rivoluzione russa scoppia in grembo alla guerra e ad una anarchia spirituale già vecchia, in tutta l’Europa, di un secolo; è fatta da una generazione ormai avvezza a non obbedire più che per forza e a ragionare con la logica della passione e dell’interesse. La rivoluzione francese distrugge lo Stato; ma libera l’industria, l’agricoltura, il commercio dalle catene degli antichi privilegi e monopolî: parziale compenso ai danni dell’anarchia. La rivoluzione russa distrugge lo Stato; e incatena, imbavaglia, soffoca l’industria, l’agricoltura, il commercio. La rivoluzione francese arma le masse, incomincia le guerre dei popoli, invade l’Europa, distrugge le antiche istituzioni e si salva con la guerra dal fallimento. L’oro e l’argento, che la pietà dei fedeli aveva deposti nelle chiese e nei conventi dell’Europa cattolica, i tesori grandi e piccoli, pubblici e privati, dei paesi conquistati risarciscono le sue distruzioni. Per guarire la piaga degli assegnati prima che incancrenisca, la rivoluzione trova un rimedio: i tesori degli uomini e di Dio. La rivoluzione russa — fortunatamente! — è ridotta a difendersi con gli avanzi dell’esercito imperiale. Nell’arte della guerra ha mutato solo il colore delle insegne. Ma anche avesse la forza di saccheggiare l’Europa, potrebbe curare la piaga degli assegnati con l’oro delle conquiste? I tempi sono mutati. Oggi i metalli preziosi si nascondono sotto terra come serpenti. Gli eserciti rossi non sarebbero ancora giunti alla prima tappa e già tutto l’oro e l’argento dell’Occidente si sarebbe messo in salvo. Non c’è speranza: la cancrena degli assegnati divorerà la rivoluzione. Vera scossa tellurica, la rivoluzione francese sprigionò il fuoco interno, che da secoli ardeva, invisibile, sotto la crosta solidificata dell’Europa. Da due secoli l’uomo aveva accumulato un tesoro di cognizioni e di scoperte che, animato da una ambizione conquistatrice, poteva far di lui un semidio. Al di là dell’Oceano l’America, immensa, ricca di climi, feconda di biade e di messi, rigurgitante di metalli e di combustibili, aspettava. Quando, alla fine, dalle mistiche nozze del Fuoco con l’Imaginazione nacque la macchina a vapore, incominciò la parte più gloriosa della favolosa sventura: la conquista della terra e dei suoi tesori. I cento anni, che corsero dalla battaglia di Waterloo alla battaglia della Marna furono l’epoca più fortunata della storia universale. Nessun secolo godè i privilegi, che un destino misterioso ha accumulato sul capo di questo figlio prediletto della rivoluzione. Esso potè sognare l’anarchia, adorare la Rivoluzione, giocare a distruggere e a rifare il mondo sulla carta, godendo dell’ordine più solido e perfetto che fosse mai stato stabilito sulla terra. Potè adorare la guerra, inventare e fabbricare più armi che da Caino in poi, in grembo alla pace più feconda che abbia mai allietato il genere umano. Chi può sperare fortune simili a questa, dalla nuova rivoluzione che, guardando torva verso l’Occidente, si ritira nelle steppe? Non illudiamoci sulla fragilità della fortuna, che ha favorito quel secolo felice tra tutti. Noi stiamo per rientrare «nell’eterno passato», sotto l’impero di quelle semplici verità del buon senso, che la fortuna aveva sospese a beneficio di poche generazioni. Guerre e rivoluzioni ricorrono ogni tanto; fanno parte anch’esse, come la pace e l’ordine, del nostro destino. Ma son prove lunghe e terribili, che consumano alcune generazioni a beneficio di altre. Guai a quelle, cui tocca! Solo ogni tanto, per misteriose ragioni, la prova si muta in una avventura trionfale e in una specie di eroico baccanale. L’errore universale dei nostri tempi è proprio questo. Noi ragioniamo oggi, ricordando troppo l’eroico baccanale di guerre e di rivoluzioni di un secolo fa. Perciò i fatti voltano le spalle tutti i giorni alle nostre previsioni e speranze. Perciò ci domandiamo sgomenti se l’universo si è capovolto, se l’asse della terra si è spostato, se la ragione stessa è entrata in delirio. No, l’universo non si è capovolto, e l’asse della terra non si è spostato. Questo caos universale degli imperi e delle idee, dei popoli e delle dottrine, è una grande semplificazione. La mano misteriosa, che muove le cose del mondo, ha scritto in quello, con caratteri giganteschi, sulla faccia degli oceani e dei continenti, alcune semplici verità, che avevamo dimenticate. Questa, per esempio: che il fuoco brucia, incenerisce, distrugge, devasta, non rigenera o crea. A ragione noi cerchiamo il filo che lega la rivoluzione francese e la rivoluzione russa. L’una nasce dall’altra; ma non è la ripetizione di ciò che non poteva e non potrà mai ripetersi. Tutte e due sono invece il principio e la fine. La rivoluzione francese è la porta fiammeggiante per cui la civiltà occidentale si slancia impetuosa, giovane, spensierata nella favolosa avventura della conquista della terra. Con la rivoluzione russa, essa inciampa e cade per la prima volta a mezzo del suo cammino, stanca, ansante, invecchiata. Si rialzerà di nuovo, curerà le ginocchia ferite, ripiglierà il cammino: ma quando capirà di nuovo il senso profondo di quella umile preghiera, che per tanti secoli la Chiesa insegnò ai popoli: _A peste a fame a bello_ _libera nos, Domine?_ Anche questa è una parola di verità, alla quale il mondo è sordo. III. Il culto del fuoco Noi siamo ritornati al culto del vecchio Agni; e in lui solo crediamo. Ricordate le speranze, di cui si infiorarono l’Europa e l’America tanti anni fa, quando la rivoluzione scoppiò in Turchia ed in Cina? L’aurora della libertà e della democrazia albeggiava dunque anche sull’Asia, antica madre del dispotismo! Ma l’illusione durò poco. Se gli antichi regimi giacevano a terra, morti, il mondo vide presto i nuovi rotolarsi nella polvere, come epilettici, nelle convulsioni dei colpi di stato, dei pronunciamenti, delle dittature e delle guerre civili. Ricordate le promesse anche più abbaglianti del 1918? Ad un tratto, sul cadere di quell’anno, il grande sogno del 1848 parve realtà: la Polonia risorta, la repubblica a Mosca, a Berlino, a Vienna; le corone nel rigagnolo; i re in esilio; i popoli chiamati a governarsi da sè. Ma anche questa volta l’illusione fu breve. In Russia e in Ungheria la rivoluzione subito inciampò e cadde dopo i primi passi. In pochi mesi il suffragio universale fu spossessato da dittature militari, il cui solo titolo a governare era la forza: di tutti i titoli del comando, il più incerto, mutevole e debole. Negli altri Stati, che sono sorti sulle rovine degli Absburgo e degli Hohenzollern, la volontà del popolo, espressa dal suffragio universale, governa ancora. Ma chiamata da un giorno all’altro a cingere la corona, è fiacca, incerta, vacillante; non comanda, balbetta; a stento riconosce di volta in volta se stessa. Ed è in guerra con se medesima, in tutti i nuovi stati; qui per antichi odî di parte, là per inveterate rivalità di classi o di interessi; altrove per discordie religiose, per diversità di lingua o di razza. Tutto è incerto in questi governi; il titolo dell’autorità, la forza di cui dispongono, la vera volontà che li muove. I loro discorsi sibillini, i loro atti equivoci, non lasciano capire agli altri ciò che forse è oscuro a essi stessi. Non si sa bene nè donde vengono, nè dove vanno, nè quanto dureranno, nè quel che vogliono, nè quel che possono fare, nè quali impegni prendere, nè in che misura mantenerli. La loro natura è l’incertezza. Due volte il mondo fu illuso e deluso? Perchè? La verità è questa: che i governi sono le ossa delle nazioni; e che il mondo intero è affetto da rammollimento delle ossa. L’enorme scossa dell’Europa si è sentita, sotto, sotto, anche in Asia. Anche là gli edifici più antichi si screpolano e scricchiolano. Gli uomini di Stato inglesi avevano fatto un bel sogno: impadronirsi dell’Asia dopo la caduta della Russia, con la penna ed il gesto. Errore! La Russia la trascina con sè nella polvere. In Turchia, in Persia, in India, l’Inghilterra aveva appoggi, amici, partiti che ne desideravano l’aiuto e la protezione, sinchè il colosso russo era, nel lontano settentrione, il terrore dell’Asia. Ma ora che il male maggiore è sparito, l’Asia non vuole neppure il minore. L’Inghilterra ha dovuto restituire all’Afghanistan la sua indipendenza e libertà, pericola in India, non ha potuto mantenersi in Persia, non si reggerà a lungo nè in Mesopotamia, nè a Costantinopoli, proprio perchè non c’è più la sua potente rivale a disputarle la preda. La dominazione europea vacilla in Asia come in Egitto. I popoli orientali non possono più reggersi con le antiche istituzioni paesane, nè far proprie le istituzioni dell’Occidente. L’Asia è insonne per questa doppia impossibilità; e rovescierà la dominazione dell’Europa, per cascare anch’essa in una lunga anarchia. Le nazioni, che hanno ancora ossa dure e salde, sono poche. E anche queste per quanto tempo? «Chi ha il diritto di comandare e in quali limiti? Chi ha il dovere di obbedire e sino a qual punto?» Ecco l’eterno e tormentoso quesito, che non dà pace agli uomini. Gli uomini non possono vivere felici, se non sono persuasi di averlo sciolto alla perfezione: onde tutti i secoli e tutti i popoli si illudono, via via, di aver trovato la risposta perfetta, ma per un istante solo! Chè presto o tardi tutti i governi, anche i più ammirati, vengono in odio, sia che i governi con il tempo si guastino, sia che si guastino gli uomini. E allora l’eterna questione si ripresenta, ora qua ora là, sulla faccia del globo. Senonchè oggi l’universo intero sembra malcontento di tutti i principî di autorità, che il genere umano ha sinora inchinati, in Oriente e in Occidente, nell’antichità e nel presente. Nessuno lo appaga interamente; nessuno gli pare giusto, verace, schietto, scevro di insidie nascoste; di nessuno si fida e a nessuno si affida. Perciò odia il presente e dispera dell’avvenire. Chi lamenta che il mondo si sfascia, non delira. Le sue ossa sono frolle. Viviamo in tempi di disordine universale. Eppure, eppure. Eppure ogni mattina, l’antico servitore, nostro prepotente Signore e Dio, il Fuoco, si risveglia e risveglia il mondo. Le caldaie si accendono, le ruote e le cinghie ricominciano a girare, allacciate. Il contadino ritorna al campo, l’operaio all’officina, il mercante alla bottega, l’impiegato all’ufficio, il banchiere e l’avvocato allo studio. Non tutti ci ritornano volentieri; ma tutti ci ritornano, sia pur brontolando. Tutti i giorni, in Europa e in America, la grande macchina, che il Fuoco anima, si rimette a girare, mantenendo nel mondo un certo ordine, in luogo delle antiche autorità, o indebolite o cadute. Il Fuoco è il nostro tiranno, perchè ci sforza a produrre e a consumare, anche quando siamo stanchi e sazî; ma in compenso ci condanna a un lavoro, che non è più, come il lavoro degli antichi, solitario. Appunto perchè è gregario, il lavoro moderno lega le città alle campagne e i cittadini allo Stato; incatena l’uno all’altro gli uomini, le classi, le regioni, i popoli, i continenti. Finchè questa catena non si spezzi o non si sciolga, un certo ordine regnerà nel mondo, anche orbo di leggi. Il Fuoco è oggi il guardiano dell’ordine, il vicario dei Re e di Dio, che esso ha deposti. Se le ossa dei popoli e delle nazioni rammolliscono, il lavoro è una specie di busto o di armatura che sorregge, invece delle ossa tramutate in poltiglia, i popoli e le nazioni. È vero che il mondo si sfascia, ma è vero anche che ci regna ancora un ordine quasi miracoloso, se si pon mente che nessuno lo governa più: nè Dio nè lo Stato; nè la Legge nè la Spada. Ha dunque il mondo trovato un principio di ordine nuovo, nel Fuoco? Il Fuoco non è più soltanto il padre delle arti, ma il legislatore dell’Universo senza gendarmi e senza demonî? Molti lo sperano e lo pensano. Il mondo moderno non è nè cristiano nè ateo; è ritornato senza accorgersene alla idolatria; adora ancora un Dio con fervore, e quello solo: il Fuoco, il vecchio Agni risorto dopo tanti secoli. Lo adora con tanto fervore, che confida in lui, perchè lo salvi anche dalla propria follìa. Ed i fatti sembrano dargli ragione. Paragonate la Russia e la Germania. In poche settimane i russi avevano rovesciate le colonne della società: la Monarchia, la Chiesa, la Burocrazia, l’Esercito. La dinastia deposta, l’amministrazione decapitata, la religione esautorata, l’esercito sciolto, rimaneva intatto tra tante rovine il tempio del Fuoco, la grande macchina della produzione, la proprietà sola e nuda, non più difesa dal prestigio della Corona, dall’autorità della religione, dalla forza dello Stato. «Distruggete anche quella: abbiamo fatta la rivoluzione sopratutto per distruggere la proprietà», gridarono milioni di miserabili. Incominciò allora il tragico dubbio della rivoluzione russa. Le moltitudini non sentivano ragioni, volevano i beni dei ricchi; ma la rivoluzione, dopo aver deposto Dio e lo Czar, esitava, esitava, esitava, sacrilegamente savia, a devastare anche il tempio del Fuoco: le officine, le fattorie, le banche. Esitò per otto mesi, dal Marzo al Novembre, non osando dire che la proprietà era più sacra della croce e dello scettro; ma riserbandole quel po’ di rispetto che ancora sopravviveva. Sinchè la Follìa arrivò, armata di clava. Aveva letto in un libro tedesco, che se tutto il mondo è fatto male, la macchina della produzione è la sua parte più difettosa, che crea e distribuisce la ricchezza nel dolore e nell’ingiustizia, che per rifare il mondo bisogna rifarsi da quella. E poichè la trovava sola, e senza difesa, con pochi colpi la spezzò. Il castigo fu pronto. Gli uni non potendo e gli altri non dovendo più neppur lavorare, non sopravvivendo alcun principio di ordine e di coesione, neppure il lavoro, tutto si sciolse. Invano i demolitori tentarono di improvvisare una rozza dittatura militare con gli avanzi dell’esercito e della polizia dell’antico regime. Tre anni accumularono nell’impero russo tante rovine, a cui in altri tempi non avrebbero bastato tre secoli: città abbandonate, vie distrutte, terre devastate, arti e industrie spente, peste, fame, guerra! La Germania invece... Il popolo, che dieci anni fa era retto dal governo più forte per autorità e per armi, non ha oggi, e quel che è più terribile, non può più avere — governo di sorta. Odia l’antico regime, perchè ha distrutto la sua fortuna e una civiltà; non ama il nuovo, perchè è un ripiego della disperazione imposto dalla forza delle cose al suo orgoglio. Improvvisata, figlia della sventura, nuda di autorità e di prestigio, retta da uomini oscuri, servita a malincuore da una burocrazia ligia al passato, la repubblica tedesca è l’organo di una gigantesca dilapidazione della fortuna pubblica. Non uno Stato, ma la sua negazione. Il vecchio Dio dei tedeschi s’è ritirato, dopo l’armistizio, in fondo al cielo, come i loro re nei castelli aviti. Ma che importa? Il Fuoco impera in Germania, più potente che gli antichi re, principi e duchi: e da solo mantiene l’ordine e la prosperità. Disarmata, mutilata, isolata, la Germania si è tutta immedesimata, anima e corpo, con la sua gigantesca macchina di produzione: ammirazione e invidia del mondo. Si è rimessa all’opera quasi con raddoppiato furore. Sole ormai nel mondo le sue navi non marciscono neghittose nei porti; sole, le sue officine lavorano a pieni fuochi; soli, i suoi operai protraggono la fatica oltre il terzo del giorno, e, fatto il ragguaglio della moneta, per una mercede più piccola, che quella che chiedevano prima della guerra. Pare che un nuovo destino stia per rivelarsi all’uomo in Germania: governarsi senza governo. Ma è l’ultima delle illusioni che il secolo XIX ha seminate con tanta prodigalità! Diffidate, diffidate, diffidate di questa illusione, se non volete aggiungere nuove rovine alle antiche. La Russia si è suicidata distruggendo dopo lo Stato anche la macchina della produzione; la Germania si suicida, più lentamente, quando abbandona lo Stato alla rovina, pur di lavorare senza riposo. Il Fuoco è un Dio potentissimo; ma non può governare il mondo. Una nazione non può reggersi a lungo per il sostegno di un busto; ossa sane, dure ed elastiche insieme, ci vogliono. Il mondo ha bisogno di autorità in cui creda, di governi che la governino. Ne hanno bisogno i popoli mussulmani come i cristiani, la razza bianca come la razza gialla, l’Europa come l’America. L’armatura degli interessi economici regge ancora alla meglio la civiltà occidentale; ma stolto chi crede possa reggerla a lungo e da sola! Tutti vogliono oggi farsi alchimisti, costruire macchine, incanalare e maneggiare il fulmine. I tempi ci insegneranno tra poco che il compito delle nuove generazioni non è preparare nuove ricchezze per le future dilapidazioni, ma rispondere di nuovo all’eterno quesito: «Chi ha il diritto di comandare? Chi ha il dovere di obbedire?» Compito più difficile che il crear ricchezze. Ma quando lo riconosceremo, e ci accingeremo ad assolverlo, non con balorde improvvisazioni, ma seguendo gli insegnamenti dei savî? IV. Il supremo fiore della Storia Noi abbiamo contraffatto, svisato, falsificato anche il Comunismo: supremo fiore della storia! Bussa a denari, e forte, il nuovo Comunismo![15] Per una rivoluzione, che pochi anni fa gridava ai quattro venti di volere rifare il mondo _ab imis_; che per un pezzo si è vantata di aver ricominciato la storia, abolendo la moneta, non c’è male. In quattro anni i riedificatori del mondo non solo hanno tentato di rifare alla meglio la polizia, l’esercito e l’amministrazione degli Czar, ma ora ritornano addirittura, seguendo le traccie dell’impero moscovita, a bussare alle porte ben note, anche se qualche volta un po’ sorde, delle banche dell’Occidente. Chi se ne meraviglia? Gli ingenui o gli ignoranti, forse. Con la rivoluzione, s’è sprofondato in Russia un ordine antico di cose; non sono esplose forze nuove, capaci di creare un ordine diverso e migliore. E non sono esplose, perchè non c’erano e non ci sono, queste forze nuove, nè in Russia nè altrove; perchè sotto le dottrine che sembrano più rivoluzionarie, anche sotto il socialismo e il comunismo, si nascondono oggi le stesse passioni, che muovono e animano i tempi presenti e il regime borghese: ricchezza e potere. Il comunismo, per esempio: terrore dei borghesi e speranza dei proletari! Siete voi proprio persuasi che il comunismo sia contrario alla natura umana, come ripetono tutte le cattedre ufficiali? Come si spiegherebbe allora che la storia sia piena di istituzioni comuniste, alcune delle quali antiche come la civiltà? La famiglia è una istituzione comunista. Istituzioni comuniste sono i più antichi, gloriosi e meravigliosi ordini monastici. No, non si può dire che in sè e per sè il comunismo sia contrario alla natura umana. Vero è invece che le è conforme, ma solo _nella misura in cui la natura umana è capace di spirito di sacrificio e di rinuncia_. Non c’è comunismo, se non là dove i singoli rinunciano ad una parte dei beni — proprietà e libertà — che potrebbero godere da soli, per un fine ideale; se non quando una forte passione — l’amore paterno o il fervore religioso, per esempio — rintuzza e deprime l’egoismo, avido di godimenti. Inteso così, il comunismo è uno dei fiori più belli della storia — ed uno dei più rari. Senonchè il comunismo, che parla dalla Russia ai popoli come un maestro, e li incita ad applicare le sue dottrine, non chiede alle masse rinuncie e sacrifici in vista di un bene ideale; ma promette loro quegli stessi beni che prometteva il capitalismo — ricchezza, agi, piaceri, potenza — e in misura maggiore, e con minor sacrificio; offrendosi alle moltitudini come il continuatore del capitalismo, che compirà la stessa opera ma molto meglio. Esso promette agli uomini un’abbondanza anche più facile che la passata; ossia quello che, per la sua stessa natura, non può dare. Il comunismo può assicurare agli uomini le gioie spirituali di una convivenza allietata da alte speranze comuni, non le orgie dell’abbondanza. A queste provvede il «capitalismo». Alla società moderna si possono rinfacciare mille difetti, appunto perchè essa ha tutto sacrificato alla quantità, anche la virtù e la bellezza. Ma non si può negare che abbia almeno scoperto il segreto dell’abbondanza, moltiplicando le ricchezze del mondo. Supporre che un «sistema comunista» possa vincerla in questa lizza è un sogno. «_Io rido, quanto sento i socialisti dire che vogliono rovesciare la potenza del capitale con le dottrine di Carlo Marx! Essi che gridano primo dovere del popolo moltiplicare i suoi guadagni e i suoi bisogni! L’impero del capitale rovinerà il giorno in cui il popolo prenderà in orrore i lussi e gli sprechi e i piaceri e i vizi, che le classi alte gli inoculano, per rinfacciarglieli poi, dopo che hanno battuto moneta con quelli_». Così scrivevo più di dieci anni fa, prima del cataclisma. In questo passo sta la chiave di molti presenti misteri. Sinchè il popolo aspirerà a calzarsi di seta, a mangiar polli, ad andare ai bagni come alla perfezione e alla felicità, il «capitalismo» sarà il padrone del mondo. Socialismo e comunismo dovranno servirlo, anche immaginandosi di combatterlo. Il vero difetto del capitalismo sta nel crear _troppa_ ricchezza. Non è dunque meraviglia che i bolscevichi siano oggi costretti a fare la corte ai banchieri d’Occidente. I bolscevichi hanno potuto distruggere, in Russia, il corpo della «società borghese», non lo spirito. Questo vive anche in essi. Essi vogliono ciò che volevano i loro predecessori: una Russia quanto più è possibile ricca e potente. Per rifare rapidamente la ricchezza e la potenza della Russia è necessario del «capitale». Per trovare del capitale è forza rivolgersi al «capitalismo», anche dopo averlo maledetto. Anche questa è una catena; e per spezzarla una rivoluzione politica non basta. Occorrerebbe la sapienza di Socrate e di Aristotile, la saggezza di Augusto e di Talleyrand, la poesia di Virgilio e di Dante, l’insegnamento del Vangelo, un po’ dello spirito di San Francesco d’Assisi e di San Francesco Saverio, qualche brandello dell’Ecclesiaste, l’essenza depurata delle dottrine di Comte, di Mazzini, di Lamennais. Troppe cose, perchè ci possiamo pensare! Sordi alla voce del vero comunismo, ascolteremo noi il falso? V. Nè Cristo, nè Anticristo Abbiamo esautorato lo spirito e la materia. Non obbediamo più nè a Cristo nè all’Anticristo. Molte leggende la passione politica ha accreditate intorno agli atti ed ai disegni della Santa Sede e di Benedetto XV durante la guerra mondiale. Si è perfino denunciato il Vaticano come un ufficio di propaganda tedesca! Vero è invece che la Santa Sede fu alacre e zelante nell’addolcire le crudeltà e nel lenire i dolori della ferocissima lotta, quanto timida ed esitante nell’affrontare gli interessi, le passioni e le dottrine, che hanno scatenato il flagello. La Chiesa fu tra i combattenti ministra della Carità più che Cattedra della Giustizia! La paura della Russia, che ambiva immensi territori cattolici in Europa e in Asia, soffocò nel papato, per tre anni, l’orrore della violenza germanica. «La vittoria della Russia sarebbe stata una rovina per la Chiesa non minore della Riforma» — disse a me, nella primavera del 1918, uno dei più alti prelati della Curia. Se per le potenze occidentali lo czar era il sovrano di un immenso impero, un amico e alleato potentissimo, per Roma era il capo di una Chiesa scismatica, che avrebbe tentato di sradicare il cattolicismo dagli Stati, in cui fosse entrato. Curiosa coincidenza: la alleanza della Russia costò alla Francia e all’Inghilterra non soltanto le simpatie dei partiti più rivoluzionari, ma anche quelle della Chiesa cattolica! Caduto l’impero russo e dileguate queste paure, le simpatie per la Francia, per l’Italia e per l’Inghilterra presero forza anche in Vaticano; ma non al punto da scuotere la persuasione, che gli imperi centrali avrebbero vinto la guerra. Questa persuasione — molto diffusa in tutti i paesi neutrali ed anche in quelli dell’Intesa, tra le persone che non erano obbligate a credere alla vittoria per dovere d’ufficio — spiega forse molti atti e atteggiamenti della Santa Sede, a cui si sono cercati fini più reconditi. Molti, anche nel governo della Chiesa, consideravano la vittoria della Germania e dell’Austria una calamità: ma siccome la ritenevano sicura, pensavano che la Chiesa dovesse, con una neutralità prudente, prepararsi a intervenire come moderatrice presso il troppo feroce vincitore. La forza e il furore degli Stati combattenti intimidirono anche la più antica potenza spirituale della civiltà occidentale. Indebolita dai colpi che il secolo XIX le ha inflitti e da quella specie di irrigidimento ombroso con cui cerca di difendersi contro lo spirito avverso dei tempi; armata solamente di libri e di pergamene, di carta e di penna, la Chiesa non ha osato affrontare il furore di ambizioni, di cupidigie, di odî, di orgogli scatenato dalla guerra sul mondo; le coalizioni di interessi, che hanno armato per quattro anni l’Europa contro se stessa. Ha cercato, quanto poteva, di soccorrere le vittime di questo furore, ma senza correre il pericolo di esasperarlo, cercando di frenarlo senza forze adeguate. Che questa politica non fosse animata da uno spirito eroico, è manifesto. Ma è pure manifesto che riesce oggi più facile ad un critico e ad uno storico vantare a tavolino l’audacia del grande eroismo cristiano, che non fosse al papa di praticarlo tra il 1914 e il 1918. Lasciamo dunque all’avvenire giudicare se Benedetto XV sia stato o non sia stato troppo cauto. L’osservatore contemporaneo deve piuttosto cercare che cosa indichi e di che cosa sia segno questa prudenza. Dell’indebolirsi e declinare dell’autorità spirituale della Chiesa? Molti lo pensano e l’hanno ripetuto, in questi anni. Il coraggio è il compagno della forza. Un potere che si lascia disarmare, confessa la propria debolezza. E fino a questo punto chi ragiona così ragiona bene. Se la Chiesa si fosse sentita più forte, avrebbe levato maggiormente la voce in difesa dei deboli, che tante volte l’hanno chiamata in aiuto, durante la guerra, come ministra di Carità e di Giustizia. Ma l’illusione comincia, quando si spera, come tanti hanno sperato durante la guerra, che su questo indebolimento della potenza spirituale più antica debbano grandeggiare le nuove potenze spirituali e temporali, che oggi reggono il mondo: lo Stato, la scienza, i grandi organi dell’opinione, i maggiori imperi che si spartiscono il globo, il capitale e i potenti strumenti che esso muove, le masse organizzate e la loro volontà. Purtroppo, Berlino e Parigi, la guerra e il Congresso della pace, dimostrano che le potenze nuove non sono meno inferme delle antiche, anche se la malattia di cui soffrono è diversa. Finchè l’impegno fu di distruggersi a vicenda, le potenze spirituali e temporali del secolo hanno fatto meraviglie: quando invece si sono accinte a rifare quello che avevano distrutto, sono state forse meno modeste e caute della Chiesa, ma non più capaci. Se la Chiesa ha potuto far poco, con le sue pergamene e con i suoi libri, per ridare al mondo la pace, gli Stati non furono più fortunati, con i mezzi immensi di cui disponevano. Gli imperi centrali erano più forti per armi e sapevano fare meglio la guerra. Questa è la ragione per cui la loro vittoria sembrò a tanti sicura sino all’ultimo. Ma questa fu invece la ragione della loro sconfitta. A che cosa ha servito la smisurata forza di cui disponevano, se non a distruggere se medesimi, dopo avere dissanguato i nemici? La Germania non è forse soggiaciuta ad una specie di congestione della propria forza? Oggi i vincitori sono i più forti, per armi, per ricchezza e per saldezza interiore; ma a che serve loro questa forza se invano cercano di mettere pace e ordine nel mondo? Nè le ricchezze dell’America, nè l’armata dell’Inghilterra, nè l’esercito della Francia, nè la scienza degli esperti, nè la sottigliezza dei diplomatici, nè la volontà dei popoli, nè le vociferazioni dei giornali, nè l’oro e i consigli dei banchieri, nè le sedute dei Parlamenti, nè la potenza gregaria e l’infatuazione dottrinale del socialismo hanno potuto, finora, far più che le encicliche di Benedetto XV. La parola sembra avere perduto la sua antica potenza sulle menti degli uomini; ma dalla stessa impotenza sono colpite le armi, la ricchezza, la scienza e tutte le altre forze, a cui i moderni facevano più largo credito che alla parola. Questa universale impotenza è il vero terrore dei nostri tempi. È vero: Benedetto XV, non ostante il suo zelo cristiano e l’immensa autorità di cui era investito, è riuscito soltanto a lenire alcune tra le più atroci sofferenze della guerra. Ma gli altri potentati non sono stati capaci di fare nè meglio nè più per ridare al mondo la pace. Nel groviglio delle autorità spirituali e delle potenze temporali che se la contendono annullandosi, l’Europa resta abbandonata a se stessa, prostrata nell’inerzia smaniosa di un esaurimento spirituale, che sembra disperare della propria guarigione. Il pontificato di Benedetto XV, come il tormentoso smarrimento in cui si dibattono gli Stati tutti dell’Europa, vincitori o vinti, provano che nè la Chiesa nè lo Stato moderno, ciascuno da sè, sono in grado di trarre l’Europa dalla stretta in cui si è cacciata. Ma potrebbero riuscire meglio, unendo le loro forze? E se questo accordo non sia possibile, quale sarà il destino dell’una e dell’altro nell’avvenire prossimo? Quale la sorte dell’Europa? Tremendi quesiti, con cui si troveranno alle prese i successori di Benedetto XV, per molte generazioni! Che essi almeno non siano sordi, come sono sordi i tempi! VI. Il ritorno dei barbari «È vero: — si ripete spesso quando si ragiona dei nostri tempi e dell’avvenire — l’autorità si sfascia oggi in Europa, come si sfasciò nel terzo secolo. Ma oggi non ci sono più barbari capaci di approfittare della nostra anarchia!» È vero. I tempi sono mutati. Nel terzo secolo della nostra êra, civiltà e barbarie combattevano ad armi uguali. Oggi non più. La barbarie è inerme, di fronte alla civiltà. Il suo ardire e il suo impeto sono impotenti contro le nostre armi. Ma siamo noi veramente sicuri? È proprio vero che i barbari vivono tutti sotto la tenda? Barbara non è l’epoca in cui la forza e la materia dominano, non limitate e non regolate nè dalla legge, nè dalla giustizia, nè dall’amore, nè dalla socievolezza, nè dalla bellezza, nè dalla cultura? Non diciamo barbari i popoli, che al disciplinato regno della giustizia e della ragione preferiscono la violenta tirannide della passione e della forza? Ma allora quanti barbari ci sono ancora e vivono nel cuore stesso della civiltà occidentale! Se ne incontrano dappertutto: nelle accademie e nei governi, nelle università e nelle officine, fra gli eruditi e fra gli analfabeti, in mezzo al popolo e in mezzo ai grandi, tra i ricchi e tra i poveri. Anzi, ognuno di noi è quasi una doppia persona; in parte civile, in parte barbaro. Guardiamo un po’ dentro noi, e ci accorgeremo che l’uomo civile e il barbaro non guerreggiano più, come un tempo, ai confini dell’Impero Romano, ma in ogni coscienza. Noi siamo barbari, quando assumiamo la massa, il peso e il numero come misura del merito e della eccellenza. Siamo barbari, quando ammiriamo un edifizio perchè è massiccio e vistoso, una chiesa perchè luccica d’oro e di marmi, un vestito perchè costa molto, un popolo e un uomo perchè sono ricchi e potenti. Siamo barbari, quando beviamo, mangiamo e fumiamo oltre il ragionevole, con intemperanza. Siamo barbari, quando prodighiamo la ricchezza solo per far vedere che la possediamo e per abbagliare i vicini. Siamo barbari, quando ammiriamo con uguale ardore la bellezza di una donna e il diamante che luccica nei suoi capelli. Siamo barbari, quando ci lasciamo abbrutire dalla rude potenza delle macchine e dalla furia frenetica dei nostri tempi. Siamo barbari, quando ci spogliamo del più grande tesoro che Dio ci ha donato — la intelligenza — per infonderla nella materia; quando ci vantiamo di rimbecillire, per creare dei congegni di ferro ogni giorno più intelligenti. Siamo barbari, quando, inorgogliti e inferociti dalla intelligenza micidiale che abbiamo risvegliata nella materia, abdicando la nostra sovranità, aspiriamo ad essere i re dell’Universo, innanzi a cui tutte le cose della creazione devono inchinarsi. Siamo barbari, quando crediamo di poter riscattare con le invenzioni meccaniche e con le scoperte chimiche le nostre colpe, i nostri errori, la nostra cecità e le nostre follìe. Siamo barbari, quando ci illudiamo che il vapore, l’elettricità, i raggi X, il telegrafo senza fili, il radium, i crogiuoli dei chimici, le imprese del commercio, le audacie delle industrie, le meraviglie dell’agricoltura, effettueranno la seconda redenzione del genere umano, dopo il sangue di Cristo; e purificheranno il mondo dalle cattive passioni che lo infestano, inaugurando il Regno della Pace e della Saggezza. Spesso i barbari «_ab intus_» sono più pericolosi che i barbari di fuori. Quelli di fuori si avanzano allo scoperto, e si possono segnalare, contare e fermare con la forza. Ma a quale segno sicuro riconoscere i barbari dei nostri tempi? Quando neppur essi hanno sentore dell’essere proprio e gli altri sanno così poco discernerli, che spesso li ammirano come i campioni e i difensori della civiltà? Anche questo è un pericolo che ci minaccia sulle vertiginose altezze della nostra potenza. Scambiando per segni di progresso i vizi della barbarie, grossolanamente mascherati e contraffatti, la civiltà occidentale si affida troppo spesso, per salvarsi, alla distruzione e alla morte. Osservate tutte le armi di cui è così fiera: quelle natanti fortezze di acciaio, che infestano i mari; quei cannoni dalle gole profonde come un abisso; quelle mitragliatrici che irrorano la terra con una pioggia di morte minuta, incessante, invisibile; quei falchi di metallo, da cui piovono i fulmini; quei milioni di baionette che scintillano ai raggi del sole. Ci siamo affidati a questi terribili strumenti di guerra, affinchè tenessero a distanza i popoli che, a torto o a ragione, chiamiamo barbari. Al riparo di questa muraglia di ferro e di fuoco, innalzata dal nostro genio, noi viviamo sicuri, che non dovremo più fuggire innanzi a una nuova passata alluvionale di Mongoli. Ma donde è mosso l’uragano di violenza, che per cinque anni ha devastato l’Europa, se non da quegli stessi strumenti di guerra, in cui avevamo posto la nostra sicurezza e la nostra speranza? La civiltà occidentale giace prostrata e agonizza sotto la mole di quelle armi, con cui si era rivestita per difendersi. Le armi che dovevano difenderci dai barbari, si sono rivolte contro di noi. Eccoli, anzi, i veri barbari del nostro tempo: sono esse! Barbari di ferro e di acciaio, temprati nel fuoco dalle nostre braccia, e contro i quali siamo impotenti come i Romani erano impotenti contro i Germani ed i Goti. L’intelligenza letale, che abbiamo risvegliata nella materia con il nostro orgoglio e la nostra ambizione; quell’intelligenza letale che ammiravamo come il prodigio del nostro genio, quando sterminava i nostri nemici, ha ormai annientato anche noi: vinti e vincitori insieme. Questa è la grande nemica della civiltà occidentale, più implacabile delle orde barbariche che distrussero l’Impero Romano. Non potremo salvarci dai nuovi barbari con il ferro, poichè sono essi stessi il ferro; non potremo salvarci con quell’oro che Roma gettò così spesso agli invasori per fermarli quando non poteva respingerli, perchè non sono avidi, come gli antichi barbari, della nostra ricchezza, ma della nostra distruzione. Visibili o invisibili, questi barbari _ab intus_ non potranno essere vinti che da armi invisibili e immateriali: la Ragione, la Giustizia, la Saggezza. Il giorno in cui la Ragione, la Giustizia, la Saggezza riappariranno nel mondo, i barbari, che sono ritornati a devastare l’Europa, volteranno le spalle e partiranno per sempre. Ma per quanto tempo, prima di questo ritorno, il mondo volterà le spalle anche a questa parola della verità? VII. L’idropisia del denaro Noi abbiamo tolto valore alla misura di tutti i valori concreti. Una nuova malattia è apparsa nel mondo: «l’idropisia del denaro». La civiltà occidentale è gonfia di una mostruosa idropisia di oro, d’argento e di carta monetata. Vi parrà forse inverosimile, o uomini del mio tempo: eppure è così. C’è troppo denaro nel mondo; e perciò c’è troppo bisogno, tormento, insoddisfazione, vizio, perversione, odio e povertà. Troppo denaro vero — oro e argento, negli Stati Uniti d’America, e in tutti gli Stati neutrali, impinguati sulla guerra degli altri; e troppo denaro spurio — carta monetata — negli Stati che furono belligeranti. Dalle trincee, nel 1914, incominciò a fluire un Pactolo rosseggiante, nel quale si confondevano sangue e oro: il sangue di una generazione immolata al Dio della guerra, e le ricchezze di tre generazioni liquidate per acquistar ferro, bronzo, fuoco e congegni di guerra. Piccolo in principio, questo fiume d’oro e di sangue è gonfiato di anno in anno, finchè ha straripato sulla faccia della terra. Non c’è mai stato tanto denaro nel mondo — vero o spurio. In dieci anni si è raddoppiato, quintuplicato, decuplicato a seconda dei paesi. L’alluvione l’ha trasportato dappertutto, anche nelle capanne e nei tuguri. Tutti ormai lo posseggono, il denaro, che per tanti secoli non aveva voluto rifugiarsi che in pochi palazzi. Il mondo dovrebbe dunque essere felice secondo la nostra saggezza. Il denaro non è la ricchezza? La ricchezza non è la felicità? Il mondo invece è malato e soffre! Sì: mentre tutte le altre ricchezze servono l’uomo soltanto secondo la propria natura, rigida e limitata, il denaro è — o sembra — uno schiavo docile e mobile, pronto a tutti i travestimenti, solo che il suo signore comandi. Chi possiede una casa, una terra, del ferro, della lana, del grano non può servirsene che per i fini e gli uffici a cui la natura destina questi oggetti. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici deve venderli, ossia convertirli in denaro. Ne è dunque il padrone, a condizione di essere schiavo della loro destinazione. Il denaro no: fa tutto ed è tutto. Si nasconde e si ostenta; corrompe e benefica; incoraggia il genio e lo sfrutta; premia la virtù e assolda il delitto; onora Dio e incoraggia il vizio. È amico e nemico, maestro e lenone, creatore e distruttore. Insomma è angelo e demonio. Ed è pronto a servir l’uomo come egli vuole, nell’una o nell’altra di queste opposte persone. Gli uomini, che sono persuasi di essere furbi, si sono accorti da un pezzo di questa prodigiosa virtù. Perciò hanno immedesimato il denaro e la ricchezza, sebbene il denaro sia non _la_ ricchezza ma _una_ ricchezza, quando è d’oro e d’argento; e non sia neppure _una_ ricchezza, ma un segno della ricchezza spesso ipotetico e non di rado addirittura fallace, quando è di carta. Perciò sono stati così cupidi in tutti i tempi e in tutti i luoghi di denaro vero o spurio; e non si reputano felici se non quando lo posseggono, sebbene a un uomo perduto nel Sahara un pane ed un otre di acqua sarebbero più preziosi che un sacco di monete d’oro. Ma questo servo docile e sorridente è un nemico nascosto e implacabile. La storia ce lo ripete a ogni pagina: quando, per una ragione o per un’altra, una età è sorpresa da una improvvisa abbondanza di denaro, ecco crescere il prezzo delle gioie, dei vini, delle vesti preziose; ecco sorgere da ogni parte edifici di lusso e di piacere; ecco l’amore farsi prodigo e venale; il Piacere e la Voluttà aprire taverne, teatri, danze, lupanari e tutti i luoghi in cui l’uomo può comperare per denaro e al minuto la spicciola felicità dei sensi. Appunto perchè questo pericoloso servitore si offre all’uomo per servirlo a suo piacere, come un angelo o come un demonio, l’uomo è più facilmente vinto dalla curiosità di vedere come serve un demonio. Che cosa è stata la guerra mondiale? Una notte di Getsemani della civiltà occidentale o un saturnale? Al genere umano, che sudava sangue nella trincea, il denaro consigliava di consolarsi e rifarsi, dandosi all’orgia nelle città. Fortunata ancora l’America, che almeno ridonda di vero denaro — oro, argento e biglietti che si possono convertire in oro ed in argento. Il denaro vero è immune dalla moltiplicazione illimitata; perchè a scavare dalle viscere della terra dell’oro e dell’argento ci vuole tempo e fatica. Ha quindi un peso, una consistenza e un valore stabile, se non immutabile; onde gli uomini sono spinti a conservarlo. L’Europa invece è idropica di falso denaro. In America il denaro, appunto perchè è vero ed autentico, è raddoppiato soltanto. In Europa s’è moltiplicato in dieci anni, cinque, dieci, venti volte. La carta e l’inchiostro costano così poco; i torchi girano così veloci! Ma moltiplicandosi all’infinito coi giri del torchio, questo denaro perde via via consistenza, peso e quindi sicuro valore; perdendo consistenza, peso e valore si volatizza e sfugge anche alle mani, che più bramose vorrebbero stringerlo. Perchè conservare un denaro fluido, volatile, il cui valore scompare da un giorno all’altro, come il profumo di una fiala aperta? Tutti gli dànno la caccia, ma appena lo afferrano, se ne disfanno per ricominciare la caccia e per disfarsene di nuovo; il circolo non si ferma mai, anzi gira ogni dì più veloce; il denaro non sta più fermo un minuto, passa da una mano all’altra, insegnando l’ozio, la prodigalità, il lusso, la dissolutezza, la ghiottoneria a milioni di uomini, che ieri ancora vivevano semplicemente. Il denaro vero, autentico, che ha un peso certo, una forma obbligatoria, un conio indelebile, che l’uomo deve fabbricare di buon metallo con lunga fatica, può servire l’uomo come angelo o come demonio. Il denaro falso, segno menzognero di ricchezza immaginaria, stampato in materie fragili e caduche, che l’uomo moltiplica senza fatica, non può servirlo che come demonio. Molti congegni infernali ha inventato la civiltà occidentale, ebbra di morte, per suicidarsi al cospetto dei secoli. Tra questi congegni, accanto alla bomba, al siluro, alle miscele esplodenti e all’otre dei vapori letali, occorre annoverare anche l’umile pietra che stampa e il suo torchio. Essa non ha sfondato tetti, affondato navi, ma ha fatto di peggio: ha falsato una cosa sacra, una misura, la misura del lavoro umano. Poichè in mezzo a tanti servigi loschi, frivoli o brutti che esso rende all’uomo, questo è l’ufficio augusto del denaro, quello per cui partecipa un poco della natura divina e corrompendolo, corrompiamo noi stessi. Ha falsato la misura del lavoro; e falsandola, se non ha ucciso uomini, donne, fanciulli nel sonno, come la bomba e il siluro, ha ucciso e uccide nel cuore degli uomini l’amore del lavoro, la preveggenza, la parsimonia, la virtù di contentarsi; delude, tormenta, inganna tutto il genere umano con il nuovo supplizio di Tantalo, con il miraggio di una ricchezza che si allontana, appena l’uomo tende la mano per ghermirla. Inganna e inferocisce, perchè l’uomo, esasperato da questo gioco maligno, va in furia, dà in smanie, e vuol vendicarsi su qualche cosa e su qualcuno. Non ci fu mai tanto denaro nel mondo e non ce ne fu mai così poco. Tutti ne hanno maggior bisogno, e si sentono più poveri, quanto più abbondano di questo falso denaro che invilisce moltiplicandosi: Stato, città, banche, industrie, commerci, famiglie. Ci fu mai per il genere umano supplizio più atroce? C’è troppo denaro nel mondo; e perciò ce nè troppo poco. Questo falso denaro è la lebbra dei nostri tempi, la lebbra che la civiltà occidentale ha riportato a casa dalle trincee. Per quanto tempo ci tormenterà? Il fuoco soltanto può salvarci dal contagio micidiale di questa lebbra incurabile. Ritorniamo a coniare il denaro vero, che è la misura sacra e autentica del lavoro umano. Tra le espiazioni del sangue versato, a cui la civiltà occidentale dovrà sottostare, è necessaria anche una purificazione del denaro. Non l’esige l’Economia, scienza senza cuore: la vogliono la Verità, la Rettitudine, la Lealtà. Ma questa parola di verità sarà intesa dagli uomini? VIII. La vittoria acefala e l’ora di Barabba Domenico Giuliotti ha letto sull’orologio della storia che questa è «l’ora di Barabba». L’intuizione è profonda. Questa cronaca di quattro anni narra una storia sanguinante di errori caparbi. Hanno sbagliato tutti e sempre, impantanandosi nel proprio errore: i governi, le diplomazie, la Banca, gli Stati maggiori, la Scienza, gli oracoli della pubblica opinione e perfino la Retorica! Sono stati delusi nelle loro speranze i popoli, gli Stati, i partiti, cosicchè tutti maledicono oggi la pace e si accusano a vicenda. Non è contenta l’Inghilterra, che invece di conquistar tutta l’Asia e tutti gli Oceani, ha perduto e sta perdendo l’Egitto, l’India, l’Irlanda, la parte migliore della sua clientela forestiera; ed è minacciata sul mare dall’America e dal Giappone. Non è contenta la Francia, che si sente in pericolo quanto più la Germania si indebolisce; non è contenta l’Italia, non è contenta la Polonia, non è contenta la Jugoslavia... Dei vinti non parliamo. L’Europa è tutta rancori, dispetto e rabbia. La pace è il lavoro di Sisifo. Ogni stagione arriva con una nuova promessa; ma il solleone uccide insieme con le rose anche le speranze della primavera, e l’autunno volta le spalle al solleone e alle sue promesse, per rincorrere un’altra illusione e delusione. Sì, lo so: fare la pace era difficile, ma non più, e forse meno, che nel 1814. Quando Napoleone sprofondò con tutto lo scenario dipinto di quella sua spettacolosa coreografia a cui aveva dato il nome di impero, lasciò — monumento della sua sapienza — l’Italia, la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Spagna e una metà della Germania senza governo. E a quei tempi i popoli, quando si trovavano ignudi a quel modo, avevano ancora bisogno del sarto, che facesse loro il vestito, perchè non sapevano maneggiare la forbice e l’ago. La sartoria di Vienna dovette, nel 1814 e 15, tagliare e cucire molti abiti nuovi, ripulire rattoppare e rammodernare molti abiti vecchi, per tanti popoli che la rivoluzione e l’impero avevano lasciati in camicia e che aspettavano il vestito da quella famosa bottega. Ma ora i popoli sanno come si fa, quando un regime casca; sanno come in dodici ore si taglia nel panno di una rivoluzione un governo provvisorio, e in un mese o due, una costituente, una costituzione e una repubblica definitiva. Nel 1919, quando il Congresso di Parigi aprì le porte, tedeschi, polacchi, russi, ungheresi, boemi, austriaci, tutti i popoli che sul finire del 1918 avevano gettato la livrea della Corte, s’eran già tagliati da sè un casacca repubblicana. Il Congresso di Parigi doveva soltanto giudicare se la casacca era troppo ampia o troppo piccola, fare qua e là qualche ritocco al taglio, e cucire. Se gli uomini nel 1814 seppero tagliare e cucire tanti vestiti, come mai gli uomini del 1919 non sono stati capaci neppure di cucirli alla meglio? L’arte della grande sartoria è così decaduta? Eppure nel suo piccolo studio nascosto in fondo a un giardino, senz’altro oracolo da consultare che pochi volumi nei quali era scritta la storia del secolo XIX, lontano dai conciliaboli dei grandi e senza partecipare ai loro segreti consigli, uno scrittore aveva capito, e giorno per giorno aveva avvertito i popoli e i governi, che quei trattati resterebbero in molte parti lettera morta, che in troppi punti deluderebbero le speranze e befferebbero gli ingenui propositi dei compilatori. Nè lo spirito di Ezechiele era entrato in lui: l’involontario profeta vuole essere il primo ad attestarlo! Gli era bastato conoscere che cosa è un trattato, come si osservi e si imponga; gli era bastato sapere che cosa è un governo, come si regga e donde attinga la forza di comandare e il diritto di farsi obbedire; gli era bastato possedere una nozione approssimativa dei limiti oltre i quali la forza non può essere adoperata con buon successo da uno Stato con i suoi e fuori dei confini; gli era bastato conoscere un po’ la storia dell’Europa prima e dopo il 1789 e applicare con buon senso e serenità queste conoscenze ai compiti differenti dei compilatori del trattato. Gli era bastato, insomma, avere un po’ di testa... Senonchè qui appunto, nella testa, era il vizio. La vittoria, che per quattro anni noi abbiamo cercata ansiosamente con gli occhi in tutti gli angoli dell’orizzonte; la vittoria, che apparve all’improvviso un giorno, ad Oriente, dopo quattro anni di disperati richiami e di inenarrabili stragi, era acefala, come il marmo di Samotracia. Nessuno, lì per lì, nel tumulto della gioia, se n’accorse. Ed era acefala, perchè era apparsa, quando sull’orologio dei secoli batteva l’ora di Barabba. Il male, di cui l’Europa muore, è questo. Non l’intelletto soltanto è tocco, ma anche, e più, la volontà. I vincitori hanno fatto male i loro conti allora; e oggi che si accorgono di averli sbagliati, non sanno rifarli, perchè hanno voluto e vogliono abusare di una forza che non posseggono se non nella eccitata fantasia; e hanno voluto e vogliono abusare di una forza che non posseggono, perchè non sanno e non vogliono più sapere che cosa è un trattato, un governo, un esercito; e non lo sanno e non vogliono più saperlo, perchè sono dominati da cattive passioni: ambizione, orgoglio, prepotenza, cupidigia, vendetta, fatuità. La catena che la vittoria acefala ha gettato al loro collo e con cui li trascina al macello, è questa. Scampati alla disfatta quasi per miracolo, e soltanto per una abbondanza di uomini, di armi e di denaro così soverchiante, che tutti gli errori, le negligenze, le leggerezze, le inettitudini non hanno potuto annullarla, i vincitori tanto più si sono inebriati, perchè da un pezzo ormai, in fondo al cuore, disperavano di vincere; hanno dimenticato, sebbene fosse manifesto, che erano anch’essi spossati poco meno dei vinti e che _la vittoria aveva accresciuto la sicurezza, ma diminuito la potenza_ di tutti i grandi Stati dell’Intesa; si sono invaniti, esaltati, inferociti. Tutte le passioni del dominio e dell’acquisto, che sonnecchiavano in questo o quel gruppo dei ceti governanti; tutti i vulcani che durante la guerra parevano spenti per sempre hanno ricominciato a fiammeggiare. Gli uni adocchiarono territori; gli altri sognarono vendette e rappresaglie, che amareggiassero agli avversari la disfatta quanto la loro tracotanza aveva inferocito la lotta; tutti furono invasi da una smodata smania di bottino e di preda; tutti si convinsero che erano stati i più valorosi che avevano fatto i sacrifici maggiori, che potevano rivendicare il merito più insigne e i trofei più smaglianti della vittoria, che il proprio interesse era diventato il fulcro dell’universo. Intanto i redivivi delle trincee si precipitavano affamati nell’orgia in cui già da tre anni tripudiavano i favoriti della guerra; e facevano della pace una gigantesca _kermesse_. Tutti credevano — o vivevano come se credessero — che la pace potrebbe continuare in eterno a liquidare il capitale, di cui la guerra aveva già divorato tanta parte: fabbricanti e mercanti, banchieri e accollatari, funzionari e giornalisti, ministri e diplomatici. Era opinione universale — perchè nessuno voleva pensare alle imminenti, fatali scadenze — che incominciava un’êra di straordinaria prosperità per l’industria ed il commercio; e questa sorridente ma un po’ sventata opinione si faceva forte, per rassicurare i dubbiosi, di ragioni sostanziose come questa: esserci nel mondo nazioni intere — la Russia, l’Austria, la Germania, l’Ungheria, la Rumania e via dicendo — bisognose di tutto, perchè avevano logorato nella guerra il proprio corredo! «Ma se domani io avessi bisogno del castello di Versailles, non per questo potrei acquistarlo — dissi una sera a Parigi, a tre banchieri, che si lusingavano a vicenda con questo bel ragionamento. Per comperare un oggetto, non basta averne bisogno; è necessario anche possedere i mezzi di acquistarlo, ossia qualche cosa da scambiare con colui che lo possiede!» Ma questo ragionamento, cascando in mezzo a quel crocchio di finanzieri, fece proprio il tonfo di un incredibile paradosso. Tutti comperavano, vendevano, giocavano, speculavano, spendevano, gozzovigliavano da un capo all’altro dell’Europa. Uno sgualdrinaggio impudente svergognava le strade, i caffè, i balli, i ritrovi privati; l’oro e i diamanti scintillavano, la seta luccicava, le pelliccie si gonfiavano pettorute in alto e in basso, in una ostentazione sfrenata che confondeva principesse e contadine, meretrici e matrone, in ogni paese. Lo Stato, stava al centro della _kermesse_, simile a un Gambrino ubriaco a cavalcioni di una botte gigantesca; e dominava dall’alto il baccanale, lo incoraggiava con la voce, con il gesto, con l’esempio, continuando a gettare alle folle ubriache il salvadanaio di tutti a manciate. Guai ad accennare che ormai gli impegni degli Stati erano tanti, da doversi pensare con prudenza non solo a ritornare all’antica parsimonia, ma a verificare se gl’impegni presi si potevano mantenere! Disfattismo della pace; crimine di lesa patria! Il mondo era a tal punto impazzito, che mentre affilava i coltelli per scuoiare la Germania con il trattato di Versailles, le regalava miliardi e miliardi per premiarla di aver fatto la guerra all’universo. Proprio così: parlo sul serio. Un caso così straordinario non si era ancora veduto. «Non comprate marchi. La Germania è stata rovinata dalla guerra. Chi compera marchi, presta a un fallito». Quante volte ho ripetuto questo consiglio, nel 1919, quando il marco di carta valeva ancora un mezzo marco d’oro! Non ho mai presunto di dare consigli al denaro in cerca di profitti. Ma mi pareva di dovere e di poter dare questo consiglio, non come uomo di finanza, ma come uomo provveduto di qualche grano di buon senso. Ma anche questo savio consiglio, come tutti gli altri, è stato inutile. I miei amici, ricchi e poveri, uomini e donne, ammiratori e avversari del nome tedesco, comperarono marchi, marchi, marchi. E non i miei amici soltanto, ma tutta la città, in cui abito, ma tutta l’Italia, ma tutta l’Europa e l’America. «La Germania è intatta. La Germania lavora. La Germania è la Germania. La sua carta sarà domani oro di zecchino», dicevano e pensavano tutti. E ad ogni ruzzolone che il marco faceva, in folla e a precipizio, a comperare! Chi potrebbe contare oggi i miliardi che l’Europa e l’America hanno regalati alla Germania, dall’armistizio in poi, speculando balordamente sul marco? Poichè le somme che i compratori hanno perdute sono state in parte guadagnate dalla Germania; sono dunque un dono del mondo a quella che ieri ancora era la «nemica del genere umano», fatto o in monete buone o in monete migliori della sua. In quale Stato di Europa una favilla di civismo sincero sopravvisse a questo orrendo baccanale, celebrato su dieci milioni di tombe? Guerra e pace, forza e diritto, patria e umanità, conservazione e rivoluzione, ordine e disordine, bianco e rosso non furono più, dal giorno dell’armistizio, che bandiere di interessi e di passioni in guerra. Sulla rovina della monarchia e sulla inesperienza della democrazia, gli uomini e i partiti più avversi sognarono tutti il potere eterno e incontrollato, la dittatura; e se la disputarono, esaltando il sentimento popolare già delirante con una gara di folli promesse. I partiti e i gruppi che, per essersi trovati al potere quando finalmente la Vittoria era apparsa, si erano imaginati di averla essi chiamata, la presero in ostaggio e la costrinsero a promettere al popolo quel che non poteva dare: territori, corone, tesori, ricchezze. Ma i socialisti si erano accorti che la Vittoria era acefala; e stavan pronti a coglierla in fallo con le sue promesse bugiarde, e ad ammutinare le masse perchè la lapidassero. I conciliaboli, in cui la pace fu tramata, erano infettati dalle esalazioni asfissianti di queste torve passioni nemiche. Immersi nella nebbia di quelle esalazioni, gli spiriti si sono ottenebrati, non hanno potuto più discernere il vero dal falso, il possibile dall’impossibile, il fittizio dal solido, il sogno dal reale. Per pensare rettamente, come per pregare, occorre una certa purezza di anima. La passione a volte fa incespicare, nonchè la logica, anche l’abbaco. Accadde così che i vincitori — popoli e governi — non intesero più nè i comandi del dovere nè i consigli della prudenza. Non hanno capito che, tolte alla Germania l’Alsazia e la Lorena, spolverato l’articolo del vecchio trattato di Praga ancora ineseguito dopo tanti anni che le faceva obbligo di indire i plebisciti nelle terre dello Schlesvig, strappate alla Danimarca, bisognava rispettare l’integrità della Germania, anche a costo di deludere qualche speranza; andar piano con il coltello ad oriente; sforzarsi di ottenere il suo consenso a quei mutamenti territoriali che la risurrezione della Polonia imponeva; in ogni caso non smembrare l’Alta Slesia ma lasciarla tutta alla Germania, dopo che il plebiscito aveva scelto. Non hanno capito che avevano il diritto e il dovere di dire alla Polonia: «tu sei resuscitata; e chi resuscita, può essere contento anche se resuscita con le sole ossa e la sola pelle. L’adipe verrà poi, se i tempi e la salute e il destino e la Provvidenza vorranno...». Non hanno capito che dovevano incoraggiare e aiutare la repubblica tedesca, mostrandosi con essa meno esigenti che con la monarchia, e offrendole in ogni caso _una pace non umiliante ma decorosa_, come quella che gli alleati avevano offerto nel 1814 a Luigi XVIII e alla monarchia legittima restaurata sul trono di Francia. Non hanno capito che, mettendo in un fascio, oltre il Reno, repubblica e monarchia con un trattato umiliante, toglievano alla repubblica la forza, nonchè di eseguire il trattato, di governare la Germania e la precipitavano nel caos. Non hanno capito che le riparazioni e le indennità non dovevano essere imposte in misura arbitraria e accettate senza discussione come l’espiazione di un delitto orrendo, di cui il popolo tutto fosse responsabile; ma presentate alla discussione e al consenso del vinto, come un pegno della sua sincera volontà di riconciliarsi con il mondo, contribuendo alla restaurazione di una pace umana per tutti. Non hanno capito che il disarmo della Germania o faceva parte di una tregua conchiusa con animo sincero dalle maggiori potenze d’Europa _sulla terra e sul mare_, simile a quella che le grandi monarchie avevano conchiusa a Vienna nel 1814, o non sarebbe che una maldestra imitazione di uno dei più barocchi impiastri dell’empirismo napoleonico. Non hanno capito che la Germania era stata rovinata dalla guerra; e che era ridicolo immaginarsela scintillante di oro e di raso quando era coperta di cenci, per non rinunciare alla speranza di spogliarla. Non hanno capito che la caduta della Russia mutilava la loro vittoria; che vincitori in Occidente, essi erano stati vinti in Oriente; che tra i due punti cardinali poteva intervenire soltanto un compenso parziale; che, caduta la Russia, tutta la dominazione europea nell’Asia vacillava e la Turchia poteva essere annoverata piuttosto tra le potenze vincitrici che tra le vinte, essendo stata liberata dal nemico implacabile che da due secoli la perseguitava a morte. Non hanno capito infine che, scioltosi il nesso dinastico da cui sino al 1918 popoli e genti di lingua e di razza diversa erano stati legati insieme, in vasti e potenti imperi, nel cuore dell’Europa, occorreva legarli con qualche altro nesso, se non si voleva che la Libertà si presentasse a questi popoli tenendo in mano, come primo regalo, delle catene di ferro; e che questo nesso nuovo non poteva essere cercato che nella volontà profonda dei popoli stessi, espressa dai plebisciti. Non inarcate le ciglia per lo stupore, o lettori. La volontà dei popoli, nella quale l’Europa cerca oggi affannosamente quel principio di diritto, senza cui un governo non è che un odioso atto di prepotenza, non può esprimersi e articolarsi, ossia farsi una realtà viva e operante, se non per plebisciti, lealmente fatti e osservati. Al di fuori di questa, per quanto rozza articolazione, la volontà dei popoli è soltanto una maschera, di cui si copre l’arbitrio del più forte, il quale si arroga di sapere quel che un popolo vuole, meglio del popolo stesso! Bisognava dunque concedere i plebisciti chiesti dall’Ungheria e dagli altri popoli vinti; bisognava moltiplicare i plebisciti su tutti i punti controversi, dal Montenegro all’Alta Slesia; farli e osservarli con quella lealtà, che un anno prima della guerra mondiale avevo già invocata come divinità tutelare dei tempi, i quali non credono più a nessun vero trascendente e assoluto, ma si reggono su principî convenzionali, limitati e facilmente rovesciabili. L’Europa non sarebbe, no, un Eden di pace oggi; ma ci sarebbe già, sotto questa mobilità universale, qualche punto fermo. I vincitori non hanno capito nè queste cose nè molte altre, che li avrebbero aiutati a salvarsi. Senonchè mi pare che questo studio mancherebbe della sua conclusione e terminerebbe senza finire, se, giunti a questo punto, non ci proponessimo il quesito: per quale ragione queste cattive passioni sono state così forti, da spegnere addirittura il senso di conservazione in Stati e in popoli interi? Quale demonio è entrato in questi popoli e in questi Stati, che sembrano tutti usciti di senno e posseduti? Se noi riusciamo a sciogliere questo quesito, potremo abbracciar con una occhiata sola, da una specola dominante, tutte le osservazioni fatte via via e sparse nelle pagine di questo volume. E lo possiamo sciogliere con una risposta sicura. L’Europa non ha avuto, alla fine della guerra, la purezza d’animo necessaria a pensare rettamente e a discernere la realtà dalle allucinazioni, perchè dal 1848 in poi ha logorato la sua antica riserva degli ideali, senza rinnovarla, come un erede dissennato che divora il patrimonio degli avi. Questa riserva ideale si componeva di tre tesori: il cristianesimo, l’umanesimo, l’umanitarismo liberale del secolo XVIII; e tutti e tre i tesori rigurgitavano di sentimenti, di dottrine, di tradizioni, di regole, di esercizi, di scuole e di precetti, che servivano a comprimere e contenere gli egoismi violenti e brutali della natura umana, a mansuefare la bestia, che sonnecchia in ognuno di noi. Ma tutti questi tesori sono ormai dispersi e... Sì: in ogni strada le chiese aprono le porte ospitali al passante, officiano, pregano, suonano le campane. Ma dove e quanti sono ancora i veri cristiani, i quali sentono che l’uomo è un Dio decaduto; e che non può lucrare la redenzione di cui ha bisogno più che dell’aria per vivere, se non riconosce tutta la depravazione della propria natura, per impegnare con quella un disperato duello? Dove sono e quanti sono in questa strana epoca, in cui ogni uomo è persuaso nel fondo della sua coscienza di essere un Dio perfetto; ed è soddisfatto di sè al punto, che non trova altra ragione di dolersi, se non della sorte e degli altri? Ci sono ancora delle cattedre da cui si leggono e si spiegano Orazio e Pindaro, Virgilio e Omero, Livio e Tucidide; ce n’è più che non ci siano mai state e che non occorra. Ma queste cattedre oggi pretendono di spiegare il _vero_ Orazio e il _vero_ Pindaro, il _vero_ Virgilio e il _vero_ Omero, il _vero_ Livio e il _vero_ Tucidide. Chi cerca più, in quegli avanzi di una civiltà morta, in parte anche falsandoli con una ammirazione che riconosce in essi soltanto bellezze e virtù, e le vuole esagerare di proposito per farne uno specchio di perfezione immacolato; chi cerca più il modello di una compostezza, di una sobrietà, di una eleganza, di una moderazione, di una nobiltà che temperi e raffini così lo stile delle lettere come il pensiero politico, il gusto delle arti come il costume privato? Dal secolo XVIII tre magiche parole erano venute a volo fino a noi, come tre arcangeli, attraversando le tempeste, e avevano messo il piede nel cuore dell’Europa: libertà, uguaglianza, fratellanza. Erano parole un po’ leggere, e leggermente vestite di un ottimismo iridescente un po’ frivolo; ma erano anch’esse maestre, anche se talora un po’ deboli e svenevoli, di buoni sentimenti, perchè insegnavano ai potenti a non abusare del potere, ai fortunati a non presumere della loro fortuna sino al punto di credersi migliori, agli uomini, alle classi, ai popoli ad aiutarsi ed amarsi. Volgete oggi gli occhi intorno: che scempio e che rovina! Chi crede ormai a queste parole, quando la nostra epoca le pronuncia, più che alle moine contrattate della prostituta? Noi viviamo — fu detto — del profumo di un vaso vuoto. La civiltà quantitativa e l’ideale della potenza hanno bruciato a poco a poco le radici dei sentimenti nobili, dei gusti delicati, del pensiero disinteressato. A mano a mano che la popolazione cresceva, a mano a mano che crescevano i bisogni, l’avidità, la fretta di lucrare; a mano a mano che le ambizioni e le cupidigie si rincorrevano furiosamente a gara nel mondo, come in un immenso circo, per contendersi il premio, le masse acquistavano una certa istruzione e scioltezza di spirito, una alacrità, una prontezza, una agilità prima ignote. Ma le _élites_ spirituali sparivano; tutte le eccellenze si livellavano in medie nè troppo basse nè troppo alte; dal monte alla valle la terra a poco a poco si spianava; si diffondeva vittoriosa una brutalità procacciante, a cui non importava null’altro fuorchè il lucro, il successo e il libro dei delitti e delle pene: non la carità e non il diritto, non la legalità e non l’urbanità. Lavorare, produrre, vincere i rivali, correre a rompicollo, non dormire, guadagnare, spendere, credersi Dio, non ricordare mai il passato, non pensare all’avvenire, viver solo nel momento presente, pensare solo e sempre all’interesse urgente e alla passione traboccante! Tutti gli istinti nobili e tutte le aspirazioni disinteressate si ottundevano, tutti i pensieri sostanziosi e profondi si volatizzavano in queste frenesie. L’uomo disimparava il pregare e il pensare; appunto perchè l’una e l’altra operazione richiedono un’anima non troppo impura. Sulla smania del lucro singolo si accavallò la ambizione della potenza e prepotenza comune. Tra il 1890 e il 1895 i grandi popoli dell’Europa parevano in procinto di dimenticare e di perdonare. Perfino la Germania sembrava voler nascondere i suoi recenti e troppo vistosi trofei di guerra. Ma l’ambizione delle conquiste si risvegliò in Inghilterra nell’ultimo quinquennio del secolo. Una sciagurata parola «imperialismo» contaminò il dizionario di tutta la civiltà occidentale. Il cattivo esempio dell’Inghilterra fece subito scuola, in America, in Germania, in Francia, in Russia, in Italia. Mentre meccanici e chimici inferocivano la guerra armando la Morte di mostruose falci a vapore, poeti, filosofi, pubblicisti incitavano i popoli ad abusare spietatamente della propria forza contro i popoli inermi o deboli; e i governi si impegnavano in una bassa gara di prepotenze e di perfidie per «_etwas erwerben_», come diceva Nicola II a Guglielmo II: per arraffar qualche cosa, poco importa che cosa e in che modo. Neppure i popoli fratelli di razza, di lingua, di civiltà, di storia, seppero più essere amici; Caino fu l’inconsapevole modello e maestro di una civiltà dilaniata; la prepotenza, il disprezzo dei trattati, lo spergiuro, l’inganno, la slealtà furono vantati come le carte di nobiltà dei popoli grandi. E venne il giorno in cui noi, figli primogeniti della civiltà europea, noi carichi di venticinque secoli di gloria, tripudiammo tutti per tre mesi — popolo e signori — e ci gridammo rinati all’antica grandezza, perchè, senza essere provocati, avevamo assalito un impero decrepito e gli avevamo strappato una provincia, che non poteva difendere! Quando scoppiò la guerra il mondo, per un momento, ritornò in se stesso, scorse l’abiezione in cui era caduto, volle rialzarsi... Chi l’ha udito e veduto, non dimenticherà mai il silenzio religioso in cui, durante gli ultimi mesi del 1914, si avvolse Parigi: simbolo di un’epoca che capiva ad un tratto di avere troppo errato. Ma durò poco. Questa diabolica guerra esasperò in tutti, negli uni con il pericolo, la sofferenza, la schiavitù, negli altri con la baldoria, i piaceri, gli immeritati lucri, l’atroce egoismo del tempo. Quando la strage finalmente cessò, erano morte tutte le virtù, per cui la civiltà nostra era stata nobile e grande; la santità, la saggezza, la giustizia, la cavalleria, l’umanità, il senso del dovere, il disinteresse civico, la sobrietà del pensiero, la compostezza del sentimento, il rispetto dell’altrui diritto e dell’altrui dignità. Sopravvivevano ancora un po’ di carità nelle donne, e negli uomini il temerario eroismo di Icaro. Chi negherà all’ardore con cui tanti giovani delle classi alte e colte si sono sacrificati nella guerra, l’omaggio che merita ogni forma del sacrificio? Ma è forza riconoscere pure che questo spirito di sacrificio era facilmente trascinato dal suo impeto fuori dell’umano, talora perfino nel selvaggio; e che dopo aver moltiplicato gli eroi in mezzo alla mischia furente del genere umano, moltiplica ora nella pace i _dervish_ urlanti del nazionalismo, che vanno in giro per l’Europa predicando la guerra eterna. Ma qui odo una voce irritata interrompermi: «Lo confessate dunque. La guerra per la libertà e per la giustizia, che i governi dell’Intesa avevano bandito, era una impostura. Se ci avete creduto in buona fede foste degli imbecilli. Avevamo ragione noi di ammonire il popolo; si combatteva per il carbone e per il petrolio. Noi soli vedemmo chiaro». No: non vedeste punto chiaro. Il sentimento che mosse l’Europa a prendere le armi contro la soverchiante potenza della Germania era sincero; e non era punto, come troppi stolti che si credano savi ripetono, una romanticheria quarantottesca; era un moto improvviso e irresistibile dell’istinto di conservazione, finalmente ridesto. L’Europa aveva capito, in quel breve ma lucido intervallo, che la forza, di cui era così fiera, distruggerebbe alla fine la sua ricchezza, la legge equa e savia sotto cui viveva, i tesori più preziosi di una civiltà secolare. Quale era il dovere di chi conosceva, perchè era stato il solo ad esplorarlo nelle sue pieghe più riposte, il disordine morale e intellettuale in cui il Ferro e il Fuoco, il trionfo della civiltà quantitativa, la rozza ideologia del progresso avevano gettato la civiltà occidentale? Doveva dire all’Europa, proprio nell’istante in cui sembrava accorgersi dei suoi errori e dei suoi vizi e volersi emendare: «tu sei dannata; non sperare redenzione; ogni tuo buon proposito sarà vano; ritornerai dalla guerra come una Furia anguicrinita?» La civiltà occidentale è da un secolo tiranneggiata da alcune passioni violente e feroci che ormai, nelle generazioni viventi, non sentono più freno alcuno: nè la religione, nè la tradizione, nè la saggezza di qualche autorità rispettata, e neppur la nozione chiara del proprio interesse o l’istinto di conservazione, se si vuole adoperare una parola più corrente. Per questo ha combattuto la guerra più atroce della storia. Per questo non sa fare la pace, ossia non sa ricavare dalla guerra il solo frutto che avrebbe potuto compensare in parte i vincitori e salvare dalla disperazione i vinti. Per questo è minacciata di distruzione totale e rimbarbarisce; perchè civiltà è il prevalere di certe virtù difficili e di certi sentimenti generosi sulle passioni elementari della perversa natura umana. Si potrebbe definirla altrimenti? Ma la tirannia sempre più fiera di queste passioni non s’è stabilita in un giorno e non dura per caso, senza ragione profonda, anche se porta nel suo grembo una rovina apocalittica. Chi potrebbe presumere di indovinare quando questa tirannide cederà lo scettro a sentimenti più umani e a dottrine più illuminate? Forse domani, forse tra un secolo. Ed anche se ci fosse un genio così potente, da indovinare che il grande rivolgimento avverrà tra un secolo, sarebbe forse dispensato dal dovere di ripetere ai contemporanei che le loro passioni li accecano, e di incoraggiare tutti i tentativi, anche se timidi e saltuari, di detergere dalla propria vista questa cecità? Quale è il grande movimento della storia che non ha incominciato con parziali fallimenti? Chi ha una coscienza e una fede, consulta forse, prima di difendere un principio, il lunario del successo e tira l’oroscopo per sapere quando trionferà? Scrivevo nel 1920: «tutte le autorità sono cadute; e perciò la sola forza governa il mondo; la forza sola e nuda, o coperta appena di qualche cencio rosso o di qualche brandello della bandiera nazionale; e governa il mondo come può, per accessi e sussulti, senza discernimento, straziandolo, perchè la forza è così debole, quando è sola e nuda! Non illudetevi, o uomini: in Europa i soli titoli di autorità che ancora valgono sono il ferro e l’oro. La libertà è morta, come il diritto divino. A volte a volte governerà chi riesca a farsi obbedire per un’ora da centomila baionette, e ad impadronirsi dei torchi ufficiali che stampano la carta moneta[16]». Questa pagina annunciava il fascismo e il suo avvento. Dovevo perciò mettermi alla testa anche io di spedizioni punitive o sovvenzionare squadre d’azione? Appunto perchè la libertà è morta, non voglio fare il becchino; ma preparare la resurrezione, prossima o lontana. Chi non è un commediante di dottrine così fa. Sì: la guerra, incominciata come una crociata per la difesa di idee e di principî, termina in una furibonda rissa per i carboni della Ruhr e per i petroli di Mossul. I vincitori non sono stati degni nè della causa che difesero nè della vittoria che la fortuna aveva loro largito perchè ne facessero uso migliore. Sono forse per questo mutate le leggi che regolano il mondo e la pazzia è diventata ragione, il vizio virtù? È vero nel 1923, come era vero nel 1914, che l’Europa non avrà mai la pace finchè non la vorrà; ma l’avrà subito, intera, totale, sicura, il giorno in cui la vorrà, ossia il giorno il cui le torve passioni oggi dominanti cederanno il posto a un po’ di modestia, a un po’ di generosità, a un po’ di considerazione, a un po’ di saggezza. Ridotto a questi termini, che soli son veri, quanto è semplice e quanto è complesso il «problema» della pace! È semplicissimo, poichè un moto dell’animo, che mille volte si ripete nella vita dell’uomo più umile, basta a risolverlo. È complicatissimo, perchè un moto, che è così facile nell’animo del singolo, diffuso a tutta la civiltà occidentale, deve sollevare e capovolgere il peso di un secolo — e di che secolo! I nostri tempi possono calpestare, vilipendere, fare scempio del cristianesimo, dell’umanesimo, dell’umanitarismo, quanto loro piace. Ma dovranno ritornare ad essi con un po’ di sincerità, se vorranno la pace, la prosperità e l’ordine; e sinchè non ci ritorneranno, si struggeranno nella guerra, nell’odio, nella miseria, nell’anarchia rossa o nella tirannia bianca. In questo sta il tutto. Al lavoro, dunque. I quattro calamitosi anni che ci separano dalla guerra sono soltanto un momento della lunga storia che racconta gli inciampi, le cadute, gli errori, le emende, le riprese dell’uomo nella sua via tribolata. Non disperiamo; e se l’avvenire è oscuro, rivolgiamoci a contemplare il passato, poichè lì almeno vediamo più chiaro; e rallegriamoci che, a dispetto di tanti amari disinganni, il troppo sangue profuso non fu tutto sprecato, perchè un acquisto almeno è ormai assicurato: un acquisto immenso, di cui i secoli esulteranno a mano a mano che, allontanandosi dai nostri tempi, lo vedranno grandeggiare in cospetto della storia. La guerra ha spezzato nelle mani dell’Europa quell’arme mostruosa, che era il tormento, il terrore, l’orrore del mondo. Poco importa se dei governi spauriti impegnano gli ultimi arredi per vestire e mantenere soldati, soldati, soldati! Quella mostruosa elefantiasi della forza, che incominciò con la rivoluzione francese e con l’impero napoleonico, è finita, e per sempre. L’esercito tedesco, non è più. Non è più l’esercito austro-ungarico. Dell’esercito russo sopravive un’ombra. Esistono ancora o non esistono più un esercito inglese e un esercito italiano? Nessuno saprebbe rispondere con sicurezza. L’esercito francese è ancora in armi, smisurato; e molti eserciti minori, ma troppo grossi, luccicano tra le rovine dell’impero degli Absburgo, agitando coccarde e bandiere nazionali. Ma manca ormai a tutti questi eserciti, per mantenersi e per crescere, così il denaro come il modello; quel modello da imitare, francese prima, tedesco dopo il 1870, senza il quale non c’è e non ci può essere nè spirito nè tradizione che vivifichi dei corpi così massicci. Il sistema è stato distrutto dalle sue iperboli. _Mole ruit sua._ L’Europa non sarà più lo scandalo e il terrore del mondo con la elefantiasi militare, che l’aveva sformata. Guardate l’America, guardate l’Asia: sono forse due selve di baionette? Non si reggono con poche forze armate? Tutte le civiltà che furono prima della rivoluzione francese, non professarono il principio che le armi, per servire, devono essere buone ma poche? La mostruosa parentesi, aperta con la rivoluzione francese, sta per chiudersi. Ritorneremo anche noi, Europei, nell’eterno passato, in quella che è stata — e sarà — la legge costante della vita, la regola indefettibile della saggezza: non solo per vivere e camminare, ma anche per poter combattere, esser necessario non caricarsi troppo di ferro. E insieme con il sistema militare, agonizza anche l’imperialismo europeo. Si può ora ricominciare a sperare che il mondo, liberato da questo flagello, respirerà domani. Quella condizione di cose, per cui alcuni popoli d’Europa poterono negli ultimi due secoli conquistare così smisurati territori e assoggettare al prepotente loro dominio tanti popoli, dei quali parecchi avrebbero dovuto venerare e ammirare come maestri, volge al suo termine. Come le guerre della rivoluzione e dell’impero fecero perdere all’Europa la maggior parte dell’America, la guerra mondiale le strapperà l’Asia e una parte dell’Africa. Noi vedremo l’Asia madre e maestra, il continente che diede la luce a Confucio, a S. Paolo, a Maometto, dove si svolse il mistero della Redenzione, dove furono scritti i Vangeli, libero finalmente dal prepotente dominio dei barbari occidentali, adoratori del Fuoco. Giorno memorando nella storia sarà quello in cui, scacciata dall’Asia, l’Europa rientrerà in se stessa e nell’«eterno passato»! L’orgoglio, per cui s’è creduta maestra e sovrana dell’universo, proprio quando smarriva la nozione stessa del governo e dell’autorità, sarà umiliato quanto merita. Aspettiamo dunque quel giorno con fede. Quel giorno, forse, i sordi incominceranno ad udire. FINE. INDICE PREFAZIONE pag. 5 PARTE PRIMA L’ALBA TORBIDA DELLA PACE I. Le baionette e l’idea » 17 II. Il discorso e il pensiero di Clemenceau » 25 PARTE SECONDA IL CONGRESSO DI PARIGI I. Il Reno » 35 II. La nuova infanzia del mondo » 53 III. L’America e il miracolo di San Gennaro » 64 IV. Gli assenti presenti: Russia e Germania » 68 V. Sfogo » 72 VI. La radice del male » 83 PARTE TERZA I TRATTATI I. L’America e i mari » 95 II. Le garanzie » 102 III. Le riparazioni » 108 IV. Trattati di carta velina » 115 V. Il Capovolgimento dell’Austria-Ungheria » 119 VI. La Polonia e la Russia » 127 VII. Il protettorato del Mondo » 133 VIII. La politica realistica » 140 PARTE QUARTA VINTI E VINCITORI NEL CAOS DELLA PACE I. L’Europa dopo due anni di pace » 145 II. L’America e i mari » 151 III. Guerra e pace al Congresso di Washington » 156 IV. Concatenazione » 163 V. La Germania e il suo riscatto » 166 VI. La guerra e la ricchezza » 172 VII. I debiti » 179 VIII. I trionfi dell’imperialismo europeo: l’indipendenza dell’Egitto » 183 IX. L’imbroglio orientale » 190 X. I trionfi dell’imperialismo europeo: la riscossa turca » 197 XI. Il nodo insolubile delle riparazioni » 203 XII. Sisifo » 211 XIII. La nuova guerra » 218 PARTE QUINTA PRIMO DISCORSO AI SORDI _Introduzione_ » 227 I. Il suicidio della forza » 229 II. L’eterno passato » 234 III. Il culto del fuoco » 243 IV. Il supremo fiore della Storia » 253 V. Nè Cristo, nè Anticristo » 258 VI. Il ritorno dei barbari » 264 VII. L’idropisia del denaro » 269 VIII. La vittoria acefala e l’ora di Barabba » 277 _Altre opere dello stesso Autore:_ GRANDEZZA E DECADENZA DI ROMA. Vol. I: _La conquista dell’Impero_ L. 7.50 Vol. II: _Giulio Cesare_ » 7.50 Vol. III: _Da Cesare ad Augusto_ » 7.50 Vol. IV: _La Repubblica di Augusto_ » 5. — Vol. V: _Augusto ed il Grande Impero_ » 5. — FRA I DUE MONDI L. 6.50 LA VECCHIA EUROPA E LA NUOVA » 5. — MEMORIE E CONFESSIONI DI UN SOVRANO DEPOSTO » 5. — ROMA NELLA CULTURA MODERNA. Discorso tenuto in Campidoglio il 21 aprile 1910, commemorando il Municipio il «Natale di Roma» » 3. — IN MEMORIA DI CESARE LOMBROSO (1910). Conferenza, con due ignorati scritti giovanili di Lombroso » 3. — _In preparazione_: LA ROVINA DELLA CIVILTÀ ANTICA. NOTE: [1] La vecchia Europa e la nuova, pag. 316. [2] La vecchia Europa e la nuova, pag. 34-35. [3] Memorie e confessioni di un sovrano deposto, pag. 289. [4] 14 gennaio 1919. [5] 7 gennaio 1918. [6] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi, nel marzo del 1919. [7] M.... è uno degli spiriti più forti e profondi della Francia; come tale sarà ammirato, oltrechè dai suoi amici, anche dalla élite colta dell’Europa, quando si deciderà a far partecipe del suo sapere un pubblico più largo. Nel 1919 occupava una posizione ufficiale, non certo adeguata al suo merito, ma tale da permettergli di sapere quanto accadeva nel Congresso. [8] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile del 1919. [9] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile del 1919. [10] 19 marzo 1919. [11] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile del 1919. [12] 31 dicembre 1919. [13] Allusione alle elezioni greche del 1921. I lettori ricorderanno che in seguito a queste elezioni il Ministero del Venizelos fu rovesciato e il re Costantino richiamato dall’esilio. [14] Allusione al tentativo di restaurazione monarchica, fatto da Carlo di Absburgo. [15] Allusione ai prestiti chiesti dalla delegazione russa, alla conferenza di Genova, nella primavera del 1922. [16] _Memorie e confessioni di un sovrano deposto_, pag. 289. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76526 ***