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L’ONOREVOLE


ACHILLE BIZZONI

L’ONOREVOLE

VOLUME UNICO

MILANO
SOCIETÀ EDITRICE SONZOGNO
14 — Via Pasquirolo — 14
1896.


Proprietà letteraria riservata

Milano. — Tip. della Società Editrice Sonzogno.



INDICE


[5]

L’ONOREVOLE

CAPITOLO I. Partenza!

Lo stridìo acuto, irritante, dell’avvisatore elettrico della stazione di Miralto annunziava imminente l’arrivo del diretto Milano-Roma, partito in ritardo di venticinque minuti, ritardo annunziato alla folla dei convenuti dal lungo sottoprefetto, al quale, colla dovuta ossequiosa deferenza, aveva riferito il capo stazione, che, deplorando vivamente la cronica inesattezza del servizio ferroviario, gli mostrò il telegramma del collega della stazione vicina.

La folla, pigiata sotto l’angusta tettoja, era divenuta silenziosa; ma al segnale stridente, come elettrizzata anch’essa, si rianimò. Scoppiarono grida unanimi: «Viva il nostro deputato! Viva il deputato di Miralto!»

Le bandiere delle associazioni politiche ed operaje si agitarono, galvanizzate esse pure dallo scampanellìo elettrico, la banda intonò (per modo di dire, perchè era maledettamente stonata) intonò per la centesima volta la marcia reale, e gli intimi del neo-eletto, i grandi elettori, le autorità, distinte nella confusione dal burocratico cappello a tuba, fecero ressa intorno all’onorevole, [6] del quale ognuno si sentiva con compiacenza autore... protettore, in certo modo padrone. Non era la loro creatura?

Era tempo che l’entusiasmo riprendesse, perchè durante l’attesa, prolungata per il ritardo del treno, attesa di pochi minuti che parve un secolo, come un’atmosfera di ghiaccio erasi addensata su quella folla. Gli entusiasmi stancano, come ogni altra sovraeccitazione... Da tre giorni il popolo felice di Miralto non aveva fatto che entusiasmarsi, attingendo lena nelle osterie, le quali mai più, dall’ultima elezione, avevano avuto sì numerosi ed assetati clienti... E poi la giornata era sì funereamente triste! Non un raggio di sole per diradare il fitto nebbione novembrino... Il sole giova anche a riscaldare gli entusiasmi politici delle folle.

Il giovane deputato era soffocato dalla ressa; gli augurî, le felicitazioni, le strette di mano, le acclamazioni si incrociavano, si sovrapponevano, si confondevano fra il baccano infernale degli evviva e gli squilli stentorei degli ottoni, nei quali i bandisti, in costume da ussaro, con ardore degno di meno diabolica esecuzione, soffiavano accanitamente furibondi, rossi e paffuti come Eolo scatenante la tempesta. Tra gli evviva, le stonature strazianti, le felicitazioni, gli augurî, gli addìi, distinto lo stridìo insistente, irritante, del campanello elettrico, fra la folla distinto il lungo sottoprefetto trionfante, la cui statura arborea pareva accresciuta dall’alta tuba torreggiante.

Quasi tutta Miralto era accorsa alla stazione; fra gli intervenuti molti elettori avversarî, adoratori del successo, passati per la maggiore; pochi ritrosi eran rimasti alle loro case, sì che all’entusiasmo dei vincitori si mischiava quello dei vinti... miracolo non nuovo!

All’allegrezza universale non partecipava con eguale [7] slancio il gruppo delle signore, mogli, figlie delle principali notabilità del collegio.

L’avreste detto un gruppo di Maddalene confortatrici di una sconsolata Maria. Mesto contrasto alla gioja universale, Adele Sicuri, la giovine sposa al deputato, non sapeva nascondere il dolore per la partenza del suo Giuliano, la prima separazione nei tre anni di matrimonio; non sapeva dissimulare i tristi presentimenti, irragionevoli, infondati, ne conveniva, ma più forti della ragione e della volontà, e la gazzarra, il baccanale politico celebrati in di lui onore, le parevano insulto.

La ridente luna di miele, allietata da un bimbo, pegno desiderato e adorato del più sereno degli amori, era violentemente turbata da due terribili rivali: la Politica, e l’Ambizione. Oh, gli orrori dell’accanita lotta elettorale! Quanti insulti, quante calunnie rovesciate sul capo del suo Giuliano, quanto fango rimestato e schizzato infino a lei, dal giornale avversario! Gli affissi insultanti e calunniatori, e lettere anonime... ricatti... E i terrori per dimostrazioni ostili o favorevoli... E ancor più doloroso, il mutamento di contegno di Giuliano, che da quindici giorni la lasciava negletta, irritandosi fino al furore ad ogni objezione di lei, supplicante in ginocchio l’abbandono della fatale candidatura.

Certamente essa aveva torto di contrariarlo con tanta ostinazione, lo ammetteva; d’altronde, non era una nuova prova d’amore? Non eran prove d’amore le lacrime che nell’ora triste degli addii non sapeva rattenere?

Giuliano l’aveva brutalmente accusata di egoismo, rimproverandola di frapporsi ostacolo alla sua carriera. Essa ne conveniva:

— Se l’amore è egoismo, sì, io sono la più egoista delle donne, perchè ti amo! Ti amo e ti voglio assolutamente mio e con me, sempre!

[8]

Quel mattino, rattristato anch’egli all’idea del distacco, era stato amorevole, ma, al momento di salire in carrozza per recarsi alla stazione, avvedendosi che Adele, a muta protesta, si era vestita a bruno, si indignò.

— Sei una sciocca od una pazza!

Quelle le ultime parole che le aveva rivolte, ed essa non voleva lasciarlo partire così, senza un’affermazione d’affetto, senza una completa riconciliazione, senza la promessa di un pronto ritorno. Come fendere la ressa che lo asserragliava? Come dirgli, davanti a tanti importuni, ciò che le traboccava dal cuore?

Pazza davvero, in quel momento, pazza di dolore, non rendevasi conto di ciò che avveniva intorno a lei, e fra il baccano dei dimostranti non udiva che lo stridere dell’avvisatore elettrico annunziante imminente l’arrivo del treno, imminente la partenza di Giuliano. Agonia dolorosa quanto quella del condannato a morte negli ultimi istanti della fatale toletta.

Lo squillo della cornetta del cantoniere, nel frastuono inavvertito da tutti, giunse distinto all’orecchio di Adele col lontano ruggito della locomotiva sbuffante. Si decise, ruppe la folla e si slanciò nelle braccia di Giuliano, commosso e non poco imbarazzato alla pubblica espansione di amore conjugale.

Non disse parola, chè i singhiozzi la soffocavano, e lui, a sua volta, ebbe una lacrima. Egli pure l’amava, egli pure nel momento degli addii, si sentiva infinitamente triste, invaso dal rimpianto delle interrotte dolci abitudini casalinghe fra i sorrisi del bimbo e l’amore infinito della sua Adele; punto da rimorso pel dolore che le cagionava, come da un senso di terrore, inspiratogli dall’ignoto della nuova esistenza ch’egli stava per affrontare. Non si erano ancor scambiata una parola, [9] allorchè il diretto entrò in stazione con fragore d’uragano, trascinato dalla potente locomotiva dal pennacchio di fumo al vento, mastodonte d’acciajo dal barrito spaventoso, avvolta in una nuvola di vapore ruggente dalle valvole forzate.

I bandisti, vestiti da ussari, soffiarono con nuova lena negli ottoni stonati, gli evviva ripresero, dominanti il fracasso degli sportelli violentemente aperti e rinchiusi, il martellare dei guardafreni sulle ruote metalliche, sonore come campane. Chiasso disarmonico di ferramenta, di urla umane, che parevano bestiali, di squilli di trombe e tromboni, dominato dalla ruggente respirazione della locomotiva avvolta in nembi di incandescente vapore.

Era l’istante dell’addio supremo. Tre, tre soli minuti di fermata!... Partenza! Partenza! In treno!

Giuliano, riabbracciata la sposa, scambiate le promesse colle calde, supplicanti raccomandazioni di lei, baciatala un’ultima volta con affetto infinito, salì nel riservato, per la cortese previdenza del lungo sottoprefetto, destinatogli. Il conduttore chiuse brutalmente la portiera, il colpo secco ripercosse dolorosamente nel cuore di Adele, che si sentiva svenire. Alcuni rintocchi di campana, il fischio del conduttore, lo squillo della cornetta, l’ululato della locomotiva... Partenza! E il treno si mosse fragoroso come il carro di Giove; si mosse e sparì rapido, quasi visione.

Un sogno! Un triste sogno!

***

La stazione divenne come per incanto silenziosa, la folla ammutolita si dileguò lentamente, il disarmonico plotone di ussari si sciolse, le bandiere arrotolate, malinconicamente riposte nelle fodere di tela cerata, rincasarono ognuna per vie diverse, quasi vergognose.

[10]

La contessa Adele stava tuttavia sulla piattaforma, sventolando il candido fazzoletto, ultimo saluto al suo Giuliano, già troppo lungi per avvertirlo, per poter rispondere.

Il treno scomparso, sprofondato nella fitta nebbia che avvolgeva ogni cosa, sorretta dall’amica Stella Gabelli, la contessa Adele, come instupidita, lo sguardo intento, rimaneva immobile, muta.

Le signore le si fecero d’attorno consolatrici; Adele le ringraziò gentile, con sorriso infinitamente mesto, ed accettato il braccio lungo dello sperticato e galante sottoprefetto, si avviò verso il piazzale della stazione, ove l’attendeva la carrozza. E il sottoprefetto a mo’ di conforto e di incoraggiamento:

— Si faccia animo, signora contessa. La separazione non durerà più di un mese. La Camera si prorogherà per le ferie di Natale... Si faccia coraggio, ne faremo presto un piccolo sottosegretario di Stato... E poi, chissà, soggiunse sorridente, col tempo, fors’anche un ministro. La stoffa c’è del ministro, e nel nécessaire d’ogni moglie di eccellenza vi è un diploma di collaressa dell’Annunziata... Col tempo, vedrà!...

Adele, ben poco lusingata dai lieti augurî, ringraziò e salì in carrozza colla sua amica, scambiando un saluto ed un ringraziamento banale, di convenienza col galante e lungo rappresentante del governo.

— La scioccherella! pensò il sottoprefetto, quando la carrozza fu lontana.

— La grulla! aveva susurrato la maggioranza delle dame e damigelle intervenute alla stazione. Invece di essere felice... E poi, si rappresentano in pubblico tali scene? C’era da credere che il conte Giuliano si avviasse al supplizio!

— Tutte moìne... aveva ripreso qualcuna.

[11]

— Chi ti accarezza più che non suole... con quel che segue, mormorò la matura sottoprefettessa nell’orecchio del segretario di suo marito. Troppe lacrime, per essere sincere.

— Per altro, rispose l’elegante e giovane burocratico, la contessa era pur bella stamattina! Il nero le si adatta a meraviglia, il pallore l’assomigliava ad una Madonna, ad una Madonna veramente bella. Perchè ve ne sono anche di brutte, vi sono tanti pittori di pessimo gusto! I capelli biondi, l’aureola!

— Quali entusiasmi, signor segretario!

— Ammirazioni! Ammirazioni! Non entusiasmi. La bellezza della contessa è modesta nel suo splendore mistico. Non colpisce, ma si rivela a poco a poco, come se, circonfusa da veli, ogni giorno se ne togliesse uno. Non si può imaginare nulla di più perfettamente bello, ad onta del contrasto bizzarro, fra l’austerità severa dello sguardo profondo e la gentilezza, fin troppo infantile, de’ lineamenti.

— E non è entusiasmo, la sua ammirazione espressa con tanto calore?

— Ammirazione, le dico, pura e semplice ammirazione. Ella sa che, se sono segretario di terza classe, non fu per elezione mia. Dovevo essere un Tiziano, un Tintoretto, un Giulio Romano, un Raffaello qualunque, da strapazzo, s’intende, ed invece non sarò che un Codronchi, un Municchi, un Calenda... se pure la saprò durare fra gli scarabocchî. Così volle lo zio. Tra la fame, tirocinio dell’arte, e l’assegno mensile dello zio, mi sono arreso vilmente, vilmente prostituito. Ma, a dispetto dell’ufficio, l’ammirazione del bello mi è rimasta. I puttini pensosi della Madonna di Dresda di Raffaello sono meno ammirabili della testina bionda della contessa, tutta innocenza, sorridente nei lineamenti, con [12] tanta malinconìa da predestinata nello sguardo. Si direbbe che, come gli angioli di Raffaello, legga nell’avvenire i giorni tristi della passione... La settimana santa, il Calvario, la croce. Le assicuro, signora, che se fossi il conte Giuliano, se avessi le sue sessantamila lire di rendita e un tesoro come la contessa Adele, aspetterei per darmi alla politica i sessant’anni sonati... molto sonati...

— Se tutti la pensassero come lei, che cioè fra l’amore e la politica vi sia incompatibilità, la Camera sarebbe un Senato elettivo.

— No, un Parlamento di scapoli e di male ammogliati. Del resto, le contesse Sicuri sono tanto rare e così scarsi i fortunati come il conte Giuliano, che i candidati al Parlamento sarebbero sempre troppi anche fra i soli ammogliati.

— Le saranno soltanto ammirazioni, signor segretario; ma, ammirazioni entusiastiche. Del resto, soggiunse la sottoprefettessa, mi pare che ella esageri decantando la beltà modesta della contessa Adele. Modestia apparente; la civetteria si rivela fin nella scelta delle amiche. Certe cose non sfuggono a noi donne. Bionda, predilige la signorina Gabelli, perchè è bruna. Il contrasto fra i due tipi giova alla bionda, senza suscitare raffronti pericolosi per la contessa. Ne convenga, signor Guglielmi.

— Un Beato Angelico ed un Murillo, signora! Il Murillo può essere, anzi lo è certamente, più perfetto, e sopratutto meno ingenuo nella fattura. Ma, quanta mistica poesia nelle madonne bionde del buon frate di San Marco, angelico davvero. Del resto, dice bene lei, signora prefettessa, i raffronti sono impossibili, due creature divine. Ma, ella lo sa, noi giovani da ammogliare, mio zio lo vuole, non prediligiamo le signorine. È una anomalia costante, soggiunse baciando galantemente la [13] mano alla prefettessa, nel mentre esalava semiserio un sospiro, che voleva essere una dichiarazione impertinentemente umoristica.

— Ohè! ohè! signor segretario, sclamò ridente il sottoprefetto, sopraggiunto dopo aver preso commiato dalle alte notabilità, rispettive consorti e figlie. Mi pare che ella faccia la corte a mia moglie.

— È nelle mie mansioni, signor prefetto.

— Sotto... sottoprefetto, riprese il lungo funzionario.

— Per poco, signor commendatore, dopo le due splendide vittorie elettorali riportate nei due collegi della sottoprefettura di Miralto, l’elmo da generale è assicurato.

— Lo crede? chiese il lungo funzionario, lusingato dall’augurio e porgendo il braccio alla moglie. Lo crede? Sarebbe tempo. Ma, pur troppo, a battaglia finita nessuno pensa più a noi poveri impiegati, eternamente allo sbaraglio. Se il ministero avrà la maggioranza, bene quidem; se no, saremo in balìa alle rappresaglie dei successori; in ogni modo alla berlina delle interrogazioni, delle interpellanze, degli oppositori. Se poi la giunta delle elezioni ci invalida, ci si arrischia anche il posto. Il meno che ci possa toccare, una traslocazione rovinosa ed umiliante. Signor Guglielmi, avrebbe fatto meglio davvero a seguire la sua vocazione. Meglio dipingere quadri, che essere in quelli della magistratura amministrativa; meglio creare personaggi sulla tela, del fabbricare deputati.

Guglielmi, il giovane segretario, assentiva distratto: evidentemente il suo pensiero batteva la campagna. Gli è che in fondo in fondo della via Vittorio Emanuele, ove sorge il palazzo della sottoprefettura, al cui limitare erano giunti, aveva visto arrestarsi la carrozza della contessa Sicuri e scenderne le due giovani donne: il Beat’Angelico ed il Murillo.

[14]

— A proposito, signor Guglielmi, riprese il sottoprefetto congedandosi, si ricordi che mia moglie l’ha invitato a pranzo per domani. Dopo la fiera lotta, checchè avvenga, è doveroso celebrare la vittoria.

Il segretario ringraziò salutando profondamente. La sottoprefettessa rivolgendosi al marito:

— È innamorato cotto della contessa, e finirà per comprometterla.

Per conto suo Guglielmi pensava:

— Il sottoprefetto ha paura! Fatto è che più scandalosa elezione di questa credo non vi sia stata mai! Da una mano croci di cavaliere, dall’altra decreti di destituzione di sindaci e scioglimenti di Consigli comunali. Con tutt’e due poi un mercimonio indecente di voti. Ah, non io, nei panni del conte Giuliano, avrei sciupato tanti quattrini, per dovermi separare poi da quella sublimità di donna...

Il segretario sospirò, sbirciando le finestre del palazzo Sicuri, senza poter nulla intravedere dietro le cortine delle socchiuse finestre.

— Vero è, pensò ravvedendosi, che altri sono i criterî di un... di un ammiratore platonico di quelli del marito. Piove!... Giornataccia uggiosa! Bisogna rincasare.

Preso pretesto dalla pioggia, ripassò sotto le note finestre, senza sorprendere neppure il fremito di una cortina. Era invero una ben triste giornata! di quelle che i felici abitanti dell’Italia meridionale conoscono per eccezione.

Tempo inglese! Un fitto nebbione avvolgeva la valle del Po, dalle falde delle Alpi a quelle dell’Appennino. Oh, la immensa tristezza delle lugubri giornate, senza orizzonte, senza un lembo d’azzurro, senza raggio di sole. Giornate da spleen, da sospiri, da lacrime. Gli abitanti delle grandi città, nel loro lavorìo senza posa, non [15] hanno il tempo di avvedersi del tempo che fa... Piove? Pigliamo l’ombrello!

Nella farragine degli affari, dei piaceri, se non si tratta di gite alla campagna, di garden-party, di corse, di partite di caccia, le variazioni atmosferiche non contano... Gli amanti felici si amano meglio nella penombra nebbiosa che li isola dal mondo esteriore. Felici col bel tempo e colla pioggia. Il loro cielo, tutto d’azzurro, se lo portano seco, i loro orizzonti, finchè si amano, sono con tutti i tempi sereni. I gaudenti anticipano le emozioni della vita notturna nei loro rovinosi ritrovi. D’altronde, la poesia della nebbia e della pioggia non l’ha inventata Ossian; essa esiste, è reale, vera. Nulla di più lieto di certe piovigginose giornate autunnali, passate nell’affettuosa intimità della famiglia, raccolta intorno all’ampio camino patriarcale, nel quale arde l’enorme ceppo attizzato dal babbo, che distratto lo martella insistentemente colle molle, mentre la massaja si dà attorno affaccendata, instancabile, e la vecchia nonna narra ai bimbi intenti le tradizionali panzane, e i bracchi stesi a terra dormenti, col muso fin sugli alari, sognano caccia, abbajando sommessamente dietro una selvaggina imaginaria, e il grillo stride, rallegrato dalle vampe e dai tepori del focolare. Nei castelli aristocratici e nell’aristocratico salotto cittadino della signora, hanno pure il loro fascino quelle giornate, che per eccezione costringono i fortunati al calmo raccoglimento domestico.

Ma per chi ha una spina in cuore, per coloro che soffrono nell’abbandono, per chi trepida nelle incertezze angosciose sul destino dei cari lontani, pel viaggiatore attristato dall’amarezza degli addìi, la mestizia è raddoppiata dalle tristezze della natura.

In quella giornata da sospiri e da lacrime, più cupa [16] la desolazione della contessa Adele, più tormentosi i presentimenti ed i vaghi terrori del conte Giuliano, il quale, rapido, come travolto dall’uragano, s’allontanava dalla nativa Miralto, dalla sposa e dal bimbo adorati, precipitando a tutto vapore nell’ignoto che attendevalo a Roma.

[17]

CAPITOLO II. Finalmente solo!

L’onorevole Giuliano Sicuri al partire del treno stette lungamente allo sportello, sventolando egli pure il fazzoletto; quando la stazione di Miralto scomparve allo sguardo, dileguandosi nella nebbia, rialzato il cristallo, si lasciò cadere affranto sul sedile, sclamando:

— Finalmente solo!

Poi, come punto da rimorso, soggiunse:

— Povera Adele!

Quel poco lusinghiero finalmente non era stato pronunziato all’indirizzo della sposa, bensì della folla degli acclamanti importuni.

— Finalmente solo!

Da quindici giorni di agitazione febbrile, non un minuto di raccoglimento, e fu con un senso di infinita soddisfazione che finalmente si sentì liberato da’ suoi cari elettori, assai più caldi negli entusiasmi della vittoria, che non nei cimenti della lotta e nel concorso alle urne.

Infatti l’eletto aveva superato di un centinajo di voti appena il candidato radicale.

Per una candidatura improvvisata era già un bel successo!

Successo? Il neo deputato sorrise con amarezza. Successo? L’appoggio e le violenze del Governo, le migliaja, le molte migliaja di lire profuse negli ultimi [18] giorni della battaglia, la fondazione di un giornale, l’Onesto, passività permanente, ventimila manifesti affissi fin sugli alberi, in aperta campagna, la dedizione completa al ministero, la sconfessione piena delle vagheggiate utopie politiche giovanili, l’abbandono degli antichi amici, rotta la calma dolce della onesta esistenza vissuta nell’adorazione della sua Adele e del bambino, tutto ciò per gli sbaragli e le malsane agitazioni della carriera parlamentare.

Fu una follìa! Se dovesse ricominciare ci penserebbe due volte, tanto più che la vittoria non fu completa. I reclami degli elettori avversarî potrebbero essere accolti dalla giunta delle elezioni. In tal caso, l’onta e lo scorno della proclamazione dell’avversario, o l’annullamento colle ansie tormentose, le angoscie, le brighe umilianti di una nuova, rovinosa lotta elettorale.

Qual demone lo invase?

Pensoso stette a riguardare dal cristallo appannato la fuga vertiginosa dei campi, che al rapido passaggio del treno sembrava precipitassero in abissi invisibili.

I gelsi nani, le quercie, i pioppi giganteschi denudati del loro fogliame, Briarei fuggenti colle braccia al cielo in atto di maledire, gli sfilavano innanzi come fantasmi, fantasticamente veloci. Corteo infinito, fiancheggiato dalla filata interminabile dei pali telegrafici inseguentesi senza posa per abbattersi al suolo, quali raggi di una immensa ruota della quale non veggasi che la sommità. Tratto tratto, ad interrompere la desolante monotonia, un casello di cantoniere, sparito appena intraveduto, qualche stazione di terz’ordine, negletta dall’aristocratico diretto, che senza rallentare l’attraversa ululante.

Cinque minuti di fermata a Voghera e la corsa fu subito ripresa. Frattanto abbujava.

[19]

Il tramonto di una giornata di nebbia non si descrive, è il funerale della natura; nulla di più rattristante, e le fantasticherie del conte Giuliano si facevano tetre; ormai gli pareva indubitabile l’annullamento della propria elezione, avvenuta realmente in condizioni troppo scandalose, ne conveniva.

— Come ritornare a Miralto dopo tale affronto? Bisognerà esulare, sarei lo zimbello del collegio. Il giornale avversario, il Ventriloquo, mi metterà in ridicolo ad ogni numero... Le minaccie di processi per corruzione... E colle recriminazioni dei nemici, le condoglianze degli amici! Andremo a vivere a Milano... Giuro di non ricaderci mai più! Addio politica. Vivremo felici... Felici?!

«Si potrà essere felici, dopo un sì grave disastro morale?

«No! no! Il dado è tratto, sono deputato e deputato sarò, dovessi mettere il mondo sossopra. Se la giunta annullerà l’elezione, rimarrò sulla breccia, al mio posto di combattente... La vedremo! Sarò rieletto, dovessi rovinarmi, dovessi costruire a spese mie gli argini ed i ponti promessi dal Governo per favorire la mia candidatura. Meglio la rovina economica del fallimento morale!........ E dire che soltanto venti giorni fa non ci pensavo neppure!

***

Il rimpianto dell’onorevole Sicuri si apponeva al vero; l’idea della deputazione non gli era mai frullata pel capo, neppure nelle fantasticherie giovanili di gloria, anche allorchè il suo amico, più che amico fratello, un fratello maggiore... di vent’anni, allorchè Ettore Ruggeri, vigente lo scrutinio di lista, fu l’eletto della minoranza, Giuliano non sentì alcuna velleità parlamentare per l’avvenire. È vero, bensì, che il deputato Ruggeri [20] alle prime delusioni si era ritirato dalla Camera, non volendo saperne altro di rielezione. La prova gli era bastata ed i consigli suoi al giovane amico non furono certo incoraggianti a tentare la sorte delle urne, allorchè Giuliano avrebbe coi trent’anni raggiunta l’eleggibilità.

Il destino volle altrimenti. Sullo scorcio dell’ottobre, il conte Sicuri ricevette la visita del sottoprefetto, il quale, scusandosi dell’ora indebita, le nove del mattino, disse dovergli fare una comunicazione di somma importanza.

— Una comunicazione di somma importanza a me? chiese meravigliato Giuliano.

— Precisamente, a lei... Non si impensierisca. Le sono buone notizie, tanto che non volli tardare a comunicargliele. La fortuna vien dormendo, ed io ho sollecitato per recargli la buona novella al suo svegliarsi, soggiunse con fare malizioso lo sperticato funzionario.

Poi, dopo essersi sdrajato in tutta la sua longitudine nella poltrona, cortesemente additatagli da Giuliano:

— Indovini di che si tratta! Gliela do in mille.

E stette sorridente col capo appoggiato allo schienale, in attesa che il suo Edipo sciogliesse l’enimma.

— Metterei inutilmente il cervello alla tortura, perchè davvero non riesco ad imaginare neppur lontanamente di che cosa possa trattarsi, rispose alquanto allarmato Giuliano, il cui volto esprimeva maggiore inquietudine che curiosità. Dica, signor sottoprefetto, dica senza tanti preamboli. Buona o cattiva, la notizia, preferisco saperla subito.

— Mi permetta prima una domanda.

Giuliano approssimò la sedia al sibillino funzionario, aderendo col gesto.

— Non ha ella mai pensato a portarsi candidato alla deputazione?

[21]

— Mai! D’altronde ho compiuti i trent’anni da tre mesi appena... Se mai, il tempo ce l’ho davanti a me.

— Ah, li ha compiuti! Meno male! Ella mi leva una spina dal cuore. Temevo fosse ineleggibile per l’età. Dopo nuova, lunga pausa il sottoprefetto riprese di scatto:

— Se le offrissi la candidatura di Miralto, garantendole con novanta probabilità su cento la riuscita, l’accetterebbe?

— Io?! sclamò Giuliano sbarrando gli occhi, al colmo della sorpresa. Io? Che le viene in mente, signor sottoprefetto? È impossibile! D’altronde non otterrei cinquanta voti.

— Non si preoccupi di ciò. Ai voti ci pensiamo noi.

— Lei sa ch’io sono amico del Bertasi, il candidato radicale; siamo compagni d’infanzia. L’atteggiarmi a di lui competitore, ora che la sua candidatura è posta con tante probabilità di riuscita, sarebbe una cattiva azione.

— In politica non vi sono amici, replicò sentenziosamente il funzionario, accavallando le lunghe gambe, che l’imbarazzavano più che mai, per il livello bassissimo della poltrona. In politica vi sono alleati od avversarî, alleanze o inimicizie temporanee. In politica non vi sono cattive azioni. Creda alla mia esperienza. Nella politica ci sto da trent’anni.

Giuliano, poco edificato dalle teorie del sottoprefetto, preferì non rispondere, ben deciso di non adottarle ad alcun patto. Si limitò a sorridere, diniegando del capo, come per dire: Ella non mi convince!

lì tentatore non si diede per vinto, levò dalla tasca in petto del burocratico palamidone un foglio che porse a Giuliano.

— Un telegramma di Stato diretto a lei, firmato dal ministro La Fossa. Ma, è cifrato, per me è peggio che [22] arabo. Che ci ha a fare in tutto ciò il ministro d’agricoltura e commercio?

Il sottoprefetto gli presentò un altro foglio:

— Quello è il documento originale, questo ne è la traduzione.

Giuliano lesse:

«Commendatore Cerasi, sottoprefetto

«Miralto.

«Firmato decreto destituzione sindaco comune Roncallo per indebita ingerenza elettorale, avendo raccomandato candidato radicale.

«Urge contrapporre subito candidatura Sicuri, per informazioni assunte persona gradita. Intendasi prefetto. Garantisca nome mio deposito Stalloni, prometta intangibilità pretura, arginatura domandata.

«Ministro La Fossa

— Che vuol dire tutto ciò e come mai posso essere io gradito al Governo, io, che pur astenendomi dalle lotte politiche, ho sempre e notoriamente professate idee democratiche?... E come c’entra il ministro d’agricoltura in materia di elezioni?

Il funzionario tentatore non potè trattenere un sorriso di compatimento. Paternamente soggiunse:

— Si vede, signor conte, che ella si è completamente disinteressato della politica, altrimenti saprebbe che il ministero attuale è eminentemente democratico. I voti trionfali delle ultime sedute precedenti lo scioglimento della Camera, segnarono la ricostituzione della Sinistra. Il ministero è più radicale di lei, signor conte. Non badi agli uomini, veda i programmi, e il programma ministeriale è: non imposte, pareggio colle economie, democratizzazione della finanza, discentramento amministrativo, [23] guerra ai moderati... Reazionarî, continuò il sottoprefetto per conto suo, i quali con astuta simulazione ostentano liberalismo maggiore di quello della nuova antica sinistra storica.

— In tal caso, perchè combattere con tanto accanimento il candidato Bertasi, il quale è pure un radicale; perchè destituire il sindaco di Roncallo, colpevole di averlo appoggiato?

— Apparenti anomalìe elettorali, le quali hanno la loro ragione, la loro logica, nelle anomalìe parlamentari. Se in alcuni casi è necessario tener conto de’ programmi e non degli uomini, in altri, viceversa, bisogna trascurare i programmi di quegli uomini, che ci sono o ci possono essere utili, e che apertamente o in segreto ci servono. Per un Governo intelligente il deputato non è che un voto. Il programma per gli elettori non conta, quando il voto sia assicurato al Governo. Vi sono radicali e radicali. Un eminente uomo di Stato li distinse in migliori e peggiori. Migliori quelli che votano per il Governo; necessariamente i peggiori sono gli altri, i quali, rinnegando le loro origini, non sdegnano votare colla opposizione di destra, contro il ministero.

— Io dovrei schierarmi coi migliori.

— Certamente! Con termine più moderno, ma non meglio appropriato, fra i legalitarî, un vivajo di sottosegretarî di Stato, un semenzajo di ministri. L’avvenire infatti deve essere dei legalitarî, continuò il sottoprofetto non senza lasciar trasparire un zinzino d’ironia. Pochi, ma buoni. Affermandosi radicali conservano la popolarità in piazza; ministeriali, hanno l’appoggio ed i favori del Governo; legalitarî, cioè nella legge e per la legge, sono benevisi a corte, garanzia il loro ossequio allo Statuto, legge fondamentale, alle istituzioni, alla dinastia.

[24]

— Dunque il competitore Bertasi?

— Dei peggiori! Votò colla destra contro il ministero nella passata legislatura, si ostina a dirne male ne’ proclami e nei discorsi; necessario, quindi, eliminarlo. Ecco perchè le propongo la candidatura di Miralto a nome del Governo.

— Del ministro di agricoltura, che mi pare dovrebbe entrare come i cavoli nelle cose elettorali.

— Ella è nell’errore. Anzitutto i depositi stalloni dipendono da lui, e per Miralto è questione di somma importanza. Il ministro La Fossa, poi, è uno specialista distintissimo in materia elettorale. Se non è ministro dell’interno gli è perchè quel dicastero, a cui era designato, se l’è voluto serbare il presidente del Consiglio; ma, le elezioni furono a lui affidate, sono da lui preparate. Egli è il perno su cui si aggira il suffragio universale, lui la molla della volontà del paese.

Il sottoprefetto sorrise ammiccando co’ piccoli occhî grigi sormontati dalle folte sopracciglia.

— Vede? il telegramma non passa neppure per la via gerarchica del prefetto! E se il ministro telegrafa direttamente a me, è perchè il ministro sa quello che si fa.

«Gli uomini dalle economie vorrebbero abolire le sottoprefetture!! Sarebbe come se nell’esercito si volessero abolire i sottotenenti ed i luogotenenti, per aver soltanto dei capitani. Se ne accorgerebbero il giorno della battaglia.... Le nostre sono battaglie elettorali.

«Col sistema rappresentativo, caro conte, i gregarî alla difesa delle istituzioni siamo noi... Combattiamo senza gloria e senza compensi... E di morti non ne lasciamo pochi... nelle crisi ministeriali.

Riscaldandosi, il sottoprefetto con un gran sospiro continuò:

— Ero alla vigilia di essere nominato prefetto; venne [25] il 18 marzo 1876, e dalla Sinistra fui sbalestrato in Sardegna, poi in Sicilia; nomade per dieci anni come uno zingaro, sottoprefetto a vita, pure servo con eguale amore la Sinistra che mi ha rovinato... È vero, soggiunse con un sorriso maligno, che rovina anche l’Italia!

Il commendatore, avvedendosi di aver detto troppo e di aver dimenticata nella foga delle recriminazioni la sua missione, si arrestò osservando con trepidazione l’interlocutore, che a sua volta appariva turbato alle indiscrezioni del poco diplomatico ambasciatore.

Giuliano stava per parlare, quando il commendatore, sorgendo di scatto da sedere, si svolse in tutta la sua lunghezza ed in atto di congedarsi soggiunse:

— Signor conte, non sono tanto indiscreto da pretendere una risposta immediata. Rifletta; abbiamo tempo sino a domani. Venni io stesso da lei, ma è bene non mi vedano. Gli avversarî potrebbero indovinare lo scopo delle mie visite... La aspetterò al mio ufficio fino alle cinque pomeridiane... Ma, non più tardi di domani...

E senza lasciar tempo a Giuliano di aggiungere parola, si accommiatò, accompagnato fin sullo scalone dall’ospite, che non seppe formulare un rifiuto immediato o reciso, come avrebbe voluto.

— Avrò modo domani! pensò.

Per conto suo il commendatore Cerasi se n’andò punto contento di sè.

— Lo affrontai troppo brutalmente prima, ho chiacchierato troppo dopo. Se avessi insistito per una risposta immediata, sarebbe stata negativa. La notte porta consiglio e domani si arrenderà a discrezione. Lo conosco il conte, l’incertezza in persona... Ha gli occhi azzurri come le bambole di Parigi; tutti così gli uomini dagli occhî cerulei.

«Se rifiuta, è un disastro. Ove trovare altro candidato [26] che possa avere la minima probabilità di riuscita?

Rientrando, il sottoprefetto fu affrontato dalla sua metà.

— E così?

— Il tuo candidato non sembra entusiasta della nostra proposta.

— Rifiuta?

— Oggi avrebbe rifiutato... Non gliene ho lasciato il tempo... Domani assentirà.

— Se ne parla a sua moglie, vi si opporrà. La conosco quella smorfiosa. Cadrà in isvenimento al solo accenno di dover separarsi per un giorno dal suo Giuliano. Bisognava strappargli subito l’assentimento, subito e per iscritto.... Già, ti ci sarai preso a rovescio. Per farti merito gli avrai mostrato il dispaccio del ministro... Bisognava parlare in nome di un gruppo di elettori, l’assentimento del Governo doveva venir dopo.

Il lungo funzionario chinò il capo senza osare replica; la sottoprefettessa misurò con sguardo compassionevole in tutta la gigantesca statura il marito:

— Un uomo politico tu? Decisamente di uomini politici non ci siamo che noi donne! Morirai sottoprefetto. L’avrai voluto, bene ti sta!

— Ti dico che accetterà, credilo a me. Alla contessa non ne parlerà. Se avesse avuto realmente intenzione di rifiutare non avrebbe aspettato fino a domani. La proposta di una candidatura non è mica di quelle che si buttano via così a cuor leggiero, quando si hanno trent’anni ed i quattrini per sostenerla.

— È ciò che vedremo... E se accetta, il signor Bertasi l’avrà a fare con me, sclamò la sottoprefettessa alzando il pugno in atto di minaccia contro un nemico invisibile. Io sarò una lavandaja; ma lei sarà un candidato bocciato!

[27]

Il domestico annunziò pronta la colazione, i due conjugi passarono nella sala da pranzo e si assisero al desco meditabondi. Dopo un istante la sottoprefettessa ruppe il silenzio.

— E se non accetta?

— È a ciò che pensavo anch’io.

— Subito un altro candidato! Bisogna trovarlo.

— È presto detto! Di candidati pronti ce n’è a carra. I candidati possibili sono rari come le mosche bianche. Un candidato ricco, per di più, perchè il Governo non può o non vuole spendere. E poi, lo sai, a Miralto, escluso il radicale, non può riuscire che un nemico del Governo: a noi occorre un legalitario. Il conte Sicuri colla sua indole mite, le costanti incertezze è un legalitario nato... Gentiluomo, non sarebbe ingrato verso di me se ottenessi di farlo eleggere. Il candidato ideale.

— Ora lo dici. Tu non ci avresti pensato, dovevo trovartelo io.

Il sottoprefetto chinò il capo sul piatto, non osando contraddire la consorte, messa di malumore dalla incertezza.

***

In quella stessa ora Giuliano mentiva, la prima volta, alla sua Adele.

Per appagarne la curiosità sulla visita mattutina del sottoprefetto, le disse trattarsi di una serata di beneficenza organizzata dalla moglie di lui...

Giuliano aveva arrossito e si era impappinato raccontando la fiaba.

Adele non insistette; ma, fissando gli occhioni cupi in quelli di Giuliano, che abbassò lo sguardo, parve gli dicesse:

[28]

— Perchè tenere segreti con me?

Muto rimprovero e perdono ad un tempo.

— Vi sono affari nei quali noi donne non dobbiamo immischiarci, pensò. Pure, quale necessità di mentirmi? se la sottoprefettessa avesse voluto raccomandare la imaginaria serata si sarebbe rivolta a me. Ci vediamo tanto di frequente.

Ben presto Adele seppe la verità; non da Giuliano. Dalle amiche, dai famigliari, chè tutta Miralto era tappezzata da manifesti raccomandanti la candidatura di suo marito.

Quindici giorni dopo, il presidente dei presidenti delle sezioni elettorali proclamava eletto il conte Giuliano Sicuri.

In quella breve lotta, lotta dell’ultima ora, erano rimasti sul terreno, col candidato Bertasi, quattro sindaci, tre consigli comunali al completo; in compenso erano state largite cinquanta croci di cavaliere della corona d’Italia, decretata l’arginatura tanto invocata dai miraltesi, ed una benefica pioggia di biglietti di banca aveva confortato molte miserie e rallegrato tutti gli osti del collegio. Qualche coltellata la sera precedente l’elezione, ma neppure un morto. Pochi vetri rotti, pochi perchè l’intervento de’ carabinieri fu pronto ed energico. Non un arrestato fautore del candidato del Governo; la legge è eguale per tutti, specialmente nel periodo elettorale!

La vendetta della sottoprefettessa era compiuta, e quanto accanita la lotta, altrettanto clamorosa la vittoria, sì clamorosa che gli entusiasmi parvero universali... Ma, quale strascico di odî nei sopraffatti, al successo ribelli!

[29]

CAPITOLO III. In viaggio.

Il diretto 61 che portava seco il deputato Sicuri arrestavasi a Novi per congiungersi col treno proveniente da Torino. Giuliano stava componendosi il letto per la notte, già fitta ed ancor più fitta per la densa nebbia, allorchè alcuni viaggiatori, inavvertito il cartello appeso alla maniglia della portiera, fecero atto di salire nel di lui compartimento.

— Riservato! disse Giuliano.

— Riservato! gridò il conduttore.

— Accidenti ai deputati, sclamò uno dei viaggiatori di cattivo umore e, indispettito, gettò a terra le due valigie che portava a mano. Sono cinquecento ed ingombrano tutti i treni come so fossero diecimila!

— Viaggiano a ufo! soggiunse un altro.

Il conduttore pose fine ai piati de’ malcontenti, chiudendo rumorosamente la portiera del riservato, ed appollajando alla meglio i sopraggiunti in un altro carrozzone.

— Vedono, che c’è posto per tutti! soggiunse.

Giuliano non si era per nulla irritato alle apostrofi scortesi... Anzi sorrise lusingato. Finchè era rimasto a Miralto non si era reso conto della sua nuova situazione. L’elezione gli era sembrata un sogno. Da quel momento si sentì realmente deputato, come se la giunta dell’elezione lo avesse già convalidato.

Quell’incidente mutò corso alle idee tetre che gli avevano ingombrato il cervello fin là. Sdrajandosi lungo il sedile fra gli scialli:

[30]

— Deputato, mormorò... Deputato!

Se la cortina non fosse stata tirata sul cristallo della lampada, un testimonio avrebbe potuto sorprendere sulle labbra di Giuliano un sorriso fatuo di soddisfazione.

— Uno dei cinquecento! Cinquecento appena su trenta milioni di abitanti! La più alta magistratura, colla carriera spalancata a tutti gli onori, a tutte le cariche... Perchè no? Col tempo ministro! Presidente del Consiglio... Pochi hanno incominciato presto come me... Povera, buona, gentile Adele! Ministressa... Rinverrà dalle sue ubbie!

«La Camera è sovrana, ognuno di noi rappresenta una frazione della sovranità in Parlamento; inviolabili, onnipotenti nei nostri collegi; rispettati, riveriti, temuti dalla burocrazia. Emanazione diretta del suffragio universale, quale posizione sociale più elevata della nostra? E poi i larghi orizzonti, l’esistenza gaja e animata della capitale, invece di intristire nella noja, fra i pettegolezzi di una piccola città di provincia... E dire che fui incerto nell’accettare... Al primo discorso mi imporrò... Al primo discorso! Un brivido gli corse per l’ossa... Il primo discorso!

L’artista di teatro esordiente, il giovane avvocato alla vigilia della sua prima arringa, il liceale al suo ultimo esame per il passaggio all’università, il laureando alla tesi finale da pronunciarsi nell’aula magna dell’ateneo, sono certamente meno preoccupati del deputato neo eletto al pensiero del suo primo discorso alla Camera.

Quanti ingegni fallirono in Parlamento alla prima prova! Quanti non osarono tentarla, schierandosi nel grosso battaglione dei deputati muti, comparse che votano.

— Il primo discorso! Mi affiaterò ben bene. Lo pronunzierò solo quando sarò ben sicuro di me!

[31]

La vaporiera frattanto, muggendo, ansando con frastuono di terremoto si inabissava nelle viscere dell’Appennino, per sbucare pochi minuti dopo nel versante opposto, dalle alture della ridente valle Polcevera.

Quale spettacolo gli si presentò improvvisamente!

Dall’opaco, umidiccio nebbione, lasciato addietro, a Mignanego, a Ronco, nella valle Scrivia, colla rapidità di un mutamento di scenario in un ballo del Manzotti alla Scala, era passato alla più serena e tepente fra le notti autunnali.

— Ecco finalmente il cielo d’Italia! pensò Giuliano, mentre abbassava il cristallo per ammirare dalla vertiginosa altezza del superbo viadotto il panorama della valle, con magnifici palazzi e ville, ingemmati da miriadi di lumi, giù, giù, fino a Sampierdarena ed al mare.

In quella stagione, a quell’ora, era luminosa la terra quanto il cielo tempestato di stelle.

Nuove importune gallerie, entro le quali precipitavasi la vaporiera, e nuovi incanti di vedute all’uscita dalle tenebrose caverne.

Sampierdarena!... Nuovamente un tunnel, poi ad intervalli, fra i fitti edificî costrutti alla spiaggia, la vista della Superba e del porto splendente, come per una festa veneziana notturna; la foresta fitta degli alberi de’ navigli, e il treno entrava trionfalmente in stazione.

Venti minuti di fermata! Ne approfittò Giuliano recandosi al telegrafo e sul modulo presentatogli dall’impiegato scrisse:

«Ex deputato Ettore Ruggeri — Montecitorio,

«Roma.

«Arriverò domattina 6.35. Aspettoti colazione albergo Quirinale. Abbraccioti.

«Giuliano

[32]

Appena il tempo di correre al ristorante per trangugiare, bruciandosi il palato nella fretta, una tazza di caffè, di ritornare al riservato, rispettato stavolta senza proteste, ed il treno, uscito a ritroso dalla tettoja cieca, si sprofondò nuovamente nelle tenebre di una galleria, saturata di fumo, come il cratere di un vulcano in eruzione rumoreggiante. Alla stazione Brignole; l’aria aperta e daccapo il sereno, il mare, il cielo scintillante, il porto illuminato, le strida de’ piroscafi manovranti, il faro della vecchia lanterna dagli sprazzi di luce intermittenti, inutile guida ai naviganti, in quella notte luminosa.

I pensieri di Giuliano si facevano ridenti, pure parve pentito di aver spedito il telegramma.

— Quale necessità, pensava, di telegrafare proprio a lui! L’avrei egualmente riveduto alla Camera, ritardando la paternale che mi farà certamente per il mio programma ministeriale. Ormai non c’è rimedio!

E si riavvoltolò fra gli scialli, per cadere in letargo, che non era sonno, dormiveglia rassomigliante al sopore prodotto dall’hascis, una specie di sonnambulismo, colla percezione vaga della realtà.

Dormiva, sognava avendo coscienza del suo essere.

Sognava le cose più bizzarre: lui ritto al suo banco di deputato, difendendo eloquentemente la propria elezione contestata, e il presidente che imponevagli silenzio, scotendo un’enorme campana che rintoccava a morto. L’aula gremita di colleghi rumoreggianti, spaventosamente sfigurati... come l’Uomo che ride di Vittor Hugo. Un incubo orribile! I due ritratti marmorei di re, sovrapposti al banco presidenziale, movevano il capo a guisa di figurine chinesi, e Giuliano non comprendeva, se per assentire o diniegare. E su, su, presso la tettoja, fra le nuvole, come Madonna aerante in un quadro rappresentante il martirio di un santo, la visione della sua [33] Adele, però, non benedicente e promettente la beatitudine nella eternità, le gioje del paradiso, come le Madonne dei quadri sacri; pallida, corrucciata, era la più commovente e squisita imagine del dolore.

Con uno sforzo di volontà, Giuliano si sottrasse all’incubo opprimente rizzandosi in piedi. Riavendosi, infinita la gioja al pensiero che non era stato che un sogno.

Abbassato il cristallo, si riaffacciò allo sportello respirando a pieni polmoni la brezza notturna.

La vaporiera correva a precipizio sulle alture dominanti il golfo della Spezia. Il mare era fosforescente come il cielo tutto azzurro e argento.

— È il caffè preso a Genova che mi ha dato l’incubo, pensò, tentando dissipare il malessere morale lasciatogli dal sogno.

Preferiva farne colpa al caffè, per non convenire dello stato d’animo suo, ingombro di incertezze e di tetri presentimenti.

La successione continua, importuna di buje e fumose gallerie, lo costrinse a ritirarsi rialzando il cristallo; ma, temendo nuovi sogni, tolse il paralume alla lampada disponendosi a leggere i giornali comperati alla stazione di Genova.

Il Parlamentare di Roma intonava inni entusiastici di vittoria per conto del Governo, riuscito trionfante nella prova elettorale; fra le elezioni governative, citata quella di Miralto, e l’eletto, conte Giuliano Sicuri, dal giornale era già ascritto al gruppo dell’Estrema dissenziente, con molti altri nomi di noti democratici.

— Aveva ragione il sottoprefetto, pensò Giuliano, il solo gruppo che mi conveniva era il dissenziente legalitario. Il nostro programma è democratico quanto quello degli intransigenti, non fa una grinza, una sola divergenza; noi voteremo per il Governo ed essi voteranno [34] contro; del resto, egualmente liberali, egualmente democratici, non abbiamo differenza che di metodo. Come mai Ruggeri potrà accusarmi di incoerenza se con me vi sono tanti tribuni celebrati fra i più strenui difensori dei diritti del popolo?

«Incoerenti gli altri, i quali sedendo in un Parlamento monarchico, combattono le istituzioni, in virtù delle quali sono investiti dell’altissimo mandato e le instituzioni giurarono osservare, difendere.

Tranquillata la coscienza coi sofismi del commendatore Cerasi, passò all’altro grande giornale romano. L’Ordine recava fra le ultime notizie un telegramma da Miralto, col quale molti elettori non firmati protestavano indignati contro le mene del candidato battuto, ex deputato Bertasi, «il quale va raccogliendo, anzi estorcendo, nel collegio firme di protesta contro le pretese ingerenze governative in favore dell’elezione del conte Sicuri.»

Il telegramma soggiungeva:

«Nessuna elezione fu più spontanea e meglio accolta di questa. Lo provano i sinceri, quasi unanimi entusiasmi salutanti la vittoria del nostro deputato, il quale rappresenta per davvero tutta la parte sana della popolazione del collegio.

«Se la prevalenza dei voti non fu grande, lo si deve al partito del disordine, che estorse voti colle minaccie nelle campagne terrorizzate, come oggi le firme a protesta contro il risultato dell’elezione.»

Giuliano raggiò di gioja alla lettura, come se non avesse già prima conosciuto, colle origini, il testo del dispaccio. Ma il giornale avrebbe potuto rifiutarsi alla pubblicazione; ormai era impegnato ed era da credere lo avrebbe sostenuto anche davanti la giunta delle elezioni.

[35]

— L’Ordine, gli aveva detto il sottoprefetto, è un alleato indispensabile, onnipotente: fa la pioggia ed il bel tempo. Nulla avviene contro e senza di lui... E poi, con chi sa essere generoso, aveva soggiunto il lungo funzionario, sottolineando con un cinico sorriso la raccomandazione, è anche fedele. Bisogna però avere la cura di non lasciarsi sorpassare da altri in generosità. Il Parlamentare, invece, è temibile per il male che può fare, troppo eclettico, non ha influenza seria; non ha amici, perchè ha tradito tutti, ma non è per questo più facilmente abbordabile alle piccole borse. Sull’amico non potendo contare, bisognerà cercare di non averlo nemico... questione di quattrini...

— All’Ordine mi recherò domani, pensò Giuliano, al Parlamentare porterò una carta da visita, come agli altri giornali tutti. Poi, vedremo! Ah! se Ruggeri volesse ajutarmi. Mi accuserà di apostasia e se ne laverà le mani. Lo conosco, il testardo!

Fantasticando sottosegretariati e portafogli, si riaddormentò per non svegliarsi che ai primi crepuscoli dell’alba, i quali illuminavano il deserto preannunziante la capitale.

Il deserto da Grosseto a Civitavecchia, da Civitavecchia a Roma.

Pure quale spettacolo ai bagliori dell’aurora, la sterile, monotona pianura!

Nella interminata distesa, che col mare si confonde, le ondulazioni del terreno vi sembrano marosi pietrificati dal tempo, forse dalla maledizione delle divinità bandite. La malaria sovrana e la desolazione. Alla spiaggia, sentinelle di pietra rovinanti, le torri medioevali poste in vedetta contro le scorrerie dei defunti Saracini... Un turrito castello e poi nulla... pochi alberi e l’orizzonte infinito. Nessuna traccia della operosità umana. [36] Solo segno di vita, rare mandre di cavalli, di bovini guardate dal buttero dal brigantesco cappello acuminato, dalla lunga lancia; immobile, quasi statua equestre di un leggendario Gasparone.

Branchi di pecore, che brucando marciano lentamente, compiendo il loro annuo pellegrinaggio dalla montagna arida e brulla alla sterile pianura, e null’altro.

La vaporiera corre rapida, senza soffermarsi alle rare stazioni, nel deserto perdute, come oasi avvertite dal verde fogliame di pochi eucalipti malinconici; corre a precipizio salutata dai latrati dei cani, guardiani di greggi, dai febbricitanti cantonieri che con mano tremante reggono i guidoni d’avviso, accompagnata dallo sguardo attonito del bove dalle lunghe corna, filosoficamente ruminante.

Contrasto, un cielo cristallino, tutto azzurro, il mare scintillante come d’acciajo brunito e il sole roseo splendente dalle vette del lontano Appennino, festa di luce e di colori, sul cimitero desolato di ville e città, di portentosi ricordi.

Chi mai colla imaginazione potrebbe ricostruire ciò che fu quel deserto? Ove bruca la capra e nitriscono i puledri selvaggi, fra città monumentali, ferveva la vita degli accampamenti romani, là si addestravano le legioni, sorte al percotere del piede del consolo; là si apprestavano le spedizioni alla conquista del mondo.

E le spiaggie, ora inabitate, brulicanti, eran tutto un cantiere; da quelle spiaggie si sposavano al mare le galere rostrate vincitrici di Cartagine! Oggi neppur le rovine, che dico? neppur la leggenda di tanta grandezza. Da Civitavecchia al Tevere, neppure un rudero richiama l’attenzione del viaggiatore. Anche la leggenda esulò, colle popolazioni fuggenti la vendetta dei barbari. La leggenda si è spenta... Il pastore vi canta su [37] ritmi orientali la Gerusalemme Liberata; i nomi soltanto delle località rammemorano qualche volta le grandezze antiche, non dal popolo ricordate, esumate pazientemente dall’archeologo.

La locomotiva al ponte mobile di San Paolo rallentò ululando con furore, onde preavvisare l’arrivo del treno, chiedere la via e provocare il segnale.

Il Tevere, Roma!

Giuliano ancor memore de’ studî classici, delle impressioni della sua prima visita en touriste nella Città Eterna, ebbe un palpito d’entusiasmo scorgendo da lungi, illuminate dal sole nascente, le mura dirute, le rovine sparse per la campagna, le lunghe file di archi dei ciclopici acquedotti, ossami della grande defunta; rottami dell’immenso naufragio, rigalleggianti dopo tanti secoli, protesta della morta contro il succedersi di nuove Rome, ricostrutta sulle e colle macerie de’ monumenti, dei templi, dai secoli, dal ferro dei barbari, dalle nuove divinità distrutti. Varcato il ponte in ferro, provvisorio da tanti anni, rovina anch’esso, il treno girò intorno alle antiche mura, e attraversata la via Appia, necropoli grandiosa, dominata dalla tomba di una donna, fortezza merlata, quasi a guardia delle tombe de’ Scipioni, il treno entrava trionfante in stazione.

[38]

CAPITOLO IV. Roma!!

Lo sportello si spalancò e, prima ancora che Giuliano avesse raccolti gli oggetti sparsi sui cuscini e nelle reti del compartimento, due facchini l’avevano invaso, impossessandosi l’uno delle valigie, ajutandolo l’altro a riporre nel portamantelli, alla rinfusa, ogni cosa, a serrarne le cinghie.

Sceso, Giuliano, fece un gesto di sorpresa, di lieta sorpresa da prima, turbata subito da una riflessione dispettosa. Fra gli scarsi aspettanti l’arrivo del diretto, aveva distinto la figura aitante e marziale dell’amico suo, Ettore Ruggeri. Appoggiato ad una vetrata delle porte arcate di uscita, Ruggeri non era in atteggiamento di attesa; piuttosto, all’aria distratta, uno sfaccendato entrato in stazione per ammazzare il tempo. Sembrava non si fosse nemmeno accorto dell’arrivo del diretto. Urtato dai viaggiatori che, carichi di valigie, seguiti dai facchini curvi sotto i bagagli, si affrettavano, pigiandosi all’uscita, Ruggeri, richiamato alla realtà, si trovò di fronte al giovane amico, che abbracciò con effusione.

— Dunque deputato tu pure, mio povero Giuliano? Toi aussi dans cette galère! E la tua Adele, il tuo piccino... e... e...

Ruggeri avrebbe voluto pronunziare un nome, si arrestò titubante...

[39]

Giuliano, che, in cambio dell’affettuosa accoglienza, aspettavasi una sfuriata di recriminazioni, si sentì sollevato da un gran peso e riabbracciò l’amico con maggiore affetto, riconoscente d’essere stato risparmiato.

— Tutti, tutti bene... Tutti! soggiunse accentuando con intenzione... Anche la signorina Gabelli. E tutti ti salutano e ti vogliono a Miralto con me, al mio prossimo ritorno.

— A Miralto!? ripetè Ettore, scotendo il capo, malinconicamente diniegando...

S’avviarono alla ricerca dell’omnibus dell’albergo del Quirinale.

— Siamo a due passi; puoi lasciare le valigie e lo scontrino del baule al conduttore; andremo a piedi se non sei troppo stanco.

— Non domando di meglio... La splendida mattinata! Un salto dalla nebbia nell’azzurro...

Ed al conduttore, collo scontrino, porse un telegramma.

— Fate portare il bagaglio al numero 11, che, come vedete, è stato destinato a me.

Passando il braccio sotto quello dell’amico, soggiunse:

— La mia Adele ha voluto che occupassi il numero 11, sai, il salottino e la camera da letto, a pian terreno, il nostro nido di sposi novelli. Dice che in quella cameretta la ricorderò più spesso. Capriccio gentile che mi sono affrettato a soddisfare... A proposito, le ho promesso di telegrafare subito. Le annunzierò, col mio arrivo felice, il tuo incontro fortunato.

— C’è un ufficio telegrafico qui di faccia, sotto i portici; la trasmissione sarà più rapida che dall’ufficio ferroviario; ti aspetterò al vicino caffè... Non dimenticare i miei saluti.

— Per tutti?

Ruggeri non rispose, e Giuliano, temendo di aver indispettito [40] l’amico coll’insistenza importuna, tacque imbarazzato. Dopo una breve pausa:

— E tu, Ettore, hai voluto spingere la cortesia fino ad alzarti a queste ore provinciali, per venire ad incontrarmi. Davvero sono dolente di averti prevenuto del mio arrivo. Tu, tu, nottambulo, alla stazione a quest’ora!

— Oh, non mi devi ringraziamenti. Soffro d’insonnia, abito qui, in via Cavour, e il diretto di Milano mi sorprende spesso sotto la tettoja della stazione, ove vado a bere il caffè mattutino. Venti centesimi d’ingresso e posso illudermi di essere a mille miglia da Roma. Tutte le stazioni di ferrovia si rassomigliano, e trovo modo, essendo a due passi da casa mia, di convincermi di essere lontano da Roma, colla scelta fra il Cairo e Pietroburgo, fra Parigi e Londra, fra Londra e Calcutta.

«Più o meno grandiose, più o meno pulite (quella di Roma è certamente la meno) più o meno animate, le stazioni si assomigliano tutte, come i carabinieri, i negri, i preti ed i cani barboni.

«Viaggio senza muovermi, colla imaginazione riprendo le mie peregrinazioni, nelle spire di fumo della sigaretta rivedo lontani orizzonti, rievoco i ricordi de’ miei viaggi, fantastico di spedizioni future... Quanti drammi, quanti idillî si rivelano all’osservatore nel via vai dei viaggiatori di una grande stazione! Il bel romanzo che potrei scrivere se scrivere sapessi!

Giuliano sorrise... Dopo breve pausa, fissando in volto il vecchio amico, come per assicurarsi che parlava da senno, tanto gli pareva mutato dall’antico gioviale tutore:

— Scrivere! Non sai scrivere tu, che conti volumi a diecine?

— Scrivere! E chi non sa scrivere? Altro è la prosa da me scodellata alle società geografiche, narrazioni di [41] viaggi, statistiche, osservazioni geologiche, etnografiche, idrografiche... altro un lavoro d’arte!

«Se sapessi esprimere ciò che fantastico, comporrei certamente un capolavoro.

Ed arrestando l’amico sulla soglia dell’ufficio telegrafico, non avvedendosi della di lui impazienza, desioso com’era d’inviare subito il saluto alla sua Adele, Ruggeri, come se avesse continuato il monologo interrotto dall’arrivo del treno, soggiunse:

— Tutta la vita sociale moderna mette capo alla stazione di ferrovia. Veicoli i treni di idillî felici, di drammi strazianti, di romanzi pazzi, di gioje, di speranze, di disinganni e dolori infiniti, a tutta forza di vapore delle caldaje ad alta pressione, precipitanti nell’ignoto. Se Lesage tornasse al mondo, non farebbe camminare più come un gatto il suo Asmodeo, sui tetti scoperchiati; lo porterebbe là, sotto la tettoja di cristallo.

Ed afferrando il braccio di Giuliano, quasi temendo gli sfuggisse:

— Non hai pensato, continuò coll’occhio smarrito, che fissava senza discernere, non hai mai pensato, allorchè vedi sballottati indifferentemente dai facchini inconscienti i sacchi delle corrispondenze postali, a ciò che quei sacchi contengono?

«Le urla strazianti di tutto un manicomio in rivoluzione, disperazioni forsennate, sospiri, lacrime, sangue. La cupidigia dell’avaro, le viltà dell’ambizioso, le illusioni dell’adolescente innamorato, i sospiri della fanciulla, baci di amanti, e adulterî, ed estremi addii di suicidi e delitti e inganni d’ogni sorta; menzogne, fors’anco verità ed espansioni felici. Ma, certamente, più sospiri e lacrime e sangue, di sorrisi e canti d’allegrezza.

Ruggeri, rimessosi a braccio dell’amico, lo rimorchiava lontano dall’ufficio telegrafico continuando:

[42]

— Milionari e miseri, tutti, come al cimitero più tardi, si danno ritrovo alla stazione. Carovane di emigranti che per vivere vanno a morire oltre all’Oceano,. esuli della fame; villaggi intieri di deportati dalla spietata tirannia dell’esattore, dalla rapacità dei ricchi. L’ignoto sorride loro e serenamente l’affrontano, incuranti dei disagi e dei disinganni che li attendono, certi che non vi può essere miseria di quella che fuggono maggiore. Vecchî, fanciulli, donne, spesso col sacro peso fra le braccia di un lattante, scortati qualche volta dal curato, pochi robusti lavoratori. Sui loro volti, corrugati dalle fatiche, dalle privazioni, dalla febbre, la rassegnazione. Se ne vanno lieti, senza un rimpianto per la patria matrigna. Se ne vanno curvi sotto il peso delle poche masserizie e dei loro cenci, colle loro superstizioni in cuore, dèi penati. Se ne vanno di treno in treno, caricati e scaricati come bestie da macello, se ne vanno, anelanti al mare, a Napoli, ove finalmente, se non furono traditi dall’agente, potranno imbarcarsi per... per l’autre rive! Ove sia e cosa sia non sanno...

«Convogli di mietitori, mietuti alla loro volta dalla malaria delle Maremme e della Campagna romana, ritornanti al loro natìo Appennino, non meno miseri, non meno infelici di quelli che partono, per non rivederli mai più, i sereni laghi lombardi, le alpi natali.

«Noi, credendo far opera civile, ci studiamo di togliere loro perfino la speranza nei compensi di una vita avvenire, la fede nel loro dio... Opera civile, ma crudele.

«Balzac redivivo completerebbe la sua Commedia Umana alla stazione di Roma, che ha il privilegio sulle altre d’essere visitata ogni anno da duecentomila fra turisti e pellegrini. Visitatori delle rovine pagane e della Mecca cattolica... Oh Balzac! Il grande libro che ti sarebbe serbato, se tu ritornassi al mondo!

[43]

Un gesto d’impazienza dell’amico richiamò il sognatore alla realtà:

— Oh Giuliano! sciamò ravvedendosi, l’insonnia mi esalta come l’alcool, ti trattengo e tu sei sulle spine per l’impazienza di telegrafare...

«Via, affrettati, guadagna il tempo che ti ho fatto perdere. Ti aspetterò laggiù, ai tavolini del caffè, sotto i portici... Vedi? Laggiù!

— Decisamente, Ettore non è piu riconoscibile, pensò Giuliano, mentre scriveva l’affettuoso saluto alla sua Adele.

Dopo brevi istanti raggiungeva l’amico sorseggiante distratto un gran bicchiere d’assenzio diluito nell’acqua.

— Come, ti sei dato a quel veleno? sclamò Giuliano scandalizzato.

— No, non allarmarti... Quando ho le idee tristi, l’assenzio le rasserena, ma non ne abuso. Col lotto, l’assenzio sostituisce per noi l’hascis degli orientali. Il lotto ti apre la speranza alle vietate ricchezze; nell’iridescenza opalina di un bicchiere d’assenzio, per poca imaginazione che tu abbia, puoi intravedere qualche cosa di meglio del paradiso di Maometto...

«Per altro, a te, felice, non consiglio tali rimedi eroici. Essi non valgono che per noi, veterani di una generazione del sentimentalismo morboso, figli di un secolo cominciato nel 1859, finito nel 1870. I tuoi vent’anni in meno ti mettono a riparo dalle nostre peripezie morali. Siete pratici voi; noi non siamo stati che dei sognatori.

«Colpa di Byron, di Musset, di Dumas e di cento altri sommi del secolo d’oro della letteratura francese. Tutta roba che voi disdegnate. Anticaglie! Per essere moderni bisogna parafrasare Orazio e Catullo.

«Eravamo de’ bohèmes e la maggior parte di noi ebbe [44] il torto di rimanere tali. Voi siete nati nel secolo della ragione. Ci vogliamo bene, non ci comprendiamo!

Sì dicendo, quasi pentito della nuova espansione, stese con affetto la mano al giovane amico, che la strinse con effusione. Poi ravvedendosi:

— Tu non pigli nulla? Una tazza di caffè?

— Ora che non c’è pericolo di incubi, la prenderò volontieri, rispose Giuliano, passando la destra sulla fronte, come per scacciare l’importuno ricordo del sogno della notte... Ma, affrettiamoci, perchè, comprenderai, ho mille cose da spicciare.

— È giusto, sei stanco del viaggio, e ti trattengo. Gli è che mi pareva di avere tante cose da dirti... Ma, non ora... Tante domande da farti, sulla tua elezione improvvisa, sui misteri che l’hanno originata.... sugli amici di Lombardia. Oh, Giuliano, io non ti voglio amareggiare la vittoria... Ma, sai come ti qualificava jeri un giornale umoristico? Giuliano l’Apostata!

«E sai quanto durerà questo ministero?

«Forse tre mesi...

«Mi dirai che i ministeri passano e i deputati restano... Il destino ti salvi dalle viltà, dalle miserie di un deputato della maggioranza quand même.

Giuliano bevette il caffè senza rispondere; ed avviatisi, i due amici giunsero all’albergo del Quirinale, quasi senza avere interrotto il silenzio... Appena qualche scambio di osservazioni sulle nuove costruzioni della nuova Roma, sulle rovine nuove dell’Esedra, incompiuta, contrapposta alle millenarie rovine delle terme di Diocleziano.

— A mezzogiorno! disse Giuliano.

— Sì, ad un patto, che domani sarai tu il mio invitato. Ti condurrò sulle alture.... Dall’alto considererai meglio gli splendori e le miserie della città eterna.

[45]

CAPITOLO V. Il sottoprefetto Cerasi e l’amico Ferretti.

Il lungo funzionano di Miralto era stato veramente provvidenziale per il suo giovane protetto. Non solo gli aveva ottenuto il riservato della Mediterranea, favore eccezionale per un neo eletto, ed aveva tempestato i giornali ministeriali della capitale e della provincia di fervorini laudatorî del suo deputato; lo aveva anche munito del viatico di una dozzina di lettere di presentazione per alcune notabilità parlamentari. In gran segreto, per il giovane prelato, monsignor Arrighi, ed una per la contessa Morin, antica ninfa Egeria di un defunto ministro di destra, tuttavia influentissima. Protettrice un tempo dello stesso sottoprefetto, la cui carriera amministrativa, brillantemente incominciata, era stata spezzata il 18 marzo 1876 per l’avvenimento della Sinistra che non gli perdonò i precedenti, un po’ troppo clamorosi, nelle repressioni che illustrarono i ministeri Menabrea e Lanza... rose e fiori in confronto di ciò che la così detta Sinistra doveva fare di poi.

Ma il torto vero del sottoprefetto fu di non avere avuto fede nella Sinistra, e di aver cospirato contro, ravvedendosi soltanto all’inaugurazione del trasformismo di Depretis, il quale, sorpreso dalla morte, non ebbe il tempo di rimunerare degnamente il nuovo san [46] Paolo, convertitosi, invero, un po’ troppo tardi al vangelo trasformista. Ora sperava nella stella di Giuliano.

Giovane, ricco, simpatico, munito, per di più, del titolo di conte, che non guasta anche in piena democrazia, abbastanza spinto per difendersi brillantemente in società, non abbastanza ingegno e carattere per osare di spiccar solo il volo nelle alte sfere.

Lo impensierivano l’avversione della contessa Adele per la politica e l’amore immenso da Giuliano nutrito per la sposa, la quale, o presto o tardi, nel duello fra l’ambizione e l’amore sarebbe rimasta vincitrice. Il sottoprefetto conosceva il suo uomo dagli occhî azzurri, l’incertezza personificata. Bisognava quindi distrarlo da’ suoi affetti di famiglia, eccitare in lui il sentimento della vanità, non abbastanza pronunziato.

Importante quindi, per sorvegliarlo da vicino, essere richiamato da Miralto a Roma, lasciando comprendere a Giuliano, che dalla capitale gli potrebbe essere assai più utile nelle future elezioni. Il sottoprefetto sapeva per esperienza che molti funzionarî si immobilizzarono, rovinando la propria carriera col rendersi necessarî nelle piccole località, nelle quali rimangono relegati in perpetuo per eccesso di zelo. Bisognava quindi instillare a Giuliano, perchè lo provasse al Governo, che la situazione del sottoprefetto di Miralto, dopo l’accanita lotta elettorale e le pressioni esercitate, era divenuta insostenibile. Una volta di ritorno a Roma, il sottoprefetto sentiva la forza di rimanerci e sognava già piantare l’asta negli uffici di palazzo Braschi, come il centurione romano sulle alture del Gianicolo.

Per ciò tutte quelle lettere. Lanciare la sua creatura nel gran mondo politico, ove avrebbe trovato sirene allettatrici, ove la vanità assopita si sarebbe risvegliata, facendosi egli, immeritatamente negletto, vivo a sua [47] volta colle personalità politiche, raccomandando sè stesso colla presentazione del pupillo.

Un’altra preoccupazione del degno funzionario: la intimità affettuosa nella quale erano stretti Giuliano e l’ex deputato Ettore Ruggeri....

Un matto, uno scapato, un misantropo allegro, anomalìa ed anacronismo insieme, ostinantesi giovane a cinquant’anni; dimissionario alla Camera per protesta contro il viaggio di Vittorio Emanuele a Vienna. Ruggeri, intransigente, radicale, amico della famiglia Sicuri, dei parenti e degli amici loro, festeggiato come figliuol prodigo durante le sue rare apparizioni a Miralto, era pericoloso.

La prima battaglia era vinta; ma, ne rimanevano ben altre da combattere, anche senza tener conto del giudizio della giunta delle elezioni.... Un vero gioco di dadi!

E Giuliano, ben lontano dal sospettare di essere perno alle ambizioni del sottoprefetto Cerasi, appena liberato, diciamo così, quantunque egli non avrebbe osato confessarlo a sè stesso, appena liberato dall’importuna compagnia dell’amico Ruggeri, si affrettò a mutar d’abiti e ad ordinare una vettura di rimessa, convinto da buon provinciale che una semplice botte numerata lo avrebbe menomato.

Il sottoprefetto trionfava.

Bisognò attenderla tre quarti d’ora, la tanto desiderata carrozza; frattanto, impaziente, Giuliano percorreva a passi concitati i sei metri quadrati del salotto n. 11.

— Sono le dieci e tre quarti, ho dato ritrovo a Ruggeri per mezzogiorno; in causa del ritardo della maledetta vettura, non avrò tempo di far nulla!

«Finalmente! esclamò quando il boy in berretto [48] gallonato venne ad annunziargli che la carrozza era pronta.

Un grazioso equipaggio. Meglio adatto ad una signora che ad un giovinotto, non monta! Livrea, finimenti, il legno, inappuntabili. Il cavallo, un bel bajo vigoroso, vivace.

Se Giuliano avesse potuto supporre che fino a jeri, da un anno, quella victoria era inevitabile in ogni angolo di Roma, ad ogni ritrovo pubblico, dal Corso a Villa Borghese, alle Capannelle, a Tor di Quinto, dal Pincio a Piazza San Pietro, a tutte le porte delle chiese aristocratiche, agli ingressi di tutti i teatri, sarebbe stato meno soddisfatto.

Equipaggio di una famosa orizzontale, il giorno innanzi salpata da Brindisi per Alessandria, confortatrice dello spleen di un diplomatico inglese, avrebbe poco lusingato l’amor proprio del neo onorevole, il quale, se l’avesse saputo, avrebbe certamente preferito la disdegnata botte numerata.

Poveri provinciali, che cosa possono sapere essi, appena sbarcati nel gran villaggio pomposamente intitolato la Città Eterna?

Inchinato dai due portieri sfolgoranti d’oro, da mezza dozzina di fanciulli in berretto e giubba gallonati, l’onorevole conte Giuliano Sicuri salì in carrozza gettando allo sbarbato cocchiere l’indirizzo del giornale l’Ordine: Via del Bivio.

Il bel bajo si spiccò al trotto serrato scendendo per breve tratto la Via Nazionale, infilando poi l’erta delle Quattro Fontane.

Una mattinata meravigliosa, vie superbe, l’azzurro denso, profondo, quasi cupo, del cielo di Roma, che può rivaleggiare vittoriosamente colle sorprendenti serenità di Napoli, un sole splendido, senza essere molesto; tutto [49] ere festante in quella superba giornata; il cielo, la terre, gli abitanti.

Trent’anni, deputato, sessantamila lire di rendita, la più bella e la più amante delle spose, un bimbo deliziosamente angelico!

Non era una semplice vetture di rimessa la sua, ma il carro del trionfatore corrente rapido sulle ruote della fortuna per le sacre vie di Roma, dell’alma Roma, eccezionalmente popolose in quel mattino, tutto azzurro e luce. Giuliano si sentiva rivivere, come se uscito da una tomba. Lo afferrò al cuore un senso di pietà per gli sventurati, abitanti fra le nebbie della monotona Miralto.

Pensò di lasciarla per sempre, di richiamare immediatamente la famiglia.

— E quel Ruggeri! Sempre brontolone, sempre malcontento, aveva l’aria di rimpiangere la mia elezione. Decisamente invecchia! Invecchia anche lui, l’eterno giovane, e vorrebbe infondere negli altri i suoi rimpianti, le sue malinconie. D’altronde, perchè innamorarsi, il filosofo, alla sua tenera età?

«Vada lui, a Miralto, invece di voler costringervi gli altri. La sua dea è là; perchè rimanere in Roma?

«Povero Ettore! ripensò dopo un istante Giuliano, punto da rimorso per lo scatto di ribellione contro l’amico.

«Ma, alla fin fine, pensava, non era un sentimento perdonabile? Fra loro la distanza di venti anni, la più assoluta differenza di caratteri... E poi quel Ruggeri da qualche tempo era divenuto veramente insopportabile, vedeva tutto in nero, un malato di manìa persecutiva.

La victoria si arrestò al portone del palazzo del giornale l’Ordine.

[50]

Un redattore che stava ad una finestra degli uffici, riconoscendo il noto equipaggio, annunziò burlescamente ai colleghi la visita della contessa Silva, travestita da uomo, con mustacchi biondi. Tutta la banda, sfaccendata a quell’ora mattutina, fu alle finestre e Giuliano scese di carrozza, oggetto alle maligne spiritosaggini di tutto un pubblico giornalistico, ch’egli non avvertiva, nè sospettava.

La contessa Silva si era spesso recata all’Ordine, suo consigliere, complice, patrono ed avvocato il direttore in molti gravi affari e recentemente in un famoso ricatto contro una principessa romana dell’aristocrazia bianca. Si trattava di certe lettere fatte sottrarre dal figlio alla madre, al figlio pagate, parte in amore, parte in contante, e poi presentate, per la restituzione, col conto ingrossato di un centinajo di mila lire.

Una bazzecola! Se ne parlò per due giorni, poi le male lingue furono messe al silenzio da una passeggiata in grande equipaggio, eseguita sul Corso, nella evidente massima cordialità, della principessa col piccino imprudente. Poverino! Il sangue non è acqua! Anch’egli aveva diritto di essere molto perdonato per aver troppo amato... la contessa Silva, che, generosa a sua volta, per l’intervento della questura, dovette accontentarsi del pagamento, senz’altro, della lettera di cambio del figlio col cambio delle lettere private della madre.

Giuliano, guidato dai cartelli affissi alle pareti delle scale e seguendo le indicazioni delle freccie, salì al primo piano, consegnò all’usciere una carta da visita, chiedendo di essere ammesso dal direttore.

— Pazienti un minuto, il signor direttore è in conferenza con S. E. Malagoli e col senatore Settembri; sarà presto spicciato, perche il colloquio dura da più di un’ora.

[51]

E, l’usciere, cortese, certamente sedotto dalla corona di conte, che illustrava la cartolina da visita, gli porse una seggiola.

— Il senatore Settembri, l’influente ex ministro, patrocinatore di tante ferrovie, pensò Giuliano; Sua Eccellenza Malagoli, sottosegretario alla marina! Aveva ragione il commendatore Cerasi, quando mi disse che il direttore dell’Ordine è un ente superiore al Governo, perchè i ministeri sono transitorî, mentre egli rimane inamovibile.

Giuliano, novizzo, ignaro dei compromessi d’ogni giorno nel mondo politico romano e delle abitudini democratiche delle alte notabilità parlamentari, sì gonfie e contegnose in provincia, fu invaso da un sentimento di profondo rispetto.

La inelegante anticamera nuova, come il palazzo, ingombra di mobili vecchî, usati, coperti da stoffe gualcite, gli parve un tempio; un grand’uomo l’usciere, in atto ossequioso, in aspettativa forse di una mancia, che Giuliano non avrebbe mai osato offrire.

L’attesa fu breve infatti. L’uscio sul quale stava un cartello colla scritta a grandi caratteri: Gabinetto del Direttore, si spalancò. Una clamorosa risata a tre inondò l’angusta anticamera, prima ancora che gli esilarati personaggi apparissero.

Giuliano sorse da sedere, osservando con timida curiosità quel triumvirato, sì influente sui destini della patria.

Un vecchio alto di statura, ma curvo, tutt’ossi, in abiti neri mal spazzolati, ampî, troppo ampî per lo scheletro che ricoprivano; calvo, una faccia da faìna, pochi peli sotto il naso, che volevano essere baffi, due occhietti piccoli, incolori, dallo sguardo aguzzo come la punta di un pugnale, Riconobbe il senatore Settembri [52] per la rassomiglianza perfetta colle caricature che gli dedicavano i giornali. L’altro, il sottosegretario Malagoli, aveva l’aspetto piuttosto di un ufficiale di cavalleria in borghese che d’un marinajo, nulla di notevole, una di quelle fisonomie dimenticate mezz’ora dopo la presentazione.

Il direttore dell’Ordine li congedò famigliarmente, trattando col tu il marinajo e con un lei talmente confidenziale il senatore, che si comprendeva accordato all’età, non all’alta situazione del personaggio.

Usciti, Giuliano e il direttore dell’Ordine rimasero faccia a faccia.

Il giornalista, che ormai chiameremo per nome, col nome, almeno, universalmente riconosciuto; il giornalista Ferretti, atteggiato il volto a punto interrogativo, chiese a voce alta, imperativa:

— Il signore, desidera?

L’usciere, accompagnati gli uscenti, tolse d’imbarazzo Giuliano, presentando la di lui carta da visita.

— Oh! il conte Sicuri! Passi! passi! Son dolente che ella abbia dovuto attendere.

— No, no! Non sono qui che da dieci minuti.

— Tanto meglio! sclamò Ferretti porgendogli la mano. Poi facendogli segno di entrare nel gabinetto, rivoltosi all’usciere:

— Non ricevo nessuno! Venisse chicchessia, sono uscito. Ordina la carrozza!

Raggiunto Giuliano nel gabinetto, chiusa la porta con circospezione:

— La sua visita mi fu preannunziata dal commendatore Cerasi, riprese Ferretti assidendosi allo scrittojo, dopo aver porta una seggiola al visitatore.

«Quando è ella giunta in Roma?

— Stamattina.

[53]

— Bene! Non ha perduto tempo. Il commendatore Cerasi l’ha certamente informata della gravità della situazione.

Sì dicendo, il Ferretti, fissava gli occhietti grigi, indagatori, impertinenti, nello sguardo azzurro e languido di Giuliano; sguardo distratto, che sembrava non vedesse, anche allorchè fissava intento.

— Sì. Infatti il commendatore teme assai dalla giunta delle elezioni.

— Si capisce. Se al sottoprefetto di Miralto annullassero le sue due elezioni, sarebbe spacciato. Non basta vincere, bisogna affermare la vittoria.

Con fare importante, di protezione, soggiunse:

— Per altro, della sua convalidazione rispondo io. La giunta, emanazione della maggioranza, è sempre ligia al Governo... Ed il Governo sono io! È una grande istituzione il giornale l’Ordine!

«I consiglieri della corona si mutano, passano, ed io col mio giornale rimango...

Poi, senza lasciar tempo a Giuliano di metter parola, suggiunse:

— Ci tengo ad esser franco... franco, sincero, fino alla brutalità; quindi ella non meraviglierà, signor conte, se incomincio per dove altri finirebbe. Tre elementi occorrono ad assicurare la vittoria: Denaro! Denaro! Denaro! L’Ordine non è un giornale a grandi tirature.

«Io non faccio l’editore; sono giornalista, il giornale non è scopo, è mezzo... E costa un occhio.

«Se avessi curato la speculazione editoriale, non le terrei tali discorsi; allo stato delle cose è meglio intendersi.

Su quel tono il giornalista continuò a discorrere con rapidità vertiginosa, correndo incontro alle objezioni, alle osservazioni, ai possibili commenti.

[54]

— L’Ordine è un avvocato; clienti, coloro che ne invocano il patrocinio. La retribuzione per essere equa non deve misurarsi soltanto all’importanza della causa, anche alla lunghezza della borsa del cliente.

Giuliano, pur assentendo del capo, trasecolava. Cinismo simile non aveva mai imaginato, ed arrossiva per conto proprio ed insieme per il suo protettore. Sapeva fin da prima che qualche migliajo di lire lo avrebbe dovuto abbandonare a quel vampiro; ma non aveva preveduto d’essere con tanta disinvoltura e bonarietà aggredito. Avrebbe voluto far sentire a Ferretti che il continuare era inutile, avendo compreso, e risparmiargli altre spiegazioni... Ferretti ci teneva alle sue teorie e continuava imperterrito. Roma era pur sempre quella di Giugurta: tutto vi si compera, ma tutto vi si vende caro. Tutti i più vieti aforismi sul chi più spende meglio spende, sul sagrificio di un dente per salvare la ganascia, sul do ut des, sui compensi ad ogni fatica. E tutto ciò con autorità ed importanza magistrale, come se disinteressato avesse difeso una tesi per convinzione, contro errori e pregiudizî altrui. Quando il Ferretti si riposò, Giuliano imbarazzato rispose che la questione di interesse era secondaria per lui, e comprendendo il dover suo, era lieto di contribuire alla prosperità dell’Ordine. Ferretti non lo lasciò finire:

— Oh, per ora, diecimila lire basteranno; per una elezione come quella di Miralto non sono troppe. Tanto più che anche a noi, in Roma, la lotta elettorale è costata assai; non tutti i nostri amici sono ricchi e il Governo non contribuì nella dovuta misura.

Giuliano fu perfetto. La somma gli parve grossa, pure non battè palpebra. Estrasse un libretto di checks, e staccatone un foglio, scrisse la cifra indicata, poi lo presentò a Ferretti, che parve soddisfatto.

[55]

Accommiatatosi, Giuliano, fu cortesemente accompagnato fin sulle scale dal suo ospite, il quale lo pregò di passare frequentemente all’Ordine, per mantenersi in stretti rapporti e parare, in ogni caso, all’impreveduto...

— E poi, soggiunse, ci tengo, onorevole, a presentarla io stesso al presidente del Consiglio...

Stavolta, Giuliano non potè trattenere una smorfia di disgusto.

Allorchè risalì in carrozza, la politica era molto in ribasso sulla bilancia delle perenni incertezze del deputato di Miralto. Non passò al Parlamentare, come aveva divisato, e la lettera scritta alla sua Adele, appena rientrato all’albergo, risentiva di quello stato d’animo. Uno scoramento infinito, simile a quello provato in ferrovia prima di giungere a Novi.

La notte mal dormita influiva sui suoi nervi, e l’impressione dell’incubo non era intieramente dissipata.

***

A chi conobbe Alfredo Ferretti, direttore dell’Odine, uomo abilissimo, consumato in tutti gli intrighi, esperto diplomatico all’occorrenza, il di lui contegno tenuto di fronte a Giuliano potrebbe sembrare strano, tanto più che spesso ambiva guadagnarsi gli uomini onesti colla simpatia. Ferretti non poteva illudersi sull’effetto prodotto nell’animo del suo nuovo pupillo, la nuova vittima abbandonatagli, piedi e mani legati, dal commendatore Cerasi.

Era calcolato! Ferretti, con un’affettazione esagerata di cinismo, volle prevenire tutto il male che sarebbe stato detto di lui al giovine cliente milionario. Passata la prima impressione, Giuliano, lo avrebbe trovato migliore della sua fama.

[56]

D’altronde, in quell’uomo audace c’era dell’amore dell’arte per l’arte, e qualche volta provava una specie di voluttà nell’atteggiarsi sotto il punto di vista peggiore. Potente, sentiva una soddisfazione maligna nell’umiliare i galantuomini, dei cui destini tanto spesso era arbitro.

Per l’uomo colpito dal pubblico disprezzo, eran vendetta e trionfo i rovinosi compromessi degli ambiziosi, ingenui o raffinati, che a lui facevan capo, guida inevitabile per forzare le consegne dei ministeri, per arrivare al cuore della insospettabile magistratura giudiziaria, su su, fino alla Corte di cassazione, al guardasigilli, per giungere ad intenerire gli alti controlli, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato.

Per lui, il colpito, non una porta chiusa, non serrature abbastanza resistenti: dagli sportelli delle banche agli uffici dei giudici istruttori, ai gabinetti delle eccellenze d’ogni sorta e qualità, fin nella coscienza dei giurati. Munito di non si sa qual talismano, avrebbe fatto crollare le mura del più inaccessibile castello incantato, come già seppe aprire breccie perfin nelle muraglie dell’inviolabile Vaticano, il quale non sapendo sottrarsi ai di lui ricatti, aveva finito per arrendersi, preferendo amico, possibilmente strumento, un sì pericoloso avversario.

Fu allora che l’Ordine si atteggiò protettore della religione, avvocato di un modus vivendi, inattuabile, tra Vaticano e Quirinale. La clientela de’ sacerdoti non fu la meno numerosa e profittevole. Consigliere ascoltato in tutte le operazioni finanziarie, lo si additava cogli autori del crack vaticanesco; vittima la corte pontificia della crisi bancaria, nella quale fu travolta mezza Italia.

Ferretti, per quanto forte lottatore e calcolatore insuperabile, aveva finito per ubriacarsi della propria [57] potenza; onde, l’eccessiva audacia, il supremo disprezzo di ogni riguardo, di ogni concessione alle apparenze, dirò meglio, di ogni impostura verso gli onesti o disonesti, deboli o potenti che a lui mettevano capo.

Avido di lucro, era il più abile cacciatore al biglietto di banca, coglieva i fogli da mille a volo, meglio di Buffalo Bill al galoppo del suo cavallo le palle di creta lanciate in aria.

Senza mischianza di sangue orientale, nell’audacia superava i più forti giuocatori semiti. Pazzamente temerario, in borsa aveva dieci volte ammassato cospicui patrimonî, con eguale rapidità disfatti. La rassomiglianza ebraica rivelavasi ancora nel suo sistema di lottare per la vita... per il milione; ai mezzi semplici preferiva i complicati e subdoli; alla via retta, la tortuosa, creando sovente ostacoli che non esistevano, per la soddisfazione, la gloria di superarli.

Nei primi anni di lotta, la lotta per la riabilitazione, aveva saputo anche spendere intelligentemente, a tempo. Creditore di una miriade di bohèmes, si era creato un ambiente, se non amico, benevolo, discreto, servile.

Non tollerava emuli; accettava alleati, sui quali lasciava cadere magnanimamente un po’ del riflesso della sua onnipotenza.

Un nemico odiato a morte, un uomo piccolo, come lui, che, come lui, aveva esordito dalla carcere, per motivi non politici, s’intende, il quale di venticinque anni più di lui attempato, e più di lui orientale, era completamente riuscito. Vittorioso sempre, sterminatamente ricco, potente senza vanità ed affettazione, eminenza grigia di tutti i governi di Sinistra.

Quell’uomo era l’incubo di Ferretti, il solo del quale avesse paura.

E poi, nelle ore tristi, quaudo la marea del disgusto [58] gli saliva al cervello, per la coscienza della propria abiezione, in presenza di persone adorate, che avrebbe voluto mettere al livello morale di ogni onesta famiglia borghese, lo invadeva un sentimento di invido furore, nel vedere il nemico, l’odiato competitore, stimato e rispettato, additato come esempio di patriotismo disinteressato o sapiente.

Era la spina in cuore.

Nel tenebroso duello quale dei due rimarrà sconfitto?

L’orientale combatteva dietro gli spalti del silenzio, invulnerabile, lontano dalle polemiche, alieno dal chiasso, dopo una imprudente, trista prova di pubblicità in favore della politica germanica, dopo lo scandalo di certi appalti governativi, che per poco non provocarono una crisi ministeriale. L’orientale evitava porgere il fianco, preferendo lasciar combattere per lui i suoi mercenarî e gli amici, gli ammiratori ingenui; un esercito.

L’orientale, Augusto Dini, doveva vincere necessariamente. Lo sentiva Ferretti? È probabile, perchè aveva paura, lui, l’audace, il Bajardo, il Sans peur dei farabutti.

Altro lato debole: le antiche abitudini nottambule, la passione del gioco. È ben vero che Ferretti vinceva sempre; ma, le notti perdute vincendo al tavolino verde dovevano necessariamente infiacchire la fibra del lottatore, per quanto d’acciajo.

Questo l’uomo al quale l’ingenuo Giuliano affidava il suo avvenire politico.

***

Puntuale al convegno, Ruggeri, a mezzogiorno in punto, l’ora convenuta per la colazione, bussava all’uscio del salotto n. 11 dell’albergo del Quirinale.

[59]

Giuliano, tuttavia sotto l’impressione disgustosa provocata dall’intervista con Ferretti, avrebbe voluto fingere coll’amico, per non dargli causa vinta di primo acchito; ma fingere non sapeva. I suoi occhî azzurri erano impregnati di malinconia, aumentata dai ricordi d’amore evocati nella sua lettera alla sposa lontana. Se avesse osato, in quel momento avrebbe rinunziato alla deputazione; ma, di risoluzioni energiche non era capace. Il ritorno immediato alla vita privata sarebbe stata la vittoria degli avversarî, de’ suoi detrattori; una diserzione, di fronte agli amici che lo avevano sostenuto. Il dado era tratto! Si sarebbe ritirato poi, come fece Ruggeri, nobilmente, al primo atto meno corretto del Governo, ai cui servigi si era posto. Ora bisognava vincere e per vincere andar fino in fondo.

Ruggeri aveva indovinato lo scoraggiamento dell’amico, pure gli sarebbe sembrato sconveniente insistere nei rimproveri del mattino. D’altronde, egli nulla sapeva della visita al famigerato Ferretti, quindi, a poco a poco, la loro conversazione divagò su tutt’altri soggetti della politica.

Miralto, la monotona, triste, uggiosa Miralto; egualmente cara a Ruggeri, sorridente ricordo di giovinezza, cara ad onta di dolorose memorie. Là riposano i suoi vecchî; là vivono, anzi vegetano, relativamente felici, gli antichi compagni d’infanzia, minuscoli cospiratori contro l’Austria odiata; là i primi palpiti dell’ormai spento patriotismo e i santi entusiasmi. Di là, in una notte buja, l’esodo per il Piemonte, terra di libertà, onde correre alle armi per la redenzione della patria.

Ruggeri, ricordando tutto ciò, il misantropo Ruggeri ringiovaniva, e narrava con eloquenza commossa cose ed episodî cento volte raccontati a Giuliano quando questi, bambino, sulle di lui ginocchia, cogli occhi azzurri [60] intenti, entusiasmavasi alle lacrime per i sublimi ardimenti di Garibaldi.

Servito il caffè ed il cognac, i solleciti camerieri discretamente si ritirarono... Sovvennero le ricordanze più intime. Nel benessere della digestione di un asciolvere eccellente, i gomiti sulla tavola, centellinando la fine champagne, alternata col fumo delle sigarette orientali, l’uno, il vecchio, discorreva entusiasta; l’altro, quantunque soggiogato dal fascino dell’eloquenza calda del suo interlocutore, freddo, riservato, meravigliava alla di lui foga giovanile. Concepito al tuonare delle artiglierie, ma ingrandito quando gli entusiasmi erano sbolliti, quando, riconquistata una patria, gli uomini assennati si apprestavano a divorarla, quando i fanciulli, credendo l’opera della redenzione compiuta, consideravano la politica mezzo ad accelerare la carriera, nuova carriera essa stessa, la carriera, sola preoccupazione della nuova generazione, sola meta, Giuliano meravigliava.

La fiamma del sagrificio si è spenta colle delusioni del 1866 e col facile trionfo di Porta Pia. L’uno era davvero l’uomo del passato; l’altro, educato alla scuola positivista, sarebbe stato del suo tempo, se la natura l’avesse meglio costituito per la lotta; alla lotta incapace per la fibra molle, per la gentilezza femminea degli istinti.

E Ruggeri, quasi fosse in tale ordine di idee, a soggiungere:

— Certo il patriotismo è un pregiudizio, municipalismo ingrandito, un pregiudizio di fronte al sentimento umanitario, che vorrebbe una sola famiglia nella umanità, una sola patria sul pianeta Terra; ma, per noi, era la nostra fede, era una religione, la sola nostra religione, co’ suoi profeti ed apostoli, i suoi martiri, i [61] suoi eroi. Che cosa rimane di ideale a voi? L’amore? Anch’esso è mutato, spogliato del romanticismo sentimentale, un po’ mistico, nel quale noi l’avvolgevamo. Anche oggi si ama; anche oggi si muore d’amore, ma di Werther e di Jacopo Ortis non ne nascono più. Si ama altrimenti.

Giuliano avrebbe voluto soggiungere per provare che i Werther sono assurdi e ridicoli gli Ortis; rispettò il silenzio dell’amico, che, d’un tratto, si era taciuto, appoggiando il capo fra le mani, in atteggiamento di sconforto profondo.

Dopo un istante, Ruggeri, surto da sedere e passeggiando concitato per l’angusto salotto, rivoltosi sorridente all’amico:

— Sono un vecchio pazzo. Fortunati voi altri che non avete tante fisime per la testa. Più pratici, valete meglio di noi, incontentabili brontoloni... A proposito, sai che ora è? Le tre! Nientemeno. Tre ore a tavola al mattino, non c’è male; io ti lascio... A domattina, adunque: non dimenticare la colazione a Belvedere.

Giuliano, rimasto solo, scotendo il capo mormorò:

— Povero Ettore!

E dopo breve pausa:

— Povera Stella!

***

Stella Gabelli è la fanciulla che appena abbiamo intraveduta a Miralto, compagna alla contessa Adele Sicuri, inseparabile amica.

[62]

CAPITOLO VI. Un racconto di Poe.

Perchè quella esclamazione di Giuliano? Era tutto un romanzo pazzo di amore, di un amore inverosimile, che, avvolto nel romanticismo sentimentale, un po’ mistico, accennato da Ettore a Giuliano, formava l’infelicità di due esseri, nati alla distanza di trent’anni l’uno dall’altro, quindi, l’uno per l’altro non nati.

Dissi un romanzo. No! Piuttosto una novella di Poe.

Il 5 dicembre 187... nel modesto cimitero di Miralto i becchini, davanti una folla di donne abbrunate e di tutte le notabilità miraltesi, calavano nella fossa la bara di una fanciulla.

Fra i pietosi accompagnanti la giovinetta all’ultima dimora, Ettore Ruggeri non v’era. La di lui assenza fu tanto più notata, perchè lo si era susurrato fidanzato alla povera morta. Ai più parve sconvenienza; non a tutti. Gli intimi, conoscendo lo schianto per la perdita crudele, scusavano la di lui mancanza ai doveri dell’etichetta necrofora. Come assistere alla convenzionale cerimonia, pazzi di dolore?

E Ruggeri impazziva.

Ribelle contro la morte, non sapeva convincersi che il dolce idillio fosse per sempre spezzato, che la gentile giovinetta l’avesse per sempre lasciato. Recava bensì fiori sulla tomba della fanciulla adorata, ma più che per rendere omaggio alla salma, per richiamarla [63] alla vita colle pazze evocazioni... Sola risposta, il silenzio raramente turbato dai pietosi visitatori di quel triste soggiorno.

Perduta la speranza, Miralto essendogli divenuto odioso, partì alla ventura, colla morte e la sua morta in cuore.

Peregrinando, si diede alle letture più bizzarre, lo strano panteismo di Fichte, la palingenesi modificata dei pitagorici, la teoria dell’identità dello Schelling, spiegata da Locke, che la fa consistere nella permanenza dell’essere razionale. Per persona vuolsi significare un’essenza pensante dotata di una coscienza che accompagna sempre il pensiero. È tale coscienza che ci fa tutti essere ciò che noi diciamo noi stessi, dandoci la nostra identità personale. Tale identità è perduta colla morte?

Questo il problema che affacciavasi alla mente sconvolta dell’infelice amante, convinto nella sua follìa che la giovinetta era rinata nell’ora stessa della morte.

Ingegnose ipotesi di filosofi bizzarri, le quali fanno sorridere di compassione la gente assennata, che poi non meraviglia, nè ride dell’ingenuità di quattro quinti dell’umanità conversante coi santi nelle preghiere e in comunicazione diretta colla divinità, per mezzo dei libri da messa; gente assennata e forte contro le superstizioni, la quale non ride, nè meraviglia alle teorie spiritistiche ed alle spiegazioni di alcuni fenomeni nervosi, con tutta una teoria rimessa a nuovo sotto il titolo di Ipnotismo.

Siamo tutti un po’ come i soldati della guerra dei Trent’anni. I luterani si burlavano delle reliquie, dei santini portati dai cattolici nella fede d’essere salvi dalle palle nemiche; per contro, i derisori portavano al collo o cucivano nei cappotti le imagini di Gustavo, [64] l’eroe, le quali dovevano renderli alla loro volta invulnerabili.

Il tempo sana molte piaghe. Ruggeri, passata l’acutezza del dolore, dirò meglio, riacquistando la ragione, trascurò le teorie consolatrici. Tuttavia, nelle vicende di una esistenza agitata ed avventurosa, menata lungi, molto lungi dalla terra natale, esploratore, per conto di una società inglese, nella Patagonia ed Araucania (Aurocanian and Patagonian exploration land company), il ricordo della fede professata nei giorni del dolore gli ritornava frequente e la sua mente vi si adagiava con incredula compiacenza. Tra le vicende e le avventure romanzesche de’ suoi viaggi e di nuovi effimeri amori, la rimembranza insieme a quella della giovane morta e della cara Italia lontana, una speranza vaga di incontrarla ancora, la giovinetta tanto amata, tanto rimpianta. Ridente illusione che lo faceva sorridere, castello in aria vagheggiato non colla fede, ma quasi a conforto nelle tristezze profonde della esistenza nomade fra selvaggi brutali e feroci.

Di ritorno in patria, immischiatosi nuovamente alle lotte politiche, per breve tempo deputato, se qualche volta ripensava all’infelice amore, non ricordò più senza un sentimento di scettica incredulità alla perpetuazione dell’identità umana.

Follìe giovanili, aberrazioni di cervelli malati!

Da Miralto mancava da circa quindici anni; avrebbe preferito non ritornarvi mai più; necessità di affari ve lo ricondusse: la morte di un parente lontano, il quale lo aveva eletto crede universale del modesto patrimonio.

Dopo quindici anni la piccola città aveva subìto ben pochi mutamenti: le vie intatte; perfino i cartelli e le vetrine delle botteghe immutati; non così gli abitanti, [65] invecchiati o morti; i fanciulli erano diventati uomini, i vecchî non erano più, sostituiti da altri, alla partenza lasciati nel fiore dell’età.

Anche i parenti della sua povera morta avevano raggiunta la loro diletta al cimitero, e la nota, la cara casetta, era abitata da nuovi inquilini, sconosciuti.

Il piccolo Giuliano ormai aveva venticinque anni, dei conti Sicuri ultimo rampollo.

Ettore non aveva riconosciuto nel giovinotto elegante il biondo fanciullo; questi, a sua volta, a fatica ricordò l’amico suo, lo zio d’adozione, che l’aveva colmato di dolci, di giocattoli e di carezze.

Straniero in patria, Ettore, si sentì afferrato da indicibile malinconia, ed un mattino, soffocato dai ricordi, volle recarsi al cimitero per visitare la tomba della giovinetta, sì dolorosamente e sì lungamente rimpianta. Un nuovo disinganno! La pietra sepolcrale, bagnata da tante lacrime, cosparsa di tanti fiori, non esisteva più. Gli eredi non avevano curato di acquistare il terreno in perpetuo e le misere spoglie eran state gettate nella fossa comune.

Altra tomba, di altra fanciulla, sorgeva a quel posto, da altri nuovi fiori, da altre nuove lacrime bagnata.

Ettore Ruggeri, ospite di Giuliano, rincasò malinconico sino al suicidio, confidò al giovane amico la desolazione dell’animo suo, e questi, nell’egoismo della giovinezza felice, per contro gli narrò il suo amore, le sue fidanze colla giovinetta Adele, che presto, fra un anno, avrebbe sposata.

L’amante, nella piena della gioja, non pensava quanto amaro doveva essere il contrasto della propria felicità collo sconforto dell’amico.

Una esistenza che incominciava fra le più ridenti [66] promesse; l’altra che finiva nella solitudine, senza speranze, senza scopo.

— Ti presenterò alla mia fidanzata. Domani, San Giovanni, è l’onomastico della sua mamma; avremo una festicciuola di famiglia, sarai dei nostri... Non sei tu il mio zio? Non ti chiamavo così, quand’ero piccino?

Ettore ringraziò Giuliano, abbracciandolo commosso.

— Sta bene! Almeno avrò un nipote, anzi due, perchè la tua sposa necessariamente diverrà nipote mia il giorno del vostro matrimonio... E mi darete presto dei bei nipotini. Avrò ancor io una famiglia nella tua. Finirò per fissarmi a Miralto. Chi me l’avrebbe detto soltanto jeri! Ed io, che meditavo un nuovo viaggio fra i miei buoni patagoni!

***

Anche a Miralto, per quanto la leggenda e le tradizioni nella incivilita Alta Italia vadano perdendosi, la notte di San Giovanni è sacra agli amanti, ai fidanzati. La rugiada di quella notte primaverile è acqua lustrale, acqua benedetta che lava i peccati d’amore e cementa gli affetti.

La signora Giovanna Alfredi, la buona mamma ad Adele, fidanzata a Giuliano, gelosa osservatrice delle tradizioni di famiglia, aveva abitudine di solennizzare con pompa il suo onomastico, non tanto in proprio onore, quanto in omaggio al santo patrono, il Precursore, troppo innamorato o troppo amato dalla bellissima figlia di Erode.

Se il pranzo fu intimo, alla sera il grande giardino di casa Alfredi, illuminato a palloncini tricolori, accoglieva tutta Miralto. La Miralto ufficiale ed abbiente, la high-life.

[67]

In quella sera, Ruggeri rinnovò antiche conoscenze; nella qualità di ex deputato, ebbe omaggi dalle autorità ed un lungo colloquio col commendatore Cerasi, sottoprefetto a vita, diceva lui con amarezza, raccomandandosi indirettamente all’ex, persuaso che nella vita politica sarebbe rientrato, ed avrebbe usato della propria influenza in di lui favore. Un naufrago che segnala a tutti i piroscafi, anche se passano tanto lontano da non poter avvertire i richiami disperati. Robinson eternamente in attesa della nave liberatrice.

La nuova nipote, Adele, divina nella sua bellezza bionda, dagli occhî cupi, tutta previdenze e cortesie per lo zio nuovo, lo zio d’America, di Patagonia, diceva essa adorabilmente gentile, andava man mano presentandogli le amiche, che facevangli ressa intorno, per avere particolari dei lunghi viaggi; domande ingenue o maliziose sui costumi dei selvaggi, sui loro abbigliamenti, sui loro matrimonî. E risate argentine che rallegravano l’aria, già sì lieta nella limpida serenità primaverile.

Venne la volta della presentazione della signorina Stella Gabelli, una bruna, un Murillo sublime, come giustamente l’avrebbe qualificata cinque anni dopo Guglielmi, il segretario del sottoprefetto.

Veramente sublime, il Murillo, nella geniale irregolarità de’ lineamenti, un capolavoro della natura, che avrebbe convertito al romanticismo lo scultore più classico fra gli imitatori ed ammiratori della fredda convenzionale bellezza greca.

Ma, una bambina di quindici anni, quasi un fanciullo, ancor più ringiovanita dalle gonne succinte, che l’amor proprio materno le infliggeva, a suo dispetto.

Ettore Ruggeri rimase attonito, non seppe articolare una parola, e, dopo la stretta, ritrasse la mano come impaurito.

[68]

— È la mia più cara e bella amica, susurrò la fidanzata di Giuliano ad Ettore, per non essere intesa che da lui. Ha un anno meno di me, pure è la mia consigliera... Avrà quindici anni il cinque dicembre.

— Il cinque dicembre? ripetè Ettore. Il cinque dicembre 1873?

— Appunto.

Ettore fece uno sforzo titanico per sembrar cortese e calmo, perchè si sentiva impazzire... Un sogno! Un’allucinazione! Ada! Ada! Come l’aveva conosciuta vent’anni prima. Ada morta da quindici anni, il cinque dicembre 1873... Ada, la cui tomba aveva invano cercata al cimitero... Non era rassomiglianza, identità.

La giovinetta fu quasi atterrita dallo sguardo di Ettore; ma dopo il primo scambio banale di parole, vedendo raddolcirsi la di lui fisionomia, il carattere gajo dominò il sentimento di paurosa soggezione, e come per rompere il ghiaccio, con curioso sorriso chiese:

— Mi ha detto l’Adele che lei è stato tanti anni fra i selvaggi. È vero?

— Tanti anni no, appena due. Fui assente alcuni anni dall’Italia; ma, non sempre fra i selvaggi.

— E da Miralto?

— Sono quasi quindici anni... a dicembre, alla fine di dicembre.

— Non è bello rimanere tanto tempo assenti dal paese nativo.

— Che ci facevo? Non avevo più alcuno. Pochi amici, nessun parente. Giuliano era un bambino...

— Più nessuno? Nessuno? Tutti morti i suoi parenti?

— Tutti!

Ed Ettore fissò lo sguardo nei profondi occhî della fanciulla, quasi per indagare se quella domanda avesse un’intenzione recondita; come per indovinare se sapesse.

[69]

Stella, non sapendo reggere alla fissità dello sguardo di Ettore, abbassò gli occhî arrossendo.

Con Adele si erano allontanati dal crocchio delle signore e signorine; silenziosi s’avviarono al parapetto del giardino pensile dominante il Ticino, indovinato appena nell’oscurità dai guizzi lucenti delle limpide e rapide acque, dal mormorìo della corrente. Furono raggiunti da Giuliano:

— Che ne dici, Ettore, della nostra festicciuola? Non sono le feste dei saloni di Roma; ma il Ticino vale il Tevere.

— Oh! di tanto più limpido, se non egualmente glorioso.

Giuliano offerse il braccio alla fidanzata. Stella, con fare da monello, e senza che le fosse offerto, si mise a quello di Ettore.

— Ora, si fermerà a Miralto. Se non ha famiglia, bisognerà farsene una. Lei è ancora giovane.

— Le pare? Quarantacinque anni.

— Quarantacinque! Già, certo, sono molti.

— Trenta più de’ suoi, signorina.

— Trenta!

E contando sulle dita da bambino, con un’adorabile smorfia ripetè:

— Sicuro! Trenta! Chi lo direbbe? Vi sono tanti giovinotti che sembrano più di lei attempati. E poi, tanto stupidi, così manierati...

Come colta da un’idea improvvisa, si sciolse dal braccio del suo cavaliere dicendo:

— Corro da mamma, che, non vedendomi, deve essere inquieta.

Spiccato un salto, agile come capretto, sparì infilando il gran viale, tutto luce e colori, illuminato com’era da miriadi di palloncini.

[70]

Ettore, ritornando al parapetto, nel punto più bujo per non essere veduto, nè importunato, i gomiti appoggiati sul davanzale, stette lungamente, lo sguardo perduto nell’oscurità.

— Quale rassomiglianza!

Mezz’ora dopo era ancor là, fissando il bujo. Giuliano venne a chiamarlo.

— Vieni, perdio; ti si cerca dappertutto, e la signorina Gabelli dice che sei ripartito per la Patagonia.

— Ah, ci pensavo! Ho la nostalgia degli oceani... l’Atlantico e il Pacifico, che al capo Horn si confondono; ed in presenza del nostro minuscolo Ticino, bello, limpido come un ruscello da giardino, penso con rimpianto alle rapide furibonde del Rio Negro, alle terribili burrasche dello stretto di Magellano...

— Non è cortese per le signore di Miralto, il preferir loro le patagone. Se lo sapessero, ti caverebbero gli occhi!

La fredda brezza aveva spopolato il giardino, gli invitati si erano raccolti negli appartamenti. I palloncini andavano man mano spegnendosi; i pochi rimasti accesi, agonizzando, mandavan sprazzi intermittenti di luce. Dall’interno il pianoforte intonò un valzer, e dal giardino ormai oscuro, distinguevasi la ridda dei danzatori sfilanti dietro le aperte finestre del salone.

— Presto, presto! disse Giuliano. Ho impegnato il primo ballo coll’Adele.

Affrettarono il passo; ma, impaziente, Giuliano prese la corsa, piantando l’amico per raggiungere la fidanzata, che l’attendeva al limitare del vestibolo, sull’ultimo gradino della scalea del giardino. I due giovani sparirono per confondersi colle coppie danzanti nella sala.

Immobile, la personcina di una giovinetta, rischiarata dai lumi interni, spiccava nel vano della grande [71] porta del vestibolo. Era il Murillo, Stella Gabelli, messa in luce, in tutta la soavità delle forme gentili, dalle curve deliziose, protestanti contro l’abbigliamento quasi infantile. Non attese che Ettore avesse salita la scala; scese ad incontrarlo, e con sorriso tutto innocenza, più indovinato che veduto nella penombra:

— Oh, bravo, signor Ruggeri; lei, che è coraggioso, mi accompagni fino in fondo, laggiù nel giardino. Ho esposto sul lauro il mio moccichino per raccogliere la rugiada di san Giovanni, e d’andarci sola ho paura.

— Paura di che, signorina? balbettò Ettore.

— Non so. Ho paura del bujo e della solitudine. — Nell’oscurità mi pare che mi manchi il respiro, come fossi in una tomba... Oh, ma questa non è oscurità completa, i palloncini, le stelle, e poi c’è lei. Via, mi dia la mano; la precederò, perchè adesso mi sembra che paura ce l’abbia lei.

Infatti la mano, da Ettore porta a Stella, tremava come una foglia al vento. La giovinetta, scoppiando in una risata argentina, si diede a correre attraversando i noti sentieri, trascinando a rimorchio il cavaliere.

Aveva detto giusto, Stella; il lauro era in fondo in fondo al giardino, ed il fazzoletto non era più al suo posto, portato dalla brezza. Cercarono a tentoni, curvi alla ricerca; le loro mani si incontrarono; la lussureggiante capigliatura della giovinetta sfiorò ripetutamente il volto di Ettore; il caldo alito della respirazione di Stella si confondeva col suo, troppo vicini per non urtarsi, e troppo bujo per poter evitare i contatti.

Ad Ettore il sangue affluiva al cuore, che pulsava concitato; come una vertigine... La bambina non rideva più.

Se Ettore avesse potuto meglio discernerla nell’oscurità, l’avrebbe veduta pallida... pallida come la morta.

[72]

— Ah, eccolo! gridò la fanciulla. L’ho ritrovato. Quale fortuna! è tutto molle di rugiada... Anch’io l’avrò il mio fidanzato, quest’anno, soggiunse tentando di ridere...

E ammutolì. Poi, dopo breve silenzio:

— Senta com’è intriso.

Le loro mani s’imbrogliarono daccapo, ed Ettore, incosciente, portò alle labbra la gentile, fredda manina della bimba, che lasciò fare, mentre colla sinistra spiccava un ramoscello d’alloro porgendolo ad Ettore.

Ritornarono, non più correndo, lentamente, tenendosi per mano, senza pronunziare parola. Giunti alla scalea, Stella la salì in due salti, e nel salone si confuse fra le amiche. Ettore, riposto il ramoscello, salì al vestibolo... Scorgendo la giovinetta:

— Com’è bella e pallida... L’altra! Ada! La morta!...

***

Questo il secondo, l’ultimo romanzo di Ruggeri, ricaduto in piena teoria della perpetuazione dell’io, la teoria dell’identità umana. — No! non era un secondo romanzo; la continuazione del primo, del romanzo giovanile.

Tale fede era piuttosto allo stato di superstizione, non mutando per nulla le di lui convinzioni filosofiche e scientifiche. Un’aberrazione, lo sapeva; pure, in tale aberrazione si cullava volontieri... Ed ormai anche la giovinetta, convinta di aver ricordi d’oltre tomba, rimembranze vaghe di una esistenza precedente, riamava il suo Ettore, come se la morte non avesse interrotto il loro primo idillio; lo riamava, come se egli non fosse invecchiato di quindici anni ed essa di tanto non fosse ringiovanita.

[73]

Cinque anni dopo il loro incontro, troviamo Stella a Miralto, Ettore a Roma.

Perchè quella separazione?

Perchè egli, comprendendo tutta la follìa di un amore in tanta sproporzione di età, fuggiva. Infelice nella giovinezza, primavera della vita; infelice nell’autunno.

Una tomba li aveva uniti nella superstizione comune; le esigenze della vita sociale, le stesse leggi della natura li separavano.

— Fra dieci anni, Stella, che ne ha venti, sarà in tutto lo splendore della sua bellezza; io... io, sessantenne. Un vecchio!

Il sacrificio di entrambi.

Questa la ragione dell’esclamazione di Giuliano, quando i due amici si separarono, dandosi ritrovo per il mattino seguente.

[74]

CAPITOLO VII. A Belvedere.

Chi sale la dolce erta di Monte Mario, il più elevato dei colli romani, a mezzo del cammino per giungere alla chiesa, dalla pietà di un De Rossi eretta alla Madonna del Rosario, incontra un edificio a foggia di chalet.

È la trattoria del Belvedere, scelta da Ruggeri per la colazione offerta all’amico Giuliano.

Il nome di Belvedere non mente; dalle terrazze dello chalet si svolge superbo il panorama di Roma; dal Monte Pincio a Monte Cavallo, da Piazza del Popolo al Colosseo; la città Leonina, la mole Adriana, il Tevere, il Gianicolo, San Pietro, il Pantheon, il Campidoglio, Sant’Onofrio, sacro alla memoria dell’infelice poeta della Gerusalemme Liberata, martire dell’amore... L’intiera Roma; e, da lungi, i monti Albani, in tutto lo splendore di un dolce meriggio autunnale... L’estate di San Martino del Lazio, indescrivibile nella luminosa limpidità delle sue tepenti giornate.

I due amici si assidevano al desco, appunto quando il cannone di Castel Sant’Angelo annunziava alla città ed al mondo il mezzogiorno... quello di Roma, non ancora germanizzato dal compianto Genala.

La loro passeggiata era stata taciturna. Giuliano aveva troppe impressioni da nascondere ad Ettore, delle visite del giorno precedente, per non guardarsi dalle espansioni; dal canto suo, Ettore era assorto ne’ ricordi [75] evocati, non solo dalla presenza di Giuliano: da una lettera, una dolcissima lettera datata da Miralto.

Entrambi, la mente ingombra, avevano segreti da guardare.

A colazione servita, la conversazione cominciò ad animarsi. Ruggeri nella sua qualità di anfitrione sentiva il dovere di distrarre il giovane amico, pur non rendendosi conto delle ragioni della di lui taciturnità.

Suppose benevolo che la preoccupazione di Giuliano fosse causata dalla lontananza de’ suoi cari e lo invidiò.

La famiglia!... L’amore nella famiglia!

Il sogno, vagheggiato nelle notti solitarie, nelle tristezze quotidiane dell’esistenza di vieux-garçon. Ed era con affetto quasi paterno che Ruggeri tentava diradare la supposta malinconia di Giuliano. Il soggetto alle distrazioni non mancava. Roma ai loro piedi, tremila anni di storia dell’umanità.

Roma, grande non solo per le glorie antiche, per ciò ch’è pur sempre. Non la Roma villaggio, sede di una dinastia transitoria, di un governo anomalo, la terza Roma ingombra delle rovine dello recenti crisi edilizie e bancarie, rovine materiali, morali e politiche; la Roma dei papi, capitale della cattolicità... immensa quasi quanto il mondo civile.

Roma Cosmopolis!

La Roma del Vaticano e di Propaganda Fide, la Roma dei credenti, la Città Santa dei pellegrini, l’Urbs dalla quale un vegliardo lancia dogmi indiscutibili e crea santi, nuove divinità da gran parte dell’umanità adorate. Roma sopravvissuta a Bisanzio, la Roma del papato ancor più vitale per la prigionia volontaria de’ suoi pontefici.

— No! no! caro mio, soggiungeva Ruggeri alle obiezioni ottimiste di Giuliano. L’occupazione di Roma, [76] prima dell’avvento di una democrazia federalista al potere, fu una sventura, un errore necessario, inevitabile, fatale; ma un errore. Tentare poi di risuscitare la romanità e di eguagliarla, diceva Ettore additando l’embrione del colossale monumento a Vittorio Emanuele, dominante da Ara Cœli il Campidoglio, è follìa. La romanità è ben morta coll’ultimo dei tribuni, Cola da Rienzo, sublime illuso; la romanità l’hanno lapidata gli ultimi quiriti.

«Di romano, in questa grande necropoli, non rimaneva che il solo Pasquino; il proconsolo mutilato di Palazzo Braschi esulò, per farsi giornalista sabaudo a Torino, esulò venticinque anni prima della breccia di Porta Pia.

«Ha fatto bene ad andarsene da Roma; i suoi inni a Bismarck ed al Kaiser Kœnig, dalla capitale della latinità sarebbero stati doppiamente sacrileghi.

«Il cactus dà il frutto e muore; non si ricostituiscono nuove glorie sulle macerie delle antiche.

«Bibliopolis, la città imaginaria di Charles Nodier, fu distrutta dalle formiche. Le nuove Rome che, ad intervalli di molti secoli, si tentò ricostruire, non furono che opera di demolizione dell’antica, della Roma grande.

«La vedi, la vedi laggiù, la nera rovina?

— Dove? chiese Giuliano facendo riparo agli occhi colla mano.

— Là, fra il Palatino e le alture dell’Esquilino, quasi in direzione di San Giovanni Laterano. L’hai ritrovata?

— Sì! sì! Una massa nerastra, la distinguo benissimo... Il Colosseo!

— Appunto... L’anfiteatro Flavio, cementato dal sangue di migliaja di martiri cristiani, i nihilisti di [77] Roma imperiale; ebbene, minato da ottanta generazioni, da cento rivoluzioni, condannato ad immondezzajo, fortezza smantellata e saccheggiata dai barbari, tempestata dal piombo delle artiglierie medioevali, secolare cava di travertino, è più solido, più grandioso ed imponente del Vaticano e del San Pietro insieme.

«Lo scheletro imperituro di Roma antica... Imperituro, ma scheletro... un fossile! Il genio della rinascenza italiana si smussò in Roma, patria del barocco, infelice tentativo di rivolta contro la severa architettura antica. Nessuno disconosce Bernini; troppo fedele interprete del pensiero del papato, geloso di grandezze inarrivabili, l’artista esimio ha continuata l’opera fatale dei barbari e dei Barberini, accomunando nella distruzione le antichità romane alle medioevali. Ciò che non osò il sommo Michelangelo, l’artista divino, egli l’ha osato. La critica gli sia leggiera, esso pure vittima della fatalità storica, formica demolitrice della grande Bibliopolis.

«Che dire ora dell’arte piemontese, la quale ai capilavori di Bramante e di Michelangelo, ai palazzi della Cancelleria e Farnese, per affermare la intangibilità sabauda in Roma, oppose il palazzo delle Finanze, e ricostrusse, sconciando, o sovrapponendosi alle preziose rovine, rovine nuove sulle antiche, la terza Roma, coi criteri degli architetti di Montecarlo e di Aix-Les-Bains?

«Ove fallì Michelangelo, il quale di grande in Campidoglio lasciò soltanto ciò che non era suo, la statua di Marco Aurelio, potevano trionfare gli architetti di Quintino Sella e di Agostino Depretis? No! Roma antica fu troppo grande, troppo grandiosa la Roma de’ papi, perchè la Corte di Torino potesse accettarne l’eredità.

— La Corte... la Corte di Torino, è l’Italia ch’entrò in Roma per la breccia di Porta Pia! sclamò Giuliano impazientito.

[78]

— Te lo concedo... Ma, ti pare che il nuovo piccolo popolo possa gareggiare colle schiaccianti memorie?

«L’Italia in Roma è il Capitan Fracassa di Gautier nel castello diroccato degli avi.

«E poi, troppe rovine da abbattere a nostra volta, millenarie anch’esse, solide esse pure quanto il travertino del Colosseo, rovine, ostacoli, dei quali l’Italia nuova non si rese conto. Quanti miliardi di formiche, quanti secoli per demolirle nel mondo intiero?

«E quale nuova divinità opporrete alla divinità imperante?

«Quale il mito che sorgerà dalla crisi celeste sugli altari abbattuti?

«Perchè gli uomini sono così fatti: eternamente in rivolta, non sanno vivere senza padroni in terra, senza miti nelle nuvole.

— lo non ti riconosco più! sclamò Giuliano scandalizzato. Ragioni come l’arciprete di Miralto, che sostiene l’immortalità della Chiesa.

Ruggeri sorrise e mescendo nel bicchiere dell’amico:

— Bevi di questo Frascati! Moderatamente, perchè ubriaca, come la gloria ed i ricordi delle grandezze romane. Quando per qualche anno ne avrai bevuto, con moderazione, di questo vino eccellente, senza avvedertene avrai cambiato di idee.

«Io non ho mutato di principî, ho soltanto perduto molte illusioni.

«La Chiesa non è più eterna di ogni altra instituzione umana; ma, duttile, malleabile come cera, ha la facoltà di trasformarsi a seconda delle esigenze dei tempi. L’avvenire è della democrazia; ebbene, la Chiesa precede le rivoluzioni sociali e lancia il verbo socialista.

«Finchè aveva il poter temporale da salvaguardare, materialmente debole, il vice Dio era il servo umilissimo [79] dei monarchi; oggi sono i sovrani che ne invocano l’appoggio. La repubblica moderata in Francia gli deve in gran parte l’ultima vittoria elettorale contro i partiti monarchici.

«Il giorno nel quale, in Italia, la Chiesa volesse decisamente partecipare alle lotte politiche, mezzo il Parlamento sarebbe composto di clericali... Non le gioverebbe però, perchè una reazione sarebbe inevitabile. Preferisce minare lentamente i nostri ordinamenti politici, lasciando che gli errori, le colpe dell’Italia officiale facciano il resto.

— Dunque tu credi che Roma ritornerà ai pontefici?

— E chi ti ha detto ciò? Credi tu che vi siano tre matti in Vaticano, i quali vagheggino seriamente il ristabilimento del potere temporale?

«Ci pensi? Le ferrovie, i telegrafi, i telefoni, il giornalismo, un esercito di mercenarî con tutti i terribili e rovinosi progressi delle nuove armi, dei nuovi ordinamenti militari, i regolamenti sull’igiene e sulla prostituzione, l’anarchismo da combattere... Sarebbe il suicidio. Roma ritornerebbe ludibrio, come già lo fu, prima del 1870, quando in piena Europa civile vedevi come a Costantinopoli i cani vaganti cibarsi delle immondezze deposte dagli abitanti sulle porte, in attesa della prolunga del treno militare per portarle al Testaccio o buttarle ne’ pubblici immondezzaî, che ad onore e gloria della teocrazia ingemmavano le strade della Città Eterna, dai nomi pomposi di eroi e cesari, di papi più o meno gloriosi, di dogmi cattolici, di santi e perfino della santissima Trinità. Il poter temporale è ben morto, come i comuni medioevali, come le repubbliche italiane, già sì fiorenti e gloriose. Tanto varrebbe voler tentar un ritorno al feudalismo in Francia.

[80]

Giuliano scoteva il capo per diniegare, pur non avendo ragioni da opporre.

— Anacronismo, continuava Ruggeri; il poter temporale era ben morto prima di morire. Non così il papato, dalle guarentigie riconosciuto sovrano. E due re in Roma sono incompatibili. Se Costantino abbandonò le sponde del Tevere per quelle del Bosforo, gli è che la convivenza col vescovo di Roma era divenuta impossibile.

Giuliano sorrise esclamando:

— Via! via! tu esageri, e per provare la tua tesi, rifai la storia a modo tuo.

— A modo mio? Non ti basta l’autorità di Dante? La chiesa greca non invase mai il potere civile; vi furono dei patriarchi ribelli, eccezioni rarissime; ma il patriarcato bisantino riconobbe sempre incontrastata la supremazia imperiale. La chiesa latina, no; sempre in lotta col potere civile, vicariato divino, si reputa superiore ad ogni istituzione umana. Sudditi i sovrani cattolici; eretici ribelli gli altri, coi quali tratta per necessità di esistenza.

«Bismarck, il quale diè l’ultimo crollo al potere temporale, da Berlino ebbe paura del Vaticano, ed il giovane Guglielmo riparò il primo sgarbo fanciullesco con una seconda visita umilmente sollecitata... solennemente, ma meno cordialmente accolto di Severine.

«Carlo Magno, risuscitando una larva dell’antico impero, fece abbandono di Roma, affidando ai pontefici ed al tempo il compito di distruggere monumenti e memorie, la cui grandezza lo umiliava, lo impauriva. Costantino fuggì, Carlo Magno abdicò.

«Chi avrebbe potuto credere che la bufera della rivoluzione francese e delle conquiste imperiali, scatenatasi non solo contro il cattolicismo, ma contro il papato, [81] contro il pontefice prigioniero, contro Roma, ridotta provincia imperiale, sarebbe passata rafforzando la fede degli illusi credenti?

«Ciò che Carlo Magno non aveva osato, osò Napoleone, ed il titolo di Re di Roma imposto al figlio si converse in una tragica, pietosa ironia.

«Trentatrè anni dopo, le bajonette francesi ristabilivano sul trono del mondo il pontefice, fuggiasco a Gaeta.

«Bizzarre fatalità storiche!

«Se gli enciclopedisti del secolo XVIII potessero far capolino dai loro sepolcri, sarebbero ben poco lusingati dall’effetto della loro opera demolitrice.

«Voltaire vedrebbe i monumenti a Giovanna d’Arco; Diderot, d’Alambert, l’Europa ancor più credente.

«Che possono fare gli uomini politici, in presenza di tale inconcepibile fenomeno?

«La scienza negatrice cammina a passi di gigante; ma lo scetticismo scientifico non tocca le masse, credenti per tradizione, per atavismo... per istinto, per bisogno.

«Il soprannaturale ha sempre esercitato un fascino irresistibile sulle menti umane, anche illuminate. Vi sono scienziati atei, superstiziosi come donnicciuole, credenti nella jettatura, nei talismani, nelle mascottes, nella trasmissione del pensiero, nello spiritismo...

Ruggeri si arrestò come sorpreso da un pensiero intimo, che lo avesse distratto dalle sue dimostrazioni.

Stette muto un istante, col capo appoggiato fra le mani, in preda ad una meditazione dolorosa. Giuliano, avvezzo alle stravaganze dell’amico, ne rispettò il silenzio.

— Suvvia, Giuliano, riprese Ettore, ancora una goccia di questo Frascati, dal colore dell’ambra... Siamo pur pazzi, noi, a perdere il nostro tempo nello scrutare l’avvenire.

[82]

«Vedi laggiù, lungo il Tevere, fra il ponte della Lungara ed il ponte Sisto?

— Il palazzo Farnese?

— No. Più oltre. Si distingue appena, coperto in parte della mole del Farnese; è il palazzo Spada.

«Nell’atrio superiore vi è la statua di Pompeo ai cui piedi fu trafitto Cesare. Severa nella sua nudità, è gigantesca in confronto del piccolo mondo ch’essa regge nella mano sinistra. Simbolo della potenza romana, che ne rimane ora?... Poche rovine mutilate!

«Sai come si chiama la strada che abbiamo percorsa per recarci qui e rifaremo tra poco? Via trionfale! niente meno! Quale irrisione! Nell’abbandono in cui è lasciata, presto non sarà neppur più fiancheggiata dai radi alberi, non mai sostituiti.

«Certo, se è caduto l’impero romano, se dopo sei secoli di lotte gloriose è caduta Bisanzio, anche il papato dovrà cadere, ed il cattolicismo finirà, come tutto deve finire. Ma, quando?

«Quante dinastie, quanti imperi si saranno spenti, quanti cataclismi politici e sociali saranno avvenuti? Avverandosi anche la profezia di Napoleone I, di un’Europa cosacca, credi tu che la fede dei trecento milioni di cattolici muterebbe?

«Ti ripeto, la lotta dell’Italia contro il papato è ineguale; noi siamo a disagio in Roma, e lo sfacelo dei nostri ordinamenti è in gran parte prodotto dalla convivenza delle due sovranità incompatibili.

«Abbiamo risanata l’aria coi lavori del Tevere, colle bonifiche dell’Agro, coi nuovi infelici edifizî; ma la Roma papale è deleteria per tutti i poteri civili. Roma papale uccide la monarchia. La malaria ci appesta.

«Il papato coll’Italia può forse conciliarsi; colla dinastia, finchè sventolerà la croce sabauda dal palazzo [83] apostolico del Quirinale, impossibile. Il non possumus di Pio IX è di granito.

— Io non mi ci raccapezzo, sclamò Giuliano. A quale conclusione vuoi venire? Anche tu vorresti abbandonare questa bella, gloriosa Roma?

— E chi ti ha mai detto ciò? Abbandonarla! Quasi che Roma fosse un galleggiante, che il Tevere potesse trasportare in pieno mare. Roma è Italia, è il cuore d’Italia e nessuno la porterà via.

«Noi, giacobini per atavismo, non sappiamo far distinzione fra Stato e Patria. Una confusione sacrilega fra Patria e Governo.

«Prima del 1866 non appartenevano alla grande patria germanica, Amburgo, Brema, Lubecca, Francoforte? Città libere, non erano meno tedesche e patriottiche di oggi, unità integranti dell’impero accentratore. Città libere, ma per ciò la confederazione germanica non rinunziava a garantirsi della loro fedeltà al patto federale, ed a garantire la loro difesa. Chi ti dice di abbandonare Roma al papa? Cosmopolis è destinata ad una nuova grande missione: inevitabilmente, la capitale morale della lontana, ma inevitabile confederazione latina. Dammi una Italia federativa, come ormai, dopo tante delusioni, la sognano, la vagheggiano gli statisti illuminati, e la città libera di Roma non sarà più ostacolo e pericolo.

Giuliano trasecolava, convincendosi sempre più che l’amico suo era impazzito.

— Come, tu, garibaldino, che a Mentana hai combattuto al grido di «Roma o Morte!» parli in questo modo?

— E quale incoerenza fra ciò che ho fatto e ciò che dico? Roma cesserà forse di essere la Roma vagheggiata da Garibaldi, solo perchè il Parlamento federale [84] risiederà nel palazzo della Signoria a Firenze, invece che a Montecitorio? Roma, sede dei grandi controlli federali, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Cassazione, sarà meno italiana? L’Università romana sarà meno frequentata, ed il potere civile sarà meno forte, non avendo più inciampi di ibride concessioni, come le guarentigie, contratto unilaterale, disconosciuto dal papato; ma legge per noi, che, volendolo imporre, ce lo siamo imposto? Sarà meno fervido il senso di orgoglio e di affetto dell’intiera Italia per la grande madre comune, solo perchè in Roma avremo ventimila burocratici di meno, ed i vescovi di Roma non avranno più il pretesto di atteggiarsi a prigionieri?

«Nuova York è menomata nella sua influenza nel nord degli Stati Uniti, perchè il Parlamento e gli uffici risiedono a Washington?

«Allorchè Thiers portò la Camera a Versailles, Parigi cessava di essere Parigi?

«Vuoi che lo dica, lo sproposito? soggiunse Ettore dopo breve pausa. Non avrei forse il coraggio di proclamarlo pubblicamente; ma le verità sono verità, anche quando non vogliamo sentircele dire.

Ed abbassando la voce, quasi temesse di essere ascoltato da un terzo invisibile:

— Io temo assai, disse, che Roma cesserebbe di essere Roma, il giorno che il papa se ne andasse.

Giuliano scattò come per l’impressione di una puntura.

— Tu! tu, un mangiapreti, parli in tal modo?

— Mangiapreti, dal più al meno... lo sono pur sempre. Ma, a forza di mangiarne, ho finito con una indigestione

«La constatazione di un fatto, deplorevole se vuoi, è indipendente dalle mie convinzioni... Pure, le cose stanno come te le dico.

[85]

«Tutto il mondo civile sfila per Roma: chi s’accorge del Quirinale? Il grande zimbello è il cupolone di San Pietro, lo spegnitojo, e in fin d’anno il papa ha benedetto più visitatori, che non abbiano passato in rassegna soldati i monarchi della triplice alleanza. Togli il papa, e dopo tante liquidazioni possiamo chiudere la bottega d’antiquarî che c’è rimasta.

— Tu scherzi, Ruggeri...

— Non ischerzo... Roma sabauda è appena tollerata dal mondo cattolico. Le ambasciate estere accreditate presso il Quirinale, quasi vergognose, non espongono gli stemmi dei loro governi. Gli stemmi sono privilegio riservato alle ambasciate presso il papa.

— È possibile? sclamò Giuliano.

— Non so se sia possibile, ma è vero. A Roma nulla di più vero dell’impossibile. E sì, caro Giuliano, che dell’acqua n’è passata sotto i ponti del Tevere, dal 1870.

«I principi cattolici non osano venire in Roma a rendere la visita ai re d’Italia, e la stessa regina d’Inghilterra, eretica, si fa visitare a Firenze.

«Credilo a me: due sovrani in Roma sono come due galli in un pollajo. Uno, per lo meno, è di troppo. Come puoi credere durevole la biarchìa giapponese in Roma, se anche nel Giappone ha messo capo alla guerra civile ed alla rivoluzione?

«Con tutto ciò, se vi ha Stato servile alle pretese clericali, sempre più esigenti, è il nostro.

«Tale disagio, tali incompatibilità sono in gran parte origine dello sfacelo morale e materiale che dalle pubbliche amministrazioni della capitale si comunica, direi si irradia, se il verbo non fosse a sproposito, per tutta Italia.

«Malaria! soggiunse Ruggeri, dopo breve pausa... Malaria! ripetè con gesto teatralmente solenne, girando [86] le braccia aperte, come per indicare ogni cosa, cielo, terra, il mare, sfolgorante da lungi ai raggi solari, come lamina di acciajo brunito.

«Malaria!

«Ed ora che, come era mio dovere, ti ho presentato alla vecchia nonna, della quale sei e sarai ospite nella qualità di legislatore, scendiamo per la via Trionfale e passiamo il Tevere. Più copioso d’acque del Rubicone; ma, d’acque torbide; torbide come le due politiche delle due Corti, nel torbido pescatori tutti, più o meno.

«Giuliano! Ancora una goccia del biondo Frascati, una sigaretta, e poi trionferemo. Il caffè lo berremo all’Aragno, l’anticamera di Montecitorio e di tutti i ministeri.

«Vi si fa della politica per dodici ore filate, dal tocco alla una dopo mezzanotte. È il caravanserraglio di Roma giornalistica, parlamentare e burocratica.

«Poi andremo a Montecitorio, ove ti sarò guida e donno meglio di Virgilio a Dante.

«E sì che le bolgie di Montecitorio sono ben più intricate di quelle dell’inferno dantesco.

Giuliano sorrise.

— Un inferno aggradevole, a quel che sembra, se tu che non vi sei costretto, vi passi le tue giornate.

— Oh, per questo sì. In Roma la condizione di ex onorevole, volontario, è la più invidiabile. Non le mille cure, le bizze, le ire, i dispiaceri, le seccature, le delusioni, ed anche i rimorsi, qualche volta, per chi ha coscienza, del deputato in carica; ma il diritto di frequentare le sale di Montecitorio... Il più grandioso club del mondo, senza le tentazioni ed i pericoli del gioco.

«Una biblioteca modello, tutte le riviste, migliaja di giornali, comfort inglese, la relazione, se vuoi, delle celebrità della scienza, delle lettere, per eccezione mandate [87] dal suffragio alla Camera, insieme alle notabilità politiche. Con tutto ciò, libertà assoluta, tale che in mezzo a quella folla appassionata, tumultuosa, puoi trovare la più completa solitudine. Come circolo, Montecitorio è una grande instituzione. Peccato non si possano vagliare i soci. Ahimè! i membri del club non si scelgono, bisogna pigliarli come il suffragio ce li manda... E come funzioni il suffragio, ne sai qualche cosa, Giuliano. Tu, soggiunse Ruggeri con espressione di affetto quasi paterno, tu prodotto, vittima forse delle recenti elezioni.

— Come sarebbe a dire? replicò Sicuri, sorridente, non sentendosi offeso per il tono affettuoso che aveva condita l’apostrofe poco lusinghiera dell’amico.

— Sarebbe a dire? Che tu, mio povero Giuliano, in quella bolgia, mi fai l’effetto d’un fanciullo caduto nella fossa dei leoni... Speriamo nel miracolo di Daniele.

Cozzati i bicchieri, i due amici si alzarono per avviarsi... Stettero un istante al parapetto del terrazzo a riguardare.

— Il panorama è veramente superbo; ti sono grato, caro Ettore, di avermi condotto qui; ti perdono perfino i paurosi paradossi politici coi quali hai voluto condire la colazione eccellente.

— Paradossi? Sei più giovane di me; è sperabile quindi che mi sopravviverai lungamente... Vedrai che cosa ti serbano la fine di questo secolo ed il principio del futuro...

«Vedi, laggiù a sinistra, laggiù all’estremità dei Prati di Castello? Vedi quel piazzale? Ebbene, è là che il giovane imperatore Guglielmo ed il re d’Italia passarono in rivista un corpo d’esercito... Guglielmo, lusingato dai ricevimenti festosi, entusiasmato dalla purezza del cielo di questa Roma sirena, pigliò sul serio [88] la sua parte di imperatore romano germanico, e da padrone, in casa altrui, precedeva di tutta la lunghezza d’un cavallo il re d’Italia, suo ospite, quasi fosse vassallo.

«Rientrando, si fe’ allestire un trono nella grande sala del palazzo Caffarelli, proprietà germanica al Campidoglio, per darsi l’illusione di imperare anche in casa nostra.

«Il giorno seguente, terminato il torneo eseguito a Villa Borghese... La vedi, là, dietro il Pincio... Segui la direzione di Porta del Popolo...

— Sì! sì! la distinguo.

— Nel fitto degli alberi vi ha un circo, chiamato Piazza di Siena. È là che si celebrò il torneo, esumazione della gloria di Casa Savoja; i conti Rossi e Verdi tornearono per due ore davanti l’ospito imperiale.

«A torneo finito, si organizzarono in corteo al seguito dell’imperatore, il quale dovette credere per un momento di essere ritornato ai tempi di Federigo Barbarossa... Ma, papa Alessandro era risorto nella persona di Leone, che nicchiava dai terrazzi del Vaticano. In quell’ora tutta la democrazia europea non era con i torneanti ed i trionfatori per il Corso... Un ritorno in ispirito alla lega lombarda.

— Quali esagerazioni!

— Esagerazioni, lo ammetto, perchè i tempi sono mutati. Ma, se la prima parte della profezia di Heine si è realizzata colle vittorie germaniche e la ricostituzione dell’impero, la realizzazione della seconda parte, il suo sfacelo, è in preparazione. Cieco chi non vede... Che dire poi della cecità dei sovrani, della insipienza dei loro consiglieri, i quali, nella città de’ Camilli, de’ Marcelli, de’ Fabî, de’ Scipioni, de’ Pompei, de’ Cesari, ti esumano le gesta dei conti di Moriana, per far comprendere agli alleati che Italia è un Piemonte ingrandito, [89] e Roma un feudo come il marchesato del Monferrato?

«L’apoteosi del Conte Rosso in Roma! Per lo meno umoristica!

***

I due commensali scesi per le scale e scalette serpeggianti nelle viscere del ristorante Belvedere, saliti in botte, si avviarono, per la via Trionfale, verso Roma.

Il cocchiere, messo di buon umore dalle abbondanti libazioni, le sfogava frustando e costringendo il povero bucefalo ad una corsa sfrenata.

I due amici erano ricaduti nel silenzio.

[90]

CAPITOLO VIII. Da Roma a Miralto.

Giuliano rincasava al tocco dopo mezzanotte. Era affranto dalla giornata faticosissima.

Dopo l’asciolvere di Belvedere, l’ingresso a Montecitorio, le formalità burocratiche per il suo riconoscimento ufficiale, e finalmente, senza la scorta di Ruggeri, amatissimo, ma importuno, per le sue contraddizioni, le eccentricità, il fare tutorio assunto, un banchetto improvvisato al Ristorante delle Venete, fra deputati antichi e novellini, di ogni età, di partiti diversi e diverso provincie, contestati o no, ed anche di qualche candidato non proclamato, corso a Roma per protestare contro la proclamazione del competitore; la nota funebre fra gli evviva della vittoria; i morti e feriti rimasti sul campo di battaglia!

Morti ribelli, invocanti dalla futura giunta il miracolo della risurrezione; feriti incurabili, fidenti nella guarigione. La giunta delle elezioni, la Madonna di Lourdes parlamentare.

Conforto per Giuliano il socios habere penantes, anzi, il trovarsi in condizioni migliori di altri antichi parlamentari, i quali, non proclamati eletti dall’assemblea dei presidenti de’ seggi elettorali, erano condannati al limbo degli ambulatorî della Camera, in attesa d’un problematico annullamento e nell’incertezza dell’esito d’una seconda prova alle urne.

[91]

Dei novellini, Giuliano ebbe le più cortesi accoglienze. Appena trent’anni, il più giovane degli eletti, la persona gentile, la simpatia inspirata dallo sguardo azzurro, dalla dolcezza quasi infantile, l’eleganza innata, l’abbigliamento inappuntabile senza pretensioni al dandinismo, il titolo autentico di conte e la fama di milionario, lo ponevano in una situazione eccezionalmente fortunata, tutte le cordialità furono per lui, anche quelle de’ pezzi grossi, più ritrosi e sdegnosi; nella gerarchia parlamentare, colonnelli e generali, che deducono la loro importanza, il loro grado, dal numero delle medaglie commemorative ciondolanti pesantemente dalle massiccie catene d’orologio, come il mazzo di chiavi dalla châtelaine d’una vecchia marchesa, feudataria massaja, delle commedie di Scribe.

È dei parlamentari come del vino: acquistano valore dal tempo, dal numero delle legislature; la loro importanza è classificata dall’anno della prima elezione, come il cognac dagli anni di botte.

I pochi superstiti del Parlamento subalpino sono specialmente apprezzati.

Per altro vi sono anche de’ giovani influenti ed ascoltati per il loro ingegno e per la loro abilità nell’intrigo; ma, essi rappresentano, fra i vecchi marescialli, gli ufficiali di stato maggiore, gli ajutanti di campo; quelli della maggioranza, in attesa della promozione a sottosegretarî di Stato; quelli delle opposizioni e sottocapigruppo, spesso assai più prossimi dei loro avversarî ministeriali al bastone di maresciallo, il portafogli. È facile a comprendersi; i primi, già acquisiti al potere, del quale godono giornalmente i piccoli favori, non occorre comprarli, dirò meglio, convertirli, coi favori grossi.

Tutte le strade menano a Roma, e nella Camera anche [92] i sentieri topograficamente più opposti, le scorciatoje più disastrose possono condurre al banco dei ministri.

La coerenza non è ingrediente necessario alla composizione degli uomini di Stato... Viceversa, ai convinti, agli ostinati, raramente la fortuna sorride; si premiano le transazioni, non la fermezza nelle convinzioni.

La qualità di legalitario, vale a dire di disponibile, non nuoceva a Giuliano, lusingato fino all’entusiasmo dalle liete accoglienze.

— Do già del tu a mezza Camera! pensò con soddisfazione infinita, lasciandosi cadere nella soffice poltrona del salotto numero 11, mentre il cameriere accendeva la lampada.

Alla Camera italiana vi è fra deputati la democratica abitudine, non so se invalsa per un residuo di tradizione latina, o se ereditata dalla rivoluzione francese, di trattarsi confidenzialmente alla seconda persona singolare, senza tener conto delle differenze d’importanza parlamentare, di posizione sociale o d’età. I meridionali abbandonarono il voi spagnuolo e latinamente si tuteggiano come gli antichi quiriti.

I La terza persona, l’ella ed il lei toscano, non servono che nelle discussioni pubbliche nell’aula.

Giuliano non aveva indagato le origini di tale consuetudine, ma inorgogliva della confidenziale intimità accordatagli da celebrità, che la distanza non aveva impicciolite e da Miralto gli eran sembrate imponenti. Il duca d’Ermida, il gran capo della Destra e gran signore, per giunta, presidente del consiglio spodestato, ma indicato per le prossime combinazioni, non solo gli aveva promesso d’occuparsi della sua elezione; lo aveva anche invitato alle serate intime... non politiche.

[93]

Si capisce, un neofita legalitario non avrebbe potuto accedere al tempio della Destra pura, nei giorni di solennità. Era già altissimo onore il poter fare capolino nella sagrestia.

E Giuliano vaneggiava, richiamato soltanto alla realtà dalle lettere, dai giornali che ingombravano il tavolino. Tutta la posta della giornata, la corrispondenza intima da Miralto, che per espresso suo desiderio non gli era stata spedita alla Camera.

Due lettere voluminosissime della sua Adele; alla soprascritta di una terza riconobbe la calligrafia del sottoprefetto; i giornali eran pure di Miralto.

La fisionomia di Giuliano si abbujò e, mentre il cameriere, presso la porta, in rispettoso atteggiamento di attesa sollecitava le disposizioni per il mattino seguente, fatto un pacchetto dei giornali li gettò sul canapè, dicendo a voce alta, credendosi solo:

— Non voglio amareggiarmi; li leggerò domani.

Prese le lettere della sua Adele, e baciandole mormorò:

— Poverina! Due in un giorno! A te risponderò subito.

Il cameriere tossì, per non rimanere più a lungo inavvertito.

— Ah! siete là? Tanto meglio! Portatemi del caffè e del cognac.

Solo, aperse delle due lettere la prima capitatagli, la lesse con compiacenza infinita... A volta un sorriso, un sospiro, e la lettura continuava non senza difficoltà, essendo i fogli, non numerati, coperti di caratterini fitti, tracciati in tutti i sensi ad inferriata.

A lettura finita, nella pupilla di Giuliano brillava una lacrima, una lacrima di tenerezza, una goccia vivificante di rugiada.

Lesse rapidamente anche la seconda, più breve; la rilesse commosso.

[94]

Al cameriere che entrava col vassojo:

— Domattina, inutile svegliarmi... Troverete sul tavolo una lettera ed un telegramma; bisognerà spedirli subito... Presto, chè la lettera possa partire col primo treno. Per il caffè chiamerò io.

Il cameriere s’inchinò e sparì discreto come ombra. Giuliano, riletti alcuni brani delle care lettere, sorseggiato il caffè, centellinato il cognac, si dispose a scrivere:

«Adele mia!

«Così ti desideravo. Le tue lettere mi rendono felice. Anche tu hai compreso che altri doveri incombono ad ogni cittadino, oltre quelli della famiglia; altro affetto dobbiamo nutrire, del quale l’amore non deve, non può essere geloso... l’amore di patria...»

Giuliano sostò; punto soddisfatto dell’esordio, lacerò il foglio, mormorando:

— La deputazione mi dà sullo stile. Scrivevo ad Adele un proclama elettorale... La patria c’entra come i cavoli...

Si rimise all’opera:

«Mia cara Adele.»

Stette colla penna sospesa senza scrivere altro; meditava distratto, il pensiero batteva la campagna, i fumi di Montecitorio gli ottenebravano la mente, i personaggi conosciuti nella giornata gli sfilavano innanzi come se riflessi dalla lente d’una lanterna magica; l’invito del duca d’Ermida, le promesse, le cortesie degli uni, i progetti di altri, i brindisi del banchetto...

Quando, una diversione inattesa mutò d’un tratto la corrente de’ suei pensieri.

[95]

Poco lungi dall’albergo, in via Torino, le melodie d’una serenata di mandolini e chitarra, accompagnanti il canto un po’ gutturale di un tenorino, delizioso nelle inflessioni delle mezze voci, strazianti per l’accento di profonda, dolce malinconia. Uno stornello che pareva lamento: la distanza ammortiva lo stridulo degli strumenti e l’aria fredda della notte serena vibrava soavemente al canto innamorato.

Giuliano, aperte le imposte, si affacciò per intender meglio. Gemevano discreti i mandolini; il tenore cantava:

Fiore di spino:

Più furgida tu sei, più d’una stella,

Più candida tu sei d’un girsurmino...

e nel profondo silenzio notturno, l’eco luminosa dei taciti astri; alle vibrazioni del canto romanesco sposavansi le vibrazioni di luce del cielo stellato. Un bisbiglio di voci sommesse, il rumore di imposte chiuse, i passi lenti de’ serenanti che s’allontanavano. Nel lontano, come ultimo saluto, ancora una nota squillante del tenorino, una nota prolungata d’addio, poi il silenzio.

Il freddo intenso costrinse Giuliano a ritrarsi dalla finestra. Mezzo intirizzito si rimise al tavolo:

«Mia cara Adele,

«Più furgida tu sei, più d’una stella,

Più candida tu sei di un girsurmino...»

Sostò... Una voglia matta di partire per Miralto, un accesso delirante di nostalgia innamorata... Gettò la penna:

— Stanotte impossibile scrivere... Domani!

[96]

***

Domani! Domani la politica! Domani l’amore! Misero uomo di stato, il nostro Giuliano!

Accese una candela per ritirarsi nella camera da letto; ebbe un pentimento:

— Almeno un telegramma, poverina!

Scrisse su d’un modulo telegrafico un saluto eloquente, preannunziando per il giorno seguente una lettera-volume, promettendo imminente una gita a Miralto.

Il sonno fu tardo; lo stornello gli martellava il capo, e i sogni furono per la sua Adele adorata, più candida assai di un girsurmino.

················

Il sottoprefetto quella notte era in ribasso.

***

Il mattino seguente, di buonissima ora, Giuliano, avvolto nella veste da camera, al crepitìo della fiamma avvampante del caminetto, scriveva, compensando il ritardo a rispondere colla lunghezza della lettera, fedele racconto delle sue impressioni, dall’arrivo in Roma.

Roma li....

«Adele mia,

«Non hai idea del tempo che si perde in questa Roma farraginosa... Appena se jeri trovai modo di scrivere il telegramma, che avrai ricevuto stamani. La mia giornata fu tutta assorbita da mille faccende; ed a sera, rientrando, mi sentivo talmente affaticato che non seppi rispondere alle tue care lettere, le quali [97] mi attendevano da parecchie ore, poste in evidenza dalla mano intelligente del cameriere, sul tavolino, sovrapposte al plico della corrispondenza, lettere, giornali che non ho peranco aperti.

«Giornata di emozioni quella di jeri; più lietamente non poteva terminare.

«Le tue affettuose resipiscenze mi colmano di gioja. Credi tu che ci ameremo meno a Roma?

«Scrivendoti dalle due camerette dell’albergo del Quirinale, ancor sature de’ dolci ricordi del nostro viaggio di nozze, sono convinto del contrario. Scorsero tre anni e mesi, eppure, qui, tutto mi parla di te, del nostro amore. Nulla, nulla è invecchiato, nulla è mutato, come se cento altri viaggiatori non avessero soggiornato dopo di noi in queste camere. Sul tappeto del tavolino, dal quale ti scrivo, scorgo ancora la traccia della goccia d’inchiostro che lasciasti cadere scrivendo la prima lettera alla tua povera mamma; la prima, dopo la nostra partenza da Miralto; lettera a quattro mani, dalla redazione tanto laboriosa, perchè, pur volendo esprimerla, non osavi dir tutta la nostra felicità, temendo ingelosire, offendere la buona donna inconsolabile della tua lontananza... Ricordi? Erano scatti di gioja che traboccavano dalla tua penna, che, riletti, ti facevano arrossire come offesa al tuo pudore, ingratitudini, insulto al di lei dolore.

«Quante cancellature e pentimenti e aggiunte in quella brutta copia... E quanti baci! Ricordi?

«In Roma ti amerò ancor più. Miralto è uno spegnitojo. La nostra esistenza felice finirebbe per sembrarci monotona. L’eccessiva tranquillità, turbata ora soltanto e momentaneamente dalle agitazioni, dalle polemiche elettorali, col tempo ci parrebbe scipita...

«Ci ameremo ancor più! Tu, dolce, diletta suora di [98] carità, sarai il mio conforto nelle delusioni, che, pur troppo, prevedo grandi; mi sarai consiglio.

«La nostra casa sarà l’oasi benedetta, nella quale, nelle stanchezze delle lotte politiche, troverò riposo all’ombra del tuo amore... Qui potremo preparare un avvenire a nostro figlio...

«Mi scrivi che a Roma l’idillio sarebbe finito; ebbene, incominceremo il romanzo; un romanzo sereno, tutto amore; non so se sarà un romanzo moderno; ma certamente, per noi, un romanzo felice.

«A Roma non passeremo che sei mesi dell’anno; i ritorni a Miralto, dopo le lunghe assenze, ci faran sembrare più bello il nostro piccolo palazzo, tanto piccino in confronto dei mastodonti romani, più amena la veduta dei campi verdi solcati dal limpido fiume, più ridente il nostro giardino... L’idillio riprenderà a dispetto del romanzo...

«Ti preoccupi del dispendio... Ma, cara mia, siamo abbastanza ricchi per poterci accordare il lusso del soggiorno in una grande città durante i mesi gelidi dell’orribile inverno di Miralto. D’altronde qui gli affari, onesti s’intende, sono facili e promettenti per chi voglia, colla dovuta prudenza, cercare impiego fruttifero ai proprî capitali... Senza rischî, tu potrai facilmente raddoppiare il reddito della tua dote, ora paurosamente sepolta nei sotterranei della Cassa di risparmio di Milano. Io stesso potrei impiegare meglio, convertendo in altri valori, i titoli di rendita provenienti dall’eredità dello zio Giuseppe. Bisognerà pur rifarci delle spese di questa benedetta elezione, forse a ragione da te osteggiata, ma che ora s’impone inesorabile. Tu stessa ne convieni, retrocedere sarebbe scorno troppo grave.

«Così ti volevo, ragionevole di fronte ad un fatto [99] compiuto, ineluttabile; dicono i Francesi: le vin est tiré, il faut le boire.

«Ed ora, cara mia, eccomi a dar evasione, come direbbe il sottoprefetto Cerasi, alla pratica che registreremo nella rubrica curiosità.

«Tu vuoi saper tutto, non solo le mie azioni, le mie impressioni, perfino i miei pensieri. Dalla buona volontà che metterò nel soddisfare la tua legittima curiosità, dipenderanno, tu dici, le tue decisioni future.

«Imaginati con quale ardore mi ci metto, e ti giuro che non solo dirò la verità, ma tutta, tutta la verità. Ora che sei ritornata ragionevole, sarebbe tradimento nasconderti il minimo incidente che può interessarti. Non sei tu la mia alleata? Con te e per te! Questo il mio programma. Ti va?

«Impressione per impressione, comincio dalla fine. Di deputati ve ne sono sempre troppi in Roma, il numero nuoce alla loro importanza fuori del sacro recinto della Camera.

«L’aggettivo di onorevole a Roma ha tutt’altro valore che in provincia. È moneta erosa e non fu senza sorpresa che vidi deputati e perfino ministri messi dal pubblico a livello della folla.

«Democrazia ammirabile, se la disinvoltura colla quale viene accolta la nostra presentazione fosse inspirata ad un sentimento di eguaglianza e non al discredito della carica che copriamo.

«Congratulazioni al nuovo giovane eletto a migliaja; pare, da ciò che scrivono i giornali, ch’io sia il più giovane deputato della Camera; congratulazioni al vincitore delle urne contro un radicale sbracato, non al deputato.

«I cavalieri, i commendatori pullulano a migliaja in Roma, considerati quanto e più di noi. L’importante [100] è di avere un qualificativo da far precedere al proprio nome e quello di onorevole non è il più onorato dal pubblico.

«Ruggeri ad una mia osservazione in proposito rispose: I funzionarî titolati vengono nominati a vita; i deputati invece sono fenomeni elettorali momentanei. La condizione di deputato è transitoria e fuori della Camera non ha valore che per gli elettori postulanti ai ministeri, ove poi, per compensazione, i commendatori burocratici sono potenze che trattano da pari a pari coi legislatori.

«La spiegazione di Ruggeri non mi ha appagato, e non ti nego che il mio amor proprio di neo eletto fu ben poco soddisfatto, accorgendomi che il mio titolo di conte è assai più apprezzato di quello di deputato.

«Nemo propheta in Roma! soggiunse Ruggeri, sorridendo allo sfogo della mia onorevolezza delusa.

«Bisogna convenire, per altro, che in gran parte i deputati poco fanno per rialzare la dignità della loro carica colle forme esteriori.

«Se ne togli un centinajo, più o meno accurati nel vestire, i rimanenti rappresentano troppo fedelmente negli abiti e nei modi gli elettori dell’articolo 100. E in Italia, dice quel matto di Ettore, paese artistico per eccellenza, è l’abito soltanto che fa il monaco. I deputati hanno per sola indennità la libera percorrenza ferroviaria; ve ne sono di poveri, poverissimi, costretti, se onesti, all’esistenza degli infimi travetti. Come vuoi, soggiunge Ruggeri, che la dignità di legislatore sia rispettata nelle taverne romanesche, fra il puzzo dell’aglio e delle fritture coll’olio rancido, dai clienti cenciosi, dalle etere dei trivî?

«Si indicano i martiri della miseria legislativa, nobili vittime del loro disinteresse.

[101]

«Deputati viaggianti ogni notte nei treni diretti per mancanza d’una soffitta ove dormire, onorevoli periodicamente naviganti sui piroscafi postali per potersi tratto tratto sfamare alla lauta mensa della Società di navigazione, che era concessa gratuita agli onorevoli, ora non più.

«Ruggeri cita un collega che racimolava i resti di candele alla Camera, per non coricarsi all’oscuro.

«La è storia antica, perchè, ormai, i deputati veramente poveri sono eccezioni rarissime; eccezioni ancor più rare, quelli disposti al martirio.

«Le condizioni nuove delle lotte elettorali tengono a distanza dalle urne i poveri. Per quei pochi, a ciò che dice Ruggeri, i mezzi di corruzione sono infiniti e difficilmente ponno sottrarvisi; gli adescati finiscono per soccombere le maggioranze si fanno sempre più imponenti.

«Vedi, mia dolce Adele, che ti dico tutto. Ma noi, fortunati, non avremo nulla da chiedere, e, passata la crisi della elezione contestata, potrò riprendere intiera la indipendenza, la libertà d’azione.

«Ora sono costretto a certi riguardi, non solo per l’avvenire, anche per il passato. Parrebbe ingratitudine nera verso il Governo lo schierarmi oppositore, dopo l’appoggio avuto nella lotta elettorale.

«Ho già veduto parecchî ministri, quello dei lavori pubblici; il Grande Elettore, come lo chiamano i giornali avversarî, fu veramente cortese. Per la recente, strepitosa vittoria elettorale, a lui attribuita in gran parte, è onnipotente nel gabinetto.

«Mi parlò con interesse del nostro sottoprefetto e convenne che un funzionario sì devoto ed intelligente, atto a rendere tanti servigî, non deve rimanere più a lungo nella oscura situazione nella quale è lasciato da [102] troppi anni. Mi promise di parlarne al presidente del consiglio, ministro dell’interno, al quale sarò presentato oggi da un celebre giornalista, più influente, dicono, degli stessi ministri, presso il quale mi giovò assai la raccomandazione del sottoprefetto.

«A proposito, le di lui lettere di presentazione non le recapitai ancor tutte. Il tempo manca, le giornate dovrebbero essere di quarantotto ore; domani mi recherò certamente da monsignor Arrighi e dalla contessa Morin.

«Fra tre giorni la grande solennità: l’inaugurazione della legislatura, colle due Camere riunite nell’aula di Montecitorio e tutti i poteri dello Stato.

«Il re pronunzierà il discorso inaugurale, presenti tutti i principi colle loro case civili e militari. Lo spettacolo sarà imponente... Ti vorrei qui. Ma i tuoi capricci hanno ritardato la tua venuta in Roma.

«Mi metterò in cerca d’un appartamento, e fra poco avrò la gioja di venirti a prendere a Miralto. Vedrai, saremo felici anche qui.

«Ho ancora tante cose da dirti; ma l’ora incalza.... Sono aspettato dal mio presentatore presso il presidente del Consiglio... E poi, non vorrei perdere il corriere... A stasera, adunque, la continuazione di questa lettera, già troppo lunga.

«Frattanto, a te mille baci, mille al nostro piccolo Gustavo; alla signorina Stella, coi miei, i saluti di Ruggeri, che me ne incaricò tacitamente, per suggestione, l’originale. Di lui ti scriverò; è ancor più strano; ma, pur sempre affettuoso... Addio! No, arrivederci presto, fra qualche giorno, a Miralto.

«Il tuo Giuliano

Come il lettore avrà notato, Giuliano scrisse bensì la verità alla sua Adele, ma non tutta la verità. Aveva [103] taciuto delle diecimila lire versate in acconto a Ferretti, il cui nome per pudore non aveva osato scrivere.

Ed accennando alle cause del discredito del titolo di onorevole, aveva sorvolato su tutto ciò che gli aveva narrato la mala lingua di Ruggeri; di deputati abbrutiti, scacciati senza formalità dalla Camera; di certo portafogli sparito per opera d’un collega, dalle tasche del soprabito di un deputato; di onorevoli giunti poveri a Montecitorio, in pochi anni milionarî; di debiti strepitosi di alcuni; di quadri spariti da gallerie fidecommissarie, per infedeltà del deputato titolare; di deputati arbitri ne’ litigi del Governo, ricchi e straricchi a forza di benevole transazioni; di medaglie parlamentari ricattate dalla presidenza in luoghi innominabili; di mezzane da trivio diramanti le loro circolari erotiche su carta intestata della Camera; di onorevoli falliti o compromessi nei cracks più clamorosi; di note associazioni fra deputati ed appaltatori governativi; di ogni specie e notorie scandalose incompatibilità morali e materiali; di affaristi trafficanti da una parte la loro influenza politica, dall’altra il loro voto.

E deputati giornalisti venduti, lautamente impinguati coi fondi segreti, e deputati corruttori, compiacenti mezzani di transazioni politiche dei colleghi, per conto di ogni gabinetto.

— Ti ho detto, aveva soggiunto Ettore al giovane amico, che Montecitorio è il club più aggradevole del mondo; ma, pur troppo, non si possono, come negli altri circoli, vagliare i membri; bisogna accettarli quali vengono, come il suffragio li manda... Ma se ciò è a danno del prestigio parlamentare, non lo è per i gentiluomini onesti, veramente onorevoli, onestamente esercitanti il loro mandato. Il discredito che colpisce la carica, si muta per essi in un aumento di stima. L’onestà, che [104] dovrebbe essere obbligo per tutti, è merito speciale. Vi è il libro d’oro anche alla Camera e, ad onta delle perenni seduzioni, sono numerosi i migliori di ogni partito che su quel libro dell’aristocrazia dell’onore hanno diritto d’essere inscritti.

Per pudore, Giuliano, non aveva detto tutto alla sposa, alla nuova alleata, come l’aveva chiamata. Costretto dalla riconoscenza, direi, dalla complicità e dalla sua difficile situazione di contestato, a servire un Governo che cominciava a disistimare, si sentiva menomato nella propria stima, e preferì sorvolare.

Spedita immediatamente la lettera, Giuliano accingevasi ad aprire il corriere lasciato intatto la sera precedente, quando la porta del salotto, senza preavviso, si spalancò violentemente.

Giuliano che, seduto al tavolo, volgeva le spalle all’ingresso, balzò alla rumorosa irruzione. Riconoscendo Ettore, pallido, immobile sul limitare, gli corse incontro come per chiedergli ragione di quell’entrata drammatica; ma non formulò parola, presentendo una sventura.

— Non sei ancora partito? chiese severamente Ruggeri.

— Partito? E perchè? Per dove?

— Non hai letto? Non hai ricevuto i giornali di Miralto? Nessuno ti ha telegrafato, ti ha scritto?

— Che è dunque avvenuto? Adele? Mio figlio? In nome di Dio, parla!

E ravvedendosi si slanciò verso il tavolo; afferrato il primo giornale capitatogli sotto mano, febbrilmente ne lacerava la fascia.

Accorse Ruggeri.

— No! Nessuna disgrazia a’ tuoi... Non dovevo allarmarti così! Ma io credevo che tu li avessi letti i giornali... Per ciò mi meravigliavo di vederti qui. Ora sono io che devo chiederti scusa.

[105]

— Che è dunque avvenuto? chiese trepidante Giuliano.

— Nulla di irreparabile... Maledetti i nervi... Tutti così voi altri giovani; noi, peggio, siamo violenti... violenti sino alla brutalità, scusami. Dammi quel maledetto giornale; lo leggeremo poi, e ascoltami... Ti dico che nessuna disgrazia è avvenuta ai tuoi... Dammelo, quel libello infame! riprese Ettore, strappando di mano il foglio a Giuliano... Siediti e parliamo con calma. Ne abbiamo il tempo. Ormai, perduto il treno del mattino per l’Alta Italia, non puoi partire che con quello di Firenze, alle tre. Siediti, ti dico, ed ascoltami. Quando partisti da Miralto, sapevi che il giorno seguente vi sarebbe stato un gran pranzo dal sottoprefetto? che tua moglie era invitata colla sua amica, la signorina... la signorina Stella, riprese dopo breve pausa, quasi avesse provato difficoltà a pronunciare il nome della giovinetta.

— Sì, lo sapevo, e non vidi ragione di oppormi. Adele era tanto addolorata per la mia partenza, ch’io fui liete della distrazione che le si offriva; fui io ad insistere.

— E di male non ve n’era infatti. Leggi ora che cosa stampa Il Ventriloquo, il giornale tuo avversario...

«Leggi.

Il breve entrefilet del foglio diceva così:

Amore e politica.

«Gli assenti hanno sempre torto, dice il proverbio, che ha quasi sempre ragione. Da Menelao in poi, i destini dei mariti assenti si ripetono e si rassomigliano. Anche per oggi la rupe Tarpea è molto prossima a... Montecitorio.

«Alle lacrime della separazione, succedono troppo spesso e troppo presto i conforti della lontananza, i confortatori non mancano mai.

«In un collegio d’Italia, anzi dell’Alta Italia, partito [106] il nuovo eletto, il personaggio che l’aveva fatto eleggere celebrava con un sontuoso banchetto la vittoria elettorale del Governo. La bellissima Penelope sconsolata era fra gli invitati e vi si recò accompagnata dall’inseparabile amica, un astro fulgidissimo. Essa pure aveva bisogno di distrazioni e conforti, eroina d’un romanzo, che Mascagni potrebbe musicare, essendo il preciso pendant dell’Amico Fritz, salvo lo scioglimento.

«Dopo il pranzo, le danze. Euterpe e Tersicore furono sempre le mezzane più pericolose, e sembra abbiano sedotto la bella Penelope, troppo lungamente insensibile ai sospiri dell’azzimato spasimante, fortunato alpinista di pianura, che, dopo tante inutili escursioni sotto le impassibili finestre, ha finalmente compiuta l’ascensione al primo piano, raggiungendo la vetta de’ suoi ideali.

«Ogni fatica merita premio; le prestazioni dell’artista burocratico volevano una ricompensa.

«La scultura piange. Michelangelo s’è mutato in Don Giovanni.

«E l’assente? Georges Dandin, tu l’as voulu.»

— È un’infamia, urlò Giuliano, che ad ogni frase di quella lettura aveva sussultato come un torturato ai morsi della tenaglia rovente. È un’infamia inaudita! Hai ragione, Ettore; è necessario ch’io parta subito per schiaffeggiare il miserabile libellista.

— No, caro Giuliano, non devi schiaffeggiare nessuno; simili sozzure non si raccolgono. Devi partire, invece, per impedire il duello di quello sciocco di segretario del sotto prefetto, Guglielmi, che, essendosi riconosciuto nell’artista burocratico, indicato dal giornale, mandò i padrini alla redazione del Ventriloquo. [107] Atteggiandosi a paladino, l’imbecille compromette ancor più quell’angelo di tua moglie. È necessario evitare un nuovo scandalo, ad ogni patto!

«Ma tu, che deputato sei? Non leggi i giornali del tuo collegio? Sì dicendo, Ruggeri si alzò, e dal pacco di corrispondenze scelse un giornale. Almeno il tuo l’avresti dovuto scorrere, e non ti sentivi il coraggio di ingojarla tutta la prosa dei tuoi redattori?... Leggi dunque: qui, in terza pagina.

Questione d’onore.

«Sappiamo che, a proposito di un articolo infame pubblicato in un libello cittadino, il signor Aristide Guglielmi, ritenendosi indicato dal giornale calunniatore, ha mandato a quella redazione i suoi padrini.

«Deploriamo, perchè questa è una di quelle vertenze che non possono essere risolte sul terreno dell’onore... Contro i libellisti insultatori e calunniatori di donne, sola arma il codice penale... Quantunque a punizione dell’abietto libellista potrebbe bastare l’universale disprezzo.»

— Ed ora leggi, più sotto, le ultime righe dell’ultima colonna: lì, lì, soggiunse Ruggeri, sotto al titolo Comunicato.

Il giornale a caratteri cubitali aveva stampato:

Comunicato.

«Riceviamo e di gran cuore pubblichiamo, rendendo omaggio alla lealtà del nostro avversario:

«Onorevole Direzione del giornale L’Onesto.

«Avendo letto oggi sul giornale il Ventriloquo un articolo contenente gravi insinuazioni a carico di una gentildonna e di una rispettabile signorina, [108] mi affretto a dichiarare che respingo ogni solidarietà col disgraziato redattore, che acciecato trascorse a tal punto, e deploro altamente l’inqualificabile pubblicazione. Per i miei rapporti precedenti col citato giornale avrei potuto essere sospettato annuente, però, a tutela del mio onore, mi rivolgo alla di lei cortesia, signor Direttore, perchè voglia far pubblica questa mia dichiarazione. Ringraziando:

«A. Bertasi ex deputato.»

— Come lo riconosco a tale lettera, il bravo Bertasi! È doloroso il trovarsi in lotta contro di lui! sclamò Giuliano, alquanto tranquillato dai due commenti all’articolo calunniatore.

— Vedi! vedi, qual uomo sei!? sclamò indispettito Ruggeri, che fra l’altre aveva scoperta la lettera datata da Miralto, da Giuliano non ancora aperta. Qui hai una lettera col timbro di Miralto, e non ti sei neppure degnato di lacerarne la busta. Vedila subito; vi saranno altri particolari.

— Ah, la lettera del commendatore Cerasi... disse Giuliano... Jeri sera rientrai tardi; la mattinata l’ho passata scrivendo; stavo per aprirla, quando sei venuto. Con mano tremante ruppe il suggello di cera portante lo stemma dei Cerasi. Era una lunga lettera scritta a caratteri grossi, inclinati a sinistra; a prima vista un manoscritto, gotico; l’illustre professore Lombroso avrebbe potuto dedurre il carattere dell’uomo da quella calligrafia, che nella dura regolarità rivelava la fermezza e la metodicità del burocratico politico. Giuliano, nella paurosa curiosità, saltò i primi foglietti, cominciando dalla chiusa, e lesse ad alta voce:

«La signora contessa non ne sa nulla; per fortuna [109] non legge i giornali e non ricevendo alcuno, non è a temersi il pericolo di una indiscrezione.

«L’indignazione in tutto il collegio è grande e, dal punto di vista politico-elettorale, la sudicia pubblicazione ha giovato.

«Basterà presentare alla giunta delle elezioni un simile documento, per provare in qual modo combattano ed abbiano combattuto i nostri avversarî, che sono pure gli avversarî delle istituzioni. Il di lei competitore, l’ex deputato Bertasi, tenta abilmente prevenire il colpo con una lettera che l’Onesto, troppo ingenuamente, ha pubblicata. Era al suo Ventriloquo che doveva mandarla.

«Ma la giunta ed il pubblico non saranno tanto ingenui da prestar fede alla ipocrita e tardiva resipiscenza...

— Ah, questo è troppo! sclamò Ruggeri. Bertasi è un galantuomo...

— Ne sono convinto anch’io, rispose Giuliano... Pure, ciò che dice il sottoprefetto è assennato... Un documento simile deve essere una prova capitale davanti alla giunta.

— E tu lo vorresti portare in giunta? Compromettere l’onore di tua moglie, trascinare il di lei nome davanti a giudici cinici, i quali, pur dandoti ragione, piglierebbero per vangelo le calunnie, ridendo della tua ingenuità? Non sai che al male si crede sempre, più facilmente che non al bene? Non ti basta dello scandalo di Miralto, per volerlo rinnovare alla Camera? A Miralto la tua Adele è conosciuta, quindi rispettata come una santa... A Miralto non vi è un solo individuo che possa credere ad una sillaba di quell’articolo; ma, qui, a Roma, la città degli scandali! Il tuo sottoprefetto, per avere avuta una simile idea, deve essere un fiero farabutto.

[110]

Giuliano, che non aveva trovate obiezioni, ballottato nell’incertezza, quantunque tranquillato dall’assicurazione che la sua Adele viveva nella completa ignoranza dell’accaduto, continuò la lettura:

«È anche importante evitare il duello del mio segretario Guglielmi. Un duello sanerebbe tutto dal punto di vista politico, perchè la di lei personalità scomparirebbe e il grave scandalo, senza scemare negli effetti morali, assumerebbe davanti ai magistrati parlamentari il carattere di una bega di innamorati e non di un fatto politico. La mia autorità non vale presso quel ragazzaccio di Guglielmi, che al mio divieto rispose colle dimissioni. Riservandomi di usare la forza in caso estremo, sarebbe bene che ella intervenisse direttamente per ottenere la desistenza, senza ch’io sia costretto ad aggravare lo scandalo.

«Venga dunque a Miralto, se gli affari glielo concedono. In ogni modo telegrafi e scriva, affinchè io sappia a che attenermi.

«Con affetto e stima,

«Suo devotissimo Cerasi

— Siamo d’accordo! sclamò Ettore, quando la lettura fu finita. D’accordo, partendo da punti diametralmente opposti. Egli vuole gonfiare lo scandalo per servirsene come arma di difesa politica; da Miralto vuol portarlo a Roma onde eternarlo negli archivi della Camera, e propalarlo dal tribunale della giunta; io voglio che muoja ove è nato, nel fango di Miralto. Le dimissioni di quell’imbecille di segretario aggravano ancora il fatto, lo Svegliarino di stamattina ne ha già parlato.

«Via, prepara la valigia, annunzia per telegrafo il tuo ritorno e piglia il treno delle tre.

[111]

«Un duello, e nessuno toglierà di testa alla gente che il Guglielmi sia l’amante di tua moglie.

Giuliano non rispose. Gettata la lettera sul tavolo, senza neppur leggerne i primi fogli, si mise a passeggiare concitato per l’angusto salotto, indeciso sul da fare.

— Appunto alle tre dovrei essere presentato al presidente del Consiglio, sclamò arrestandosi d’un tratto... Non posso mancare. Partirò stasera.

— Stasera sarà troppo tardi! proruppe Ruggeri indignato. Metteresti l’udienza del ministro in bilancia coll’onore della tua famiglia?

— Parti tu... sarà meglio. Io ti raggiungerò domattina, pigliando il treno delle dieci stasera!

A Ruggeri caddero le braccia... Sdegnò aggiungere altre sollecitazioni.

— Partirò, disse; ma, dammi la parola d’onore che domattina sarai a Miralto.

— Te la do, rispose Giuliano porgendo la mano all’amico.

Ettore finse di non avvedersene e non stese la sua. Susseguì lungo silenzio, imbarazzante per entrambi.

Pure l’affetto, in Ruggeri, prevaleva allo sdegno. Sorgendo finalmente da sedere, in atto di congedarsi, disse:

— Forse meglio così! Domattina a Miralto. Previeni il sottoprefetto della mia partenza. Spero che, all’arrivo, tu avrai soltanto da ratificare e mettere lo spolvero su ciò che avrò combinato. Tu va dal tuo presidente del Consiglio, e dio te la mandi buona!

«A domani adunque! riprese sorridendo.

Ma, appena uscito, scotendo il capo mormorò:

— Disgraziato! Non c’è nulla da farne, nulla da sperarne. Ormai si preoccupa più della convalidazione che della famiglia, del suo amore, del suo onore!

[112]

CAPITOLO IX. Un dietroscena politico.

Ruggeri ebbe un pentimento di aver insistito per la partenza immediata.

Il diretto Roma-Firenze-Milano lo lasciava a Piacenza, ove, dopo lunga attesa, un treno misto lo avrebbe condotto a Miralto alle tre dopo la mezzanotte.

I trasbordi notturni invernali, le continue interminabili fermate a tutti i punti neri della carta geografica ferroviaria, lo squallore delle stazioni secondarie deserte, l’aggirarsi silenzioso, come di ombre, de’ guardafreni muniti di lanterne, i bagliori intermittenti delle torcie a vento dalle fiamme rossiccie, la lentezza del treno, hanno qualche cosa di funereo; un supplizio orribile per chi è afflitto dalla febbre dell’impazienza di giungere alla meta.

L’orario prometteva l’arrivo per le tre; Ettore scese di carrozza alle quattro.

Qual vantaggio su Giuliano, che sarebbe giunto alle dieci del mattino?

Alle quattro di notte, a Miralto, in novembre, perfino i lucignoli delle lampade a petrolio dormono avvolti nel lenzuolo di nebbia, che tutti gli Edison del mondo non riuscirebbero a rendere trasparente. I due alberghi, il Leone di San Marco, e la Croce di Malta, a quell’ora, certamente chiusi; non un facchino per portare la valigia, e la stazione immediatamente chiusa appena ripartito il treno; una lunga infilata di carrettoni funebri, [113] simili a quelli dell’ospedale; fra il rosseggiare delle torcie a vento, un grandioso funerale di miserabili.

Ettore, trovatosi solo sul piazzale della stazione, si dolse di averne lasciata chiudere la porta. Meglio avrebbe fatto chiedendo ospitalità per qualche ora. Solo, in quella immensità di bujo e di nebbia non avrebbe mai potuto orizzontarsi per quanto pratico dei luoghi... Un gran piazzale fiancheggiato da due allee di alberi, due ripide scarpe a destra ed a sinistra senza parapetto, e più innanzi lo stradone provinciale, una specie di argine più alto di parecchi metri del fossato delle antiche mura, parallele alla strada, e dei prati svolgentisi sulla destra, poi ancora una svolta a mano manca per giungere alla porta di San Valerio, tagliata nello spessore degli enormi muraglioni medievali. Entrato in città, meno male! tastando le muraglie, colla scorta dei radi bagliori dei fanali, affogati nell’atmosfera fumosa, viscida e nera, avrebbe forse potuto raccapezzarsi. Ma come giungere fino alla porta, lontana più di un chilometro?

— Decisamente Giuliano aveva ragione. Meglio era partire col diretto... Ma, in provincia, i duelli, come nei romanzi, si fanno pur sempre all’alba; necessario quindi, per impedirlo, giungere prima del giorno.

«Il giorno? Quando verrà? Con questa maledetta nebbia sarà notte anche a mezzodì.

«E quel signor sottoprefetto che non si è neppur degnato di mandarmi ad incontrare? Scommetto, Giuliano si è dimenticato di telegrafargli!

Ettore calunniava il degno funzionario, troppo cortese per non aver dato ordine a due agenti di incontrare l’ex-deputato e di scortarlo in città.

Anche il proprietario della Croce di Malta era stato prevenuto dell’arrivo di Ruggeri; ma, meno previdente, [114] l’albergatore non si era curato di mandare alla stazione.

Ruggeri, nel più grande imbarazzo, si accingeva ad affrontare il bujo, tentando la traversata.

— Sarò guardingo per non precipitare nel fossato... Per altro, come imboccare lo stradone?

Mentre in pensiero si proponeva la soluzione del difficile problema, sentì rumore di passi e credette intravedere a pochi metri un barlume.

— Chi è là?

Una voce rispose interrogando:

— L’onorevole Ruggeri?

— Sì. E voi, chi siete?

— Mi manda il commendatore Cerasi.

— Perchè non eravate all’arrivo del treno?

— La nebbia è tanto densa, che io ed il mio compagno ci siamo smarriti. Non abbiamo avuto mai un nebbione tanto fitto. Mi sono orizzontato soltanto quando sentii il fischio della locomotiva. Ho lasciato il mio compagno sullo stradale; rispondendo al mio richiamo, ci indicherà la direzione che dobbiamo seguire.

I due interlocutori si distinguevano appena ai bagliori della lanterna.

— Avviamoci!

La guardia di pubblica sicurezza, perchè tale era la guida dell’ex onorevole, impossessatasi del leggiero sacco da viaggio di Ettore, gli consegnò la lanterna, che, pur non servendo a indicare la direzione da tenere, gettava luce sufficiente a rischiarare il terreno sul quale i due viandanti posavano il piede.

Ettore che approssimandosi a Miralto, col treno funereamente procedente fra l’oscurità e la nebbia trovata a Piacenza, era stato invaso dalle idee tristi, opprimenti, [115] accolse con animo lieto la distrazione di quella notturna esplorazione.

Una scena da cospiratori, colla complicità della questura, pensava Ettore al luccichìo de’ bottoni di metallo del suo compagno, che tratto tratto emetteva un fischio acuto, cui rispondeva il fischio lontano del questurino posto di piantone sulla strada.

— Siamo nella buona direzione, disse la guardia. Eccoci agli alberi che fiancheggiano il piazzale. Ormai non abbiamo che da seguire l’indicazione di queste robinie, e fra due minuti saremo sulla strada provinciale. Gli alberi ci accompagnano fino al ponte della porta San Valerio. Di là altri cinque minuti e saremo all’albergo della Croce di Malta.

— All’albergo della Croce di Malta? riprese Ruggeri, meravigliato.

— Il signor sottoprefetto ha fatto prevenire l’albergatore del di lei arrivo.

— Sta bene! disse Ettore un po’ contrariato, chè in cuor suo avrebbe preferito l’altro albergo.

— Siete poi sicuro che l’albergatore sia stato avvertito?

— Sicurissimo! Ne fui incaricato io. Con una notte simile sarebbe stata imprudenza grave mandare l’omnibus od una carrozza qualunque. Chissà quante disgrazie stanotte ai poveri carrettieri.

Giunti sulla strada, il piantone si unì a loro senza scambio di parole, e tacitamente continuarono con circospezione il loro cammino.

***

La Croce di Malta, il grande albergo miraltese, instituzione secolare, celebre stazione delle diligenze defunte e delle sedie di posta leggendarie de’ leggendari [116] inglesi, aveva la virtù su Ruggeri di suscitare tutto un mondo di ricordi giovanili, cari e dolorosi.

Era là, nel 1860, ad un ballo patriottico di beneficenza, ch’egli aveva conosciuto la morta, la sua povera morta, ritrovata vent’anni dopo in tutto lo splendore della inalterata giovinezza, la notte di San Giovanni.

Ma Ettore avrebbe voluto evitare quella locanda per altra più grave ragione. Le finestre dell’albergo della Croce di Malta prospettavano l’appartamento abitato da Stella e dalla madre di lei, ed Ettore si era proposto di non rivederla nel breve soggiorno a Miralto. Egli tentava strapparsi dal cuore la fatale, insensata passione, da insuperabili ostacoli inceppata. Egli invocava eroicamente l’oblio della giovinetta, pur provando le più feroci torture della gelosia nella volontaria lontananza da Miralto. In lui due esseri, due volontà, due desiderî ardenti ed opposti. La ragione e la passione; ma, troppo spesso questa aveva il sopravvento sull’altra; l’innamorato cedeva, si arrendeva.

Ritornato a Miralto per poche ore, nell’intenzione di lasciare ignorare a Stella la propria venuta, ora, al pensiero di dover abitare ad essa tanto vicino, era combattuto da mille opposti pensieri...

— Decisamente, ebbi torto di partire... Avrei fatto meglio a lasciare che Giuliano si sbrogliasse come avrebbe potuto.

Ipocritamente, Ruggeri tentava mentire a sè stesso, alla propria coscienza. Si sarebbe tanto facilmente arreso al desiderio dell’amico, se Stella non fosse stata a Miralto? Non voleva incontrarla; ma, rivederla sperava... Fosse solo per un istante, da lontano... senza essere avvertito.

— Potrò forse scorgerla, non visto, dietro le cortine delle finestre dell’albergo... Avrò poi la forza di non rivelarmi?

[117]

Frattanto, colle sue guide, Ettore era giunto alla locanda ove, atteso, trovò meglio di una buona camera, un’eccellente cena, servita da un cameriere assonnato, ma premuroso per l’ospite illustre.

A Miralto Ruggeri era una illustrazione davvero. Le campagne, i viaggi, le sue idee democratiche, la deputazione, sì nobilmente abbandonata a protesta della politica austro-germanica dei governi di Sinistra, le lunghe assenze dal paese nativo, avevano pure contribuito a fare di lui, nell’imaginazione de’ popolani suoi concittadini, una specie di mito eroico, a rovescio delle leggi d’ottica, ingrandito a distanza.

Il commendatore Cerasi gli aveva scritto un bigliettino onde prevenirlo che sarebbe stato a sua disposizione, dal mattino alle sette in poi, alla sottoprefettura. Era tardi, se il duello fosse già stato deciso. Interrogò quindi il cameriere per conoscere le voci correnti in paese.

— Ah, onorevole, uno scandalo mai più veduto! Non si parla d’altro a Miralto. L’autore dell’articolo, appena sconfessato dal signor Bertasi, il nostro ex deputato, è scomparso, ed il signor Guglielmi, segretario del sottoprefetto, ha presentato le dimissioni, perchè, dicono, avrebbe saputo che l’avversario sparito è un agente della polizia, pagato direttamente dallo stesso commendatore Cerasi. Non so quanto vi sia di vero; ma lo dicono tutti.

— Sembra incredibile. Da chi l’avete voi saputo?

— Noi camerieri sappiamo molte cose che nessuno ci dice. A questa stessa tavola pranzavano oggi diversi professori, col sindaco ed il dottore Bartoldi. Non hanno discorso d’altro tutto il pranzo.

«Il sindaco era il più arrabbiato, perchè, continuamente attaccato dal Ventriloquo, ha scoperto che l’autore [118] degli articoli stampati contro di lui era appunto quel galantuomo agli stipendî del sottoprefetto.

«Bene spesi i danari del Governo!

«Il Ventriloquo, uscito oggi per annunziare la sospensione delle pubblicazioni, dice che la maggior parte dei sequestri toccati si devono al traditore, ch’era il più arrabbiato dei redattori.

— In tal caso non vi sarà duello, osservò Ruggeri.

— Con chi? se l’avversario è partito. Si dice che il sottoprefetto sarà obbligato di andarsene. L’indignazione contro di lui è universale.

— E come si chiamava la spia?

— Della Giovine; ma si suppone non sia il suo vero nome.

La lettera del commendatore a Giuliano, il consiglio di presentare come documento alla giunta delle elezioni il giornale diffamatore, erano spiegati. Il cameriere porse ad Ettore il Ventriloquo. L’ultimo numero del valoroso giornaletto era tutto una protesta indignata della redazione. Il miserabile che l’aveva tradita, minacciato, prima di partire aveva commesso un nuovo tradimento, consegnando documenti irrefragabili, provanti la complicità del commendatore.

— Miseri governi quelli che ricorrono ad arti sì infami, pensò Ettore. Non io mi recherò domattina dal lungo Tartufo.

«E l’ingenuo Giuliano mischiato a tanto fango! Trista elezione!

Dopo poco, Ettore saliva alla camera assegnatagli. Appena solo, ad onta del freddo intenso, aperse le imposte tentando fendere la nebbia collo sguardo. Nulla potè discernere della casa di Stella; le ondate di vapore acqueo entravano dalle finestre abbuiando la camera, intridendo ogni cosa. Chiuse le imposte nell’attesa del mattino.

[119]

— La nebbia si diraderà, e forse mi sarà dato vederla... Poverina, anch’essa insultata da quel furfante!

«Sono le cinque; fra due ore il giorno; chissà non ci si possa vedere attraverso la nebbia maledetta!

«Bel clima! E viaggio allegro, il mio.

Si coricò senza speranza di dormire, ad onta della stanchezza.

Il pensiero della vicinanza della fanciulla adorata gli impediva il sonno. Gli sembrava impossibile che una voce arcana non l’avesse avvertita del suo arrivo...

— Il cuore deve averle detto ch’io son qui... a pochi passi da lei.

E tendeva ansioso l’orecchio nella illusione di una voce che lo chiamasse.

Balzò ripetutamente onde affacciarsi. Il silenzio e l’oscurità erano profondi.

La corda sensibile del cuore di Stella non aveva vibrato, i presentimenti erano rimasti muti, la giovinetta dormiva inconsapevole dell’arrivo dell’amico.

Forse la facoltà di sperare si era attutita nelle lunghe attese sempre disingannate; le illusioni, farfalle dorate che allietano i sogni della giovinezza, non svolazzavano più intorno all’origliere della fanciulla, più spesso bagnato di lacrime, che confidente di ridenti speranze.

Ettore, febbricitante, a poco a poco cadde in preda a sopore quasi simile al sonno. Sognava ad occhi aperti; gli oggetti che lo circondavano, rischiarati dalla luce fioca della candela, sonnolenta anch’essa, assumevano aspetto e forme di esseri fantastici. Le cortine, le tende, i mobili gli sembrava si agitassero muti agli sprazzi intermittenti di luce. Le ombre si allungavano e si ritraevano a seconda delle agitazioni della fiamma rossiccia.

L’imaginazione di Ettore, non guidata dalla ragione, [120] evocava bizzarra società di personaggi, viventi e defunti, come gli abitatori delle tombe, silenziosi.

Stella e la Morta, nella loro assoluta identità, stavano incurvate sul suo capezzale simmetricamente atteggiate, pallide nei candidi abbigliamenti, come due ombre raffigurate nel marmo bianco dallo scalpello dello scultore, piangenti su di un sepolcro.

Egli sentiva il loro alito carezzargli il viso; gelido quello della morta, caldi, voluttuosi i sospiri della rinata.

Tutto un mondo all’intorno di esseri umani, atteggiati e tratteggiati come i dannati nelle tenebrose scene infernali di Gustavo Dorè.

Tutti gli episodî dell’avventurosa esistenza di Ettore eran ricordati da quei fantasmi. Fantasmi di persone care o indifferenti, di conoscenti e di ignoti, tutti, a guisa di automi, silenziosamente gesticolanti.

Poi, come nei quadri dissolventi di una lanterna magica, confondentisi insieme... poi un incendio... poi nulla. Passato l’accesso di febbre, il sonno profondo senza sogni.

Al mattino, quando Ettore fu svegliato dell’insistente bussare di un importuno all’uscio della sua camera, non sapeva rendersi conto della realtà, che nella sua mente si confondeva alle visioni notturne; gli parvero sogno la partenza da Roma, gli episodi del viaggio, la propria presenza a Miralto, le rivelazioni del cameriere, come sogno erano stati i fantasmi della febbre.

La camera d’albergo, vasta e nuda, era inondata di luce; i raggi di un sole splendido vibravano giulivi tutto intorno, allietando ogni cosa.

Un soffio di tramontana aveva spazzata la nebbia.

San Martino aveva vinto la battaglia contro il precoce inverno usurpatore, e l’estatella, sacra al santo guerriero, brillava di splendori primaverili... ultimi bagliori dell’anno morente.

[121]

— Onorevole Ruggeri, gridava il cameriere dietro l’uscio socchiuso, il commendatore Cerasi chiede di lei. Gli abbiamo risposto che ella dormiva... Volle assolutamente ch’io venissi a svegliarla.

— Hai fatto bene! Di’ al commendatore che pazienti qualche minuto. Il tempo di vestirmi.

Si allacciò al balcone; le imposte dell’appartamento di Stella erano tuttavia ermeticamente chiuse.

— Si dorme ancora in quella casa, pensò con un sentimento di dispetto...

L’orologio segnava le otto. Ho dunque dormito appena tre ore! Avrei creduto fosse mezzogiorno, tanto mi parve lunga la notte. Giornata magnifica! E Stella che non è ancor risvegliata! Il commendatore ne sentirà di belle da me!

Frattanto si affrettava ad abbigliarsi, spiando la casa vicina, nella speranza sempre di veder apparire la cara visione; ma le finestre rimanevano ostinatamente chiuse.

Ettore, deluso, scese alla così detta sala di lettura, senza libri e senza giornali, ove l’attendeva il sottoprefetto; in tutta la sua babelica altezza, stava appoggiato al caminetto, nel quale avvampava un incendio, riguardo speciale del cameriere frondeur per la prima autorità governativa di Miralto, odiata sì, ma servita con speciali riguardi.

Il commendatore fece un passo verso Ettore, stendendogli la mano. Questi finse non avvedersene ed offrì cerimoniosamente una sedia al funzionario, ed avvicinatosi egli pure al caminetto si pose a sedere.

Un istante di silenzio, finchè il commendatore, saltando i complimenti d’uso, avvedendosi sarebbero stati male accetti, si decise a parlar primo.

— Troverà un po’ troppo mattutina la mia visita; [122] mi premeva informarla al più presto de’ nuovi incidenti sopravvenuti nella deplorevole vertenza che ha motivato il di lei viaggio. In paese le dicerie sono molte; corrono esagerazioni d’ogni sorta, perfino calunnie. Ma ho diritto e dovere di sbugiardarle, non solo a difesa mia; anche del prestigio della carica ch’io onoratamente copro da tanti anni.

L’esordio troppo lungo prometteva una dissertazione proporzionata. Ettore, che a stento conteneva l’impazienza, interruppe:

— Inutile, signor commendatore. Il mio viaggio non aveva altre ragioni che il desiderio mio di impedire un duello. Ormai di duelli non è più il caso, perchè mancano i duellanti. La missione è finita. Fra due ore arriverà il conte Sicuri; a lui, più direttamente offeso dai libellisti di polizia, ella potrà dure le spiegazioni che vorrà.

Il tono secco, reciso, sprezzante di quella replica turbò il fine burocratico, che perdette per un minuto le staffe. Si riebbe subito, e riprese:

— Si sbaglia, onorevole. Il conte Sicuri non è partito. Fui io a telegrafargli che, ormai, la di lui presenza a Miralto era più che inutile, perchè si sarebbe prestata a nuovi commenti, a nuovi pettegolezzi.

«Sventato il duello, il di lui intervento avrebbe dato maggiore attendibilità alle calunnie.

— Calunnie pagate coi fondi segreti di palazzo Braschi! replicò interrompendo vivacemente Ettore, alzatosi in atto di congedarsi.

— Signor Ruggeri, sclamò grave l’imponente funzionario... Ella, male informata, vien meno alla consueta cortesia. Non sono venuto per confessarmi e neppure per giustificare la mia condotta, bensì per informarla dell’accaduto, nell’interesse di un amico [123] comune. Batta, ma ascolti, riprese sorridendo, onde tentare di dar indirizzo più cordiale alla conversazione.

Ettore si sentì vinto dalla calma del suo interlocutore. Sorrise a sua volta, e rimettendosi a sedere, soggiunse:

— Parli! Ascolterò senza battere.

— Così mi piace. Entro quindi in argomento senza preamboli. Ella ha letto l’ultimo numero del Ventriloquo: informato da una sola delle parti, è male informato, quindi deve essere prevenuto contro l’altra, che sono io. Ahimè! La guerra non si fa senza armi omicide; così la politica non si può fare senza servirci di istrumenti dai quali i gentiluomini rifuggono, senza ricorrere a mezzi poco confessabili.

«Gli avversarî non hanno nulla di sacro; come mai il Governo, a sua volta, potrebbe opporre armi cortesi agli agguati di ogni sorta e di ogni momento?

«Le spie, i confidenti, suprema necessità nella monarchia come nella più liberale delle repubbliche, non abbiamo bisogno di cercarli. Si propongono.

«Non io ho corrotto quel miserabile di Della Giovine; si offrì spontaneamente nel caldo della lotta elettorale. Gli avversarî corrompevano o convertivano gli impiegati nostri, i nostri agenti, fra i quali hanno legioni di aderenti; il Governo non avrebbe dovuto difendersi? Se l’eccesso di zelo di quel giornalista di ventura ha nuociuto a qualcuno, fu a me, non ad altri. Perchè, mentre tutti sanno che i governi stipendiano spie, mentre a tale uopo i Parlamenti votano fondi segreti, che non sono un segreto per nessuno, quando se ne scopre una tutti gridano al sacrilegio, alla immoralità. Come presso gli Spartani, il furto non era vietato, ma punito il ladro colto in flagranza.

«Le vittime siamo sempre noi funzionarî, capri [124] espiatorî anche delle colpe non nostre, ma del sistema. Havvi un solo governo che potrebbe reggersi senza polizia segreta? senza agenti nei campi nemici?

Il sottoprefetto, compiaciuto della sua dimostrazione, allungò le gambe che lo imbarazzavano, si lisciò la barba ed attese la risposta con aria soddisfatta.

— Sarà come ella dice. Ma certo non è nè ammissibile, nè perdonabile che i denari dei contribuenti siano spesi per calunniare i galantuomini, per insultare donne, per vituperare le autorità.

— Spero non vorrà credere che io sia stato l’eccitatore della trista polemica. Pur troppo gli arnesi dei quali qualche volta siamo costretti a servirci, ci pigliano la mano. Ammonii spesso il Della Giovine ad essere più misurato; egli si sentiva sospettato dai colleghi che tradiva, e per dissipare i dubbî eccedeva in violenza. L’imbecille attaccò anche il mio segretario, al quale, conosciuto l’autore dell’articolo da noi deplorato, fu facile, negli uffici miei, per le indiscrezioni di qualche altro impiegato, sapere ch’esso era inscritto sul libro nero dei confidenti. Guglielmi, invece di chiedermi consiglio, aggravò lo scandalo provocando la catastrofe. Fortunatamente il male non viene tutto per nuocere. L’onorevole Sicuri può consolarsi, pensando che il Ventriloquo, che gli diede tanto filo da torcere, ha finalmente cessate le pubblicazioni.

Il sottoprefetto tacque, in attesa di una replica; ma Ruggeri, che si era imposto di non trascendere, continuava a stuzzicare colle molle il ceppo ardente nel caminetto... Il sottoprefetto fu costretto a continuare nelle confidenze. Ormai, era davvero una confessione, colla riserva però di dir solo ciò che gli sarebbe convenuto.

— A lei posso dirlo, a lei momentaneamente ritirato dalla politica attiva. Crede che l’elezione del suo amico [125] sia stata cosa facile? Dovevo lottare contro tutti e tutto, specialmente contro il mio candidato stesso; contro le titubanze, le incertezze, le timidità sue, gli scoraggiamenti. Ad ogni attacco, ad ogni fischio, ad ogni dimostrazione, ad ogni opposizione nelle assemblee elettorali, si sentiva perduto e dichiarava di voler rinunziare alla lotta. Ed io a sorreggerlo, a stimolarlo; ma la mia influenza era spesso, troppo spesso, vinta da ben altra: da quella della contessa, che non voleva saperne della deputazione di suo marito.

«Il conte Giuliano ha gli occhî azzurri, d’un azzurro speciale, ed io su quegli occhî ridenti e piangenti insieme, dallo sguardo vago e timido, ci ho la mia teoria. Una lunga esperienza degli uomini mi ha edotto su quella qualità di occhî. Timidità, indolenza, incertezza. Tre qualità negative, fatali!

«Ho avuto torto! Ma, d’altronde, continuò il commendatore, come se parlasse a sè stesso, non avevo la scelta!

«Quante contrarietà in questa lotta elettorale! Per fortuna avevano inventato i legalitari: presentai il mio candidato come radicale ai repubblicani, come conservatore ai moderati, come ministeriale ai ministeriali, come monarchico ai clericali, che non sono quelli di Roma: i nostri sono moderati dinastici... Abbiamo vinto; ma non è finita. Ora siamo davanti alla giunta delle elezioni; processo di esito sempre incerto. Se sopravvenisse una crisi, che Dio noi voglia! tutto il nostro lavoro andrebbe all’aria, come un castello di carte ad un soffio di vento.

«Ed io? Io, allo sbaraglio in ogni modo, colla spada di Damocle sospesa sul mio capo, di un decreto che mi mandi a casa del diavolo o in pensione. Per questo ultimo scandalo ormai sono incompatibile a Miralto. [126] Dopo tutto, ella vede che non merito il biasimo ch’ella voleva infliggermi.

L’abile diplomatico, vedendo rasserenarsi la fisionomia di Ruggeri, sorridendo finamente, con una punta di sarcasmo e d’ironia, terminò dicendo:

— Il curioso ed il deplorevole in tutto questo disgraziato pasticcio si è che quel miserabile di Della Giovine era pagato coi denari del conte Giuliano... Vede come siamo serviti dai nostri confidenti?

A tale considerazione, Ruggeri non potè trattenersi dal sorridere anch’egli.

— Curioso infatti; ma doppiamente deplorevole... Ed ora che c’è da fare?

— Nulla, qui. Essendo cessate le pubblicazioni del Ventriloquo, fra una settimana non si parlerà altro dell’accaduto... A lei, che ha tante relazioni alla Camera, il fare in modo che questa ultima tegola non sia micidiale per me.

— Tutti i salmi finiscono in gloria, pensò Ruggeri... Tacque, senza aver l’aria di assentire o di negare.

Il commendatore si alzò, non senza difficoltà, per la sproporzione del sedile troppo basso colla lunghezza delle gambe, e congedandosi se n’andò, sempre più convinto di essere un grand’uomo.

— Ho fatto un vero miracolo, ho domato il leone!

Ruggeri, a sua volta impietosito, ma non convinto, pensava:

— È un furfante; ma un furfante simpatico. In parte ha ragione. Le colpe sue sono colpe del sistema. E quel disgraziato di Giuliano, pagava di tasca sua i libelli che gli scrivevano contro. Un colmo!

[127]

CAPITOLO X. Eros.

Ettore, appena congedato il sottoprefetto, salì frettoloso alla sua camera.

Ormai era deciso. Partire senza rivedere Stella, impossibile. Rivederla, parlarle, stringerle ancora una volta la mano; nel linguaggio muto dello sguardo, ripeterle tutta l’odissea de’ suoi dolori, durante le eterne separazioni, le sue lotte, le speranze rinascenti dopo gli sconforti inenarrabili, dirle l’immenso amore, avesse anche dovuto affrontare le accoglienze gelide della madre di lei, recandosi a farle una visita ufficiale, che pure avrebbe voluto evitare.

Conoscendo l’intimità della giovinetta colla moglie di Giuliano, sperava incontrarla dalla contessa.

La madre di Stella non avrebbe avuto ragione di allarmarsi di quell’incontro casuale e la contessa l’avrebbe trovato naturalissimo.

La gentile Adele, anche dopo il matrimonio, era rimasta la migliore amica di Stella; ma da molto tempo non ne era più la confidente. Il segreto del suo amore, Stella, custodiva gelosamente in cuore, pentita delle prime espansioni di bimba, sulla simpatia inspiratale da Ettore, fin dalla sera del loro primo incontro.

Erano confidenze lontane, e la contessa Adele, nella innocente ingenuità, si era convinta che il capriccetto da fanciulla era sfumato come tante altre ubbie infantili. Stella, la gaja giovinetta, era divenuta seria, [128] s’era fatta triste, malinconica, taciturna, mentre la salute deperiva. Fenomeni isterici, dicevano i medici, ed alla madre, all’amica Adele, consigliavano di darle marito.

Ciò che la contessa Sicuri non aveva indovinato, nè tampoco sospettato, non era un mistero per la madre, al cui occhio sagace, al cui affetto infinito non era sfuggita la causa della mestizia, dei turbamenti, del malessere fisico di Stella.

Non un fatto, non una prova materiale avvalorava la sua certezza; ma mille indizî, che alla seconda vista dell’affetto materno avevano il valore di prove irrefragabili.

Stella pure aveva letto nel cuore materno e per tentare di dissiparne i sospetti simulava qualche volta allegrezze non sentite; ma se la fanciulla sapeva tacere, non sapeva fingere. Se il nome di Ruggeri veniva pronunziato davanti a lei, le vampe del rossore le salivano al volto; guai se qualcuno si attentava di dirne meno che bene... La madre le parlava spesso di matrimonio come di un’assoluta necessità.

— Sono avanti negli anni; s’io venissi a mancare, rimarresti sola... Tale pensiero mi turba l’esistenza, mi rende infelice, è la spina della mia vecchiaja...

Stella tentava deludere le insistenze materne, mutando indirizzo al discorso, colmando di carezze la buona mamma, o simulando una giocondità infantile; ma spesso le lacrime appannavano lo splendore bruno della pupilla di Stella, ed allora erano scene di tenerezza strazianti; madre e figlia confondevano in un abbraccio le loro lacrime.

— Perchè piangi, Stella?

— Tu mi parli di morire, e non vuoi ch’io pianga!

— Tutti, o mia cara, dobbiamo morire, ed ogni cristiano, alla mia età, deve essere preparato.

[129]

— Oh, no, mamma! Sono io che devo precederti.

— Non bestemmiare, Stella!

Lunghi silenzî seguivano tali scene, che lasciavano sempre uno strascico di tristezza e come una specie di imbarazzo fra madre e figlia.

La madre si sentiva meno amata; Stella si indispettiva, indovinando di essere sospettosamente sorvegliata.

Un giorno, qualche mese prima dell’andata di Ruggeri a Miralto, la signora Gabelli fu esplicita con sua figlia. Chiamatala nella propria camera, con solennità insolita, dopo lungo preambolo, che Stella aveva subito compreso ove sarebbe andato a parare, le disse che l’avvocato Benuti di Milano, una celebrità, lontano parente loro, aveva chiesta la mano di lei per suo figlio.

— Stella, tu lo conosci, perchè ogni anno viene con suo padre a villeggiare a Miralto... Vennero qualche volta da noi. Un bel giovane, ricco, colle promesse di una magnifica carriera, preparatagli dal padre. Lo ricordi?

— Se lo ricordo! Quella caricatura di figurino di mode. Azzimato, impomatato, profumato; fatuo, pretensioso, che sembra dire a tutti: Guardate, ammirate, come sono bello e ben vestito, neppure una grinza che non sia di moda! Guardatemi, ammiratemi!

E Stella scoppiò in una risata, un accesso convulso di ilarità, che da prima irritò la madre, poi la spaventò. Stella si era lasciata cadere su d’una poltrona, e gli scatti di riso parevan colpi di tosse.

La povera donna a scotere la figlia:

— Stella, non ridere così, mi fai paura. Sei impazzita? Per carità, Stella... basta.

E tirò con furore il cordone nel campanello. Accorsero i domestici:

[130]

— Presto, presto, dell’aceto, dell’etere, dell’acqua di colonia...

Gli scrosci di riso erano cessati e s’eran mutati in pianto dirotto.

Stella ne fu malata per parecchî giorni, amorosamente vegliata dalla madre alla disperazione.

Il primo giorno che sedette a pranzo colla mamma, Stella con gravità affettuosa la prevenne per l’avvenire.

— Mamma, tu sai se io ti adoro. Ma non parlarmi mai più di matrimonio, di pretendenti, di fidanzati... Mi obbligheresti a lasciarti ed a ritirarmi in un convento; i miei ventun anni li ho compiuti ed ho diritto di disporre di me.

«Non ho nessuna idea di maritarmi; qualora ne avessi l’intenzione, il marito vorrei scegliermelo io.

La parola convento terrorizzò la madre.

— In un convento, tu, Stella! Sarebbe delitto. Non dir più simili cose. Farai ciò che vorrai. Di matrimonio non te ne parlerò. Ma non minacciare di abbandonarmi, per seppellirti viva... Tu, tu, il più bel fiore di Miralto.

Stella scattò dalla sedia e corse ad abbracciare la buona vecchia.

Quanta tristezza da quel giorno in quella casa!

Per contro, Stella aveva conquistata la piena libertà di azione.

La parola convento, il terrore delle madri affettuose, era stata magica. Ma la freddezza istintiva che la signora Gabelli nutriva per Ruggeri, causa sospettata della follìa di sua figlia, si era mutata in odio... Odio mal represso dalla carità cristiana della santa donna, mal simulato le rare circostanze nelle quali con Ruggeri si era incontrata. Qualche volta rinveniva, e più indulgente pensava:

[131]

— Poveretti! Entrambi sono infelici!

Poi la gelosia materna, il dispetto riprendevano il loro dominio, ed al pallore delle guancie della figlia pensosa, malediceva, se non a Ruggeri, alle combinazioni fatali che avevano fatto nascere quella passione insensata.

Maledire è privilegio speciale, intangibile, della chiesa; maledire non è ribellarsi alla provvidenza?

Se ne confessava al reverendo padre Abbiati, e questi, pur deplorando, assolveva.

È vero che il padre Abbiati, miraltese di nascita, ritornato semplice sacerdote in patria dopo la soppressione del suo convento, aveva un debole speciale per Ettore, figlio di un amico d’infanzia... Quasi ottantenne, considerava Ruggeri come un giovinotto, e la differenza di età fra i due innamorati, che impauriva la signora Gabelli, non gli sembrava ostacolo insuperabile alla loro unione.

È ben vero ch’egli non sospettava la causa prima di quell’amore: l’identità di Stella colla morta, e la convinzione della fanciulla di essere stata fidanzata ad Ettore in un’altra esistenza.

L’eccellente padre avrebbe gridato all’eresia, al sacrilegio, e certo, non avrebbe accordato l’assoluzione a Stella se fosse stata sua penitente e se Stella avesse confessato il proprio amore, i vaghi ricordi d’oltre tomba, che ogni giorno le sembravano più chiari, più precisi, certi.

***

Quando Ettore risalì, le imposte della cameretta di Stella erano spalancate. Stella, nell’interno, per non essere scorta dalla strada, stava appoggiata ad un [132] mobile, lo sguardo intento al balcone di Ettore, in atteggiamento di attesa.

Appena Ettore apparve, la fanciulla, raggiante, lo salutò, inviandogli un bacio colla candida mano e un sorriso divino.

Tutta una mimica giuliva di «ben venuto!» di «t’amo!» di «oh quanto sono felice!»

Alla vista di quella creatura divinamente bella, fatalmente adorata, Ettore fu colto come da vertigine. Ancor più divina gli apparve nel pallore, del quale egli si accusava, punto dal rimorso di aver suscitato una passione senza speranza, che convertivasi in tormento. La contemplava ammaliato, mentre in cuor suo si accusava di aver turbata la pace della povera fanciulla...

Ad un tratto, Stella, come sorpresa da qualcuno che fosse entrato nella sua camera, fece segno ad Ettore di ritirarsi e di attendere. Egli si mise in vedetta dietro una cortina; dopo pochi minuti, Stella riapparve, alzò le manine aperte segnando il numero dieci, poi due coll’indice ed il medio della destra, poi un gesto che pareva volesse indicare una località lontana.

Ettore comprese. Stella voleva dire: «Alle dodici, dalla contessa!»

Quando fu certa, per il gesto d’assentimento di Ettore, di essere stata compresa, inviò ancora un bacio e segnalando prudenza e pazienza, chiuse le imposte; un ultimo saluto attraverso i cristalli, e la tendina cadde impenetrabile.

Non è necessario aver letto le scene della vita di provincia di Balzac, per spiegarsi come Stella fosse avvertita dell’arrivo di Ruggeri. Dalle otto del mattino tutta Miralto commentava il di lui arrivo inopinato, che certamente doveva collegarsi agli scandali giornalistici degli scorsi giorni.

[133]

Gli impiegati ferroviarî ne avevano parlato; i questurini avevano raccontato la spedizione notturna; la visita mattutina del prefetto era stata notata. Sono tanto rare le distrazioni nella monotonia di una città di provincia; si va a letto tanto presto e ci si alza di sì buon’ora!

Stella però conobbe l’arrivo dell’amico al suo svegliarsi.

Ettore si era affacciato al balcone, la fantesca di Stella l’aveva riconosciuto e subito susurrato nell’orecchio alla padroncina:

— Sa, signorina, è arrivato il signor Ruggeri. Alloggia all’albergo della Croce di Malta.

Fortunatamente la camera era ancor buja, e dell’emozione di Stella non apparve nulla.

Poco dopo, quando ebbe ricuperata la calma, simulando la più grande indifferenza raccomandò alla domestica di non dirne nulla alla signora.

— Si metterebbe di cattivo umore. Sai che essa non ama il signor Ruggeri...

— Oh! si figuri! Sono discreta io! rispose con sussiego misterioso.

Stella, seccata dal fare confidenziale della fantesca, finse non avvertirlo e la congedò, per balzare dal letto, indossare un accappatojo e mettersi in sentinella, certa che Ettore non avrebbe tardato. Questi, meravigliando dell’intuizione arcana di Stella, si confermò nella credenza della veracità dei presentimenti, nella realtà della misteriosa corrispondenza dei cuori, tramite la corda degli amanti, il cantino dell’amore.

Da molto, Ettore, lo scettico inconvertibile, viaggiava nell’ideale e nel soprannaturale, ed ormai inconsciente, si era tuffato in pieno nel più irragionevole misticismo amoroso.

[134]

— Da chi aveva potuto sapere, Stella, il mio arrivo se non dalle voci segrete del cuore? Misteri dell’amore, impenetrabili come i misteri della vita. La ragione vi si perde. Ed io l’ho perduta, come la volontà, come ogni energia!

Monologando passeggiava concitato per la vasta e nuda camera; ad un tratto si arrestò davanti lo specchio dell’armadio. Stette lungamente a considerarsi.

— Potessi carpire all’inferno il segreto di Fausto, darei mille eternità per un anno, un anno solo di giovinezza. Le rughe! la canizie! Ed ella in tutto lo splendore della giovanile bellezza; la primavera e l’inverno, un anacronismo ripugnante!... il gufo e la colomba!

«Pure il sacrificio è superiore alle mie forze. Ed ho io il diritto di compierlo nella certezza che sarebbe anche il sagrificio suo? Se non mi amasse più, morrei disperato; ma essa sarebbe salva e potrebbe essere felice.

L’annunzio di una visita lo distolse dalle dolorose considerazioni; era il giovane Guglielmi, il segretario in crisi, il burocratico artista.

Nulla di nuovo poteva narrare ad Ettore, che ormai, dopo le confidenze del sottoprefetto, ne sapeva quanto Guglielmi. Interpose il proprio consiglio per ottenere la desistenza dalle dimissioni.

— Si dimetterà poi. Se, come dice, l’accaduto è pretesto presso suo zio per ritornare all’arte, di pretesti ne troverà sempre; ora non farebbe che fomentare commenti e pettegolezzi su fatti che meglio è lasciar morire nell’oblio.

«Se si trattasse soltanto del prestigio, così detto, del Governo e del commendatore Cerasi, le direi d’accomodarsi; ma vi sono di mezzo amici nostri, signore.

Guglielmi stese la mano a Ruggeri ringraziandolo e [135] promettendo di aspettare, per ritornare alla sua arte diletta, occasione più propizia.

Su quella promessa si lasciarono.

A mezzogiorno in punto, Ettore, varcava la soglia del palazzino Sicuri, già Gabelli.

Non so se nel corso di questo racconto io abbia avuto occasione di dire che alla morte della madre, la contessa Adele consigliò al marito ed ottenne di ritornare ad abitare la casa paterna, cara alla giovine sposa per le dolci memorie d’infanzia, santuario de’ suoi poveri morti e meglio abitabile, per la sua modernità, del palazzotto medievale dei conti Sicuri, dalle bugne di granito, annerite dai secoli come lo stemma sovrastante il tetro portone, adito all’austero cortile, dal quale la luce era sì parcamente distribuita nei severi appartamenti dalle immense sale istoriate, che Adele, all’imbrunire, era spesso invasa da una specie di terrore. Il piccolo Gustavo aveva bisogno di luce e di aria, e il giardino pensile, intraveduto da noi la sera del ventiquattro giugno, cinque anni prima, al chiarore dei palloncini accesi in onore del santo, era un eden delizioso per il bambino, come già lo era stato per la mamma.

In quella splendente giornata autunnale, nessun paesaggio più pittoresco nella sua calma serena e malinconica di quello che si svolgeva dal giardino.

La balaustrata marmorea, parapetto al giardino, dominava a picco l’aperta campagna, attraversata dalle limpide correnti del Ticino, serpeggiante fra boschi e campi devastati dal mietitore, alternati a scacchiera coi prati artificiali, perennemente verdi, perennemente fecondi.

Le foglie ingiallite dei platani, dei faggi, dei larici giganti, dei vetusti gelsi, nani grotteschi, delle quercie [136] imponenti, illuminate dai fulgidi raggi, tremolanti al soffio mite di una tramontana purificatrice, avevano riflessi d’oro nel fondo azzurro, intraducibili dal pennello del pittore, indescrivibili dalla penna del romanziere...

Da lungi, soffuse nei vapori, sollevantisi dalla terra feconda, riscaldata ai raggi tepenti, le colline dell’Oltre Po, inghirlandate di pampini rosseggianti nella loro periodica agonia, dominate dai turriti castelli appollajati sulle vette. Alla pianura lo spesseggiare di ville e villaggi dagli snelli campanili, che salutavano lietamente cogli squilli bronzei il meriggio festante; i lontani confusi rumori delle opere degli agricoltori affaccendati sulle glebe per preparare il letto invernale alle feconde sementi; i muggiti lamentosi delle mandrie pascolanti, lo squillante nitrito de’ puledri; ed i cigolìi dei pesanti carri, procedenti al lento passo de’ buoi rassegnati, infaticabili cirenei.

Al raffronto colle nebbie dei giorni precedenti, ancor più ridente era quel risveglio della natura; la gioja d’una realtà felice dopo l’oppressione affannosa di un lungo incubo.

Le due donne, Adele e Stella, i gomiti appoggiati al parapetto del giardino, nell’atteggiamento gentile dei putti della raffaellesca madonna di Dresda, in silenzio, appena interrotto da qualche osservazione mormorata a bassa voce, contemplavano quel giulivo spettacolo. Esse pure, nella loro bellezza, sì differente, ma egualmente sublime, degne del pennello del divino urbinate. Stella, nell’aspettazione febbrile, abilmente simulata; Adele ripensando al suo caro lontano, lo sguardo perduto nel lontano orizzonte.

— Roma deve essere là, susurrò Adele, additando a mezzogiorno....

Dopo breve silenzio:

[137]

— Tu verrai, non è vero? Tu verrai a trovarci?

— Come! Lasciar qui la mamma sola!

— Verrete insieme. Essa non visitò mai Roma.

— Progetti fantastici! Come deciderla a lasciare le sue abitudini, ad affrontare i disagi del viaggio?

— Qual viaggio! Poche ore di ferrovia.

— Che farò di me, quando sarai partita? Qui, sola in questa triste città, sarà la desolazione. Oh! i partenti non conoscono lo schianto di coloro che restano!

— Lo dici a me, Stella?

— È vero. Nel mio egoismo sono ingiusta. La tua lontananza sarà lo squallore. Senza di te e del tuo Gustavino, il mio figlioccio, mi parrà di essere nuovamente in una tomba.

— Nuovamente? chiese Adele sorridendo.

— Sono ubbie! Qualche volta mi pare di aver già vissuto. Mi ritornano vaghe ricordanze di un’altra esistenza. Ora, mentre contemplavamo il paesaggio, osservandolo attentamente, mi pareva di averlo già veduto in tempi lontani, lontani... Prima assai che nascessi.

— Stella, impazzisci!

— Forse...

La voce della governante del piccolo Gustavo interruppe il dialogo delle due amiche, richiamando la loro attenzione.

— Signora contessa! Signora contessa, è arrivato il signor Ruggeri; è là nel salone che attende.

— Il signor Ettore! Ci recherà notizie di Giuliano.

Stella, apparentemente impassibile, balbettò:

— Il signor Ruggeri?

Non si mosse. Tentò, invece, reprimere colla mano i violenti battiti del cuore, che la soffocavano... La contessa, preceduta dalla governante, corse incontro al benvenuto.

[138]

— Oh, signor Ettore! qual buon vento? chiese Adele accogliendo l’amico col suo più bel sorriso biondo ed offrendogli entrambe le mani. È una visita tanto più cara, quanto meno aspettata... E Giuliano?

— Sta bene. Saluta, sperando ritornar presto, per rifare il viaggio di Roma con lei.

— Quando è giunto a Miralto?

— Stanotte.

— Ed ha tardato tanto a venire da noi? E non è sceso a casa nostra?

— Se ci fosse stato Giuliano, certamente. Ma ella è vedova, contessa.

— È vero! Ma vi sono sì poco abituata!

— Per altro, la mia prima, la mia sola visita a Miralto fu per lei.

— Venga! Venga in giardino. C’è Stella, che la saluterà con piacere eguale al mio. E Gustavino, che sarà contento di rivedere il suo padrino... La bella matrina lo vede ogni giorno, anzi tutto il giorno, perchè Stella è una vera stella, è la mia suora, la mia sola compagnia.

Adele ed Ettore mossero al giardino; Stella li attendeva ai piedi della gradinata.

Lì, in quel punto, Stella ed Ettore si erano incontrati la prima volta; ad entrambi balenò il medesimo pensiero, lo stesso ricordo, e vicendevolmente se lo comunicarono collo sguardo.

La mano che Ettore porgeva era tremante; a stento egli conteneva l’emozione. Stella aveva riacquistata la calma, e, marmorea, con un sorriso indefinibile, pieno d’amore, lo sguardo fiammeggiante:

— Ben arrivato, signor Ruggeri!... Parlavamo di Roma quando ella è stata annunziata. Giunge in buon punto! Ci darà notizie dell’assente.

[139]

Ettore stesso, se la eloquente fisionomia non avesse parlato un linguaggio di indefinito amore per lui solo comprensibile, sarebbe stato ingannato dall’apparente freddezza.

Gli stranieri, per vecchio vezzo, per tradizione antica, per un pregiudizio secolare che ormai i fiaschi della nostra diplomazia avrebbero dovuto sfatare, ci chiamano figli di Machiavelli, e la finesse italienne è sempre di moda, come i briganti irreperibili del bel paese... Machiavelli lasciò forse continuatori in Vaticano; fuori di lì, la donna; ma non la donna italiana soltanto: la prima diplomatica fu Eva.

Una fanciulla innamorata è più forte del cardinal Rampolla e di tutto il Sacro Collegio. Se la contessa Adele, che, per contro e per eccezione, era di una ingenuità sublime nella sua bontà infinita, avesse nutrito sospetti sulla passione di Stella, l’accoglienza fatta a Ruggeri l’avrebbe completamente disingannata.

— Vede, signor Ettore, soggiunse Adele, il bel cielo d’Italia l’abbiamo anche noi a Miralto.

— Lo vedo, ed il giardino è un incanto. La stessa cosa non avrei potuto dire stanotte. La nebbia era talmente fitta, che mi sarei perduto nel piazzale della stazione se il sottoprefetto non avesse avuto la cortesia di mandarmi ad incontrare.

— Il sottoprefetto? Ella dunque sa tutte le nostre tribolazioni. È forse venuto per ciò?

— Appunto. Giuliano non poteva assentarsi da Roma. Venni in sua vece. Si tranquillizzi, contessa; tutto è finito, ed anche questo uggioso episodio avrà giovato, anticipando la sua partenza per Roma.

— Fosse vero!

— E il piccolo Gustavo? Il mio... il nostro figlioccio, disse Ettore, rivolgendosi sorridente a Stella.

[140]

— Più capriccioso che mai.... Ora dorme; fra un quarto d’ora andrò a prenderlo, e vedrà, vedrà che amore. Tutto Giuliano; ma assai più bello, disse con orgoglio, la giovine mamma.

Passeggiando lentamente, eran giunti all’albero d’alloro.

Stella, rivolgendosi ad Ettore:.

— Anche noi abbiamo gli alberi sempre verdi, come loro nei dolci climi. Vede? Il lauro s’è fatto rigoglioso quanto una quercia. Coi crisantemi è il solo a protestare contro il triste inverno.

— Non per nulla l’alloro fu scelto per emblema della gloria, della immortalità.

— Strano! soggiunse Stella, come parlando a sè stessa. I crisantemi, invece, sono i fiori delle tombe!

Il sole, senza essere cocente, diveniva molesto. Si assisero su d’un banco all’ombra del lauro.

La contessa Adele, rallegrata dalla visita gradita, divenne espansiva, ridisse i suoi presentimenti infausti, maledicendo alla politica, narrò la sequela de’ suoi dispiaceri, tempestò l’ospite di mille questioni sul marito, sulla di lui condizione parlamentare, sciorinò i rimpianti per la elezione malaugurata, confidò i suoi terrori che la politica, le seduzioni della capitale gli potessero rapire l’affetto di Giuliano.

— Ne morrei! No! di morire non avrei il diritto, dovendomi dedicare a mio figlio; ma sarei la più infelice delle donne....

Ad un tratto, sovvenendosi:

— Corro a prendere Gustavo; vedrà quant’è carino, il cattivo. Stella, rimani col signor Ettore: sarò da voi fra pochi istanti.

[141]

***

Soli, stettero a guardarsi senza pronunziare parola. La piena dell’emozione li aveva ammutoliti.

— Stella, disse finalmente Ettore prendendo la mano profilata, gelida, della fanciulla, e portandola alle labbra. Stella, ho forse fatto male a venir meno ai miei propositi, ritornando a Miralto. Fu più forte di me, e la fatalità mi ha assecondato; non seppi, non so più lottare. Se il conte Giuliano non mi avesse pregato di precederlo, avrei forse inventato un pretesto.

«Lontano da te non è vivere, è soffrire, e l’insistenza del dolore ci rende fiacchi.

Stella si rizzò offesa.

— Ed è così che tu mi parli? Lottare per abbandonarmi, per dimenticarmi!

«Se non mi ami, dillo francamente; subirò la mia sorte senza un lamento, senza una recriminazione. Ma se un raggio d’amore per me riscalda ancora il tuo cuore, non hai diritto di essere eroico col mio sacrificio.

«Tu mi riparlerai delle convenzioni, delle convenienze sociali, degli ostacoli insormontabili, della differenza d’età, del tuo patrimonio rovinato, del ridicolo che colpirebbe un’unione tanto disparata... Le conosco, le so tutte a memoria le objezioni della tua coscienza impaurita, della tua delicatezza allarmata... No! non il mio sagrifizio, io voglio, bensì quello della tua coscienza, de’ tuoi pregiudizî... Io ti amo!

«Mille volte ho rinnovato sotto questo albero il voto a san Giovanni, il nostro santo protettore, il santo dell’amore: di esser tua o di nessuno. Non mi appartengo più!

Ettore, commosso, stringeva tuttavia la mano della fanciulla nelle sue.

[142]

— Stella, ti amo sempre più! Le tuo parole mi fanno felice; ma in questa società che tu non curi, noi viviamo e tu non vorresti esser mia a patto del mio disonore, di una slealtà.

«Tu sei sublime nella tua innocenza della vita; sublime nella virtù del sagrificio, nell’abbandono che fai di te stessa, della tua giovinezza, del tuo avvenire. Ma posso, devo io accettarlo questo sagrificio?

«Tu sei la primavera, io l’autunno... Presto verranno per me i giorni tristi dell’inverno; quelli del pentimento e del disinganno per te; nel tuo cuore germoglierà il rimpianto... e forse mi rimprovererai di aver abusato della tua inesperienza entusiasta ed imprevidente.

«Vi sono ostacoli insuperabili: tua madre, i tuoi parenti. Perciò invocavo da te il coraggio, l’energia di lottare, per vincere la mia passione.

Stella era sublime davvero nella sua pallida bellezza... Alle parole di Ettore, con un sorriso etereo sulle labbra, andava scotendo la testina gentile in atto di diniego...

Quando Ettore tacque, essa, avvicinandoglisi, lo allacciò febbrilmente al collo colle braccia, ed ergendosi sulla punta dei piedi per giungere colla bocca a quella di Ettore, mormorò più che non dicesse:

— Di tutto ciò, Ettore, che tu mi hai detto, voglio ricordare soltanto che tu mi ami, mi ami sempre più. L’hai detto, sono tua, fa di me ciò che vorrai. Io non conosco le leggi del vostro onore, della vostra lealtà. Son tua, ti amo e voglio essere riamata!

Le loro labbra si confusero in un bacio, il loro alito in un sospiro.

Alla voluttà infinita di quella sensazione deliziosa fino allo spasimo, Stella si ripiegò come fiore mietuto; sarebbe caduta, se Ettore non l’avesse sorretta.

[143]

Allarmato, la depose sul sedile di ferro... Avrebbe voluto chiamare; ma Stella, gli occhi socchiusi in un sorriso beato, mormorava:

— No, no, amico mio! Non è nulla. L’eccesso della felicità, l’emozione. Il cuore ha palpitato troppo violentemente, e mi sentivo morire. Lo sai, sono una povera inferma. Un bacio, ancora un bacio, prima che giunga Adele... Poi chissà, i lunghi mesi di separazione... Un bacio, ch’io faccia provvista di felicità per l’avvenire.

Ettore, inginocchiato ai piedi di Stella, teneva fra le mani la testina bruna, suggendo baci dalle labbra impallidite della fanciulla, di baci assetata.

Uno strillo argentino, giulivo, li avvertì dell’approssimarsi del piccolo Gustavo...

— Padrino! padrino! La mamma dice che oggi è festa, e mi ha messa la vesticciuola nuova.

E il piccino, provvidenziale araldo, corse incontro ad Ettore, le braccia aperte.

Ettore lo sollevò da terra stringendolo fra le sue.

L’intervento del bimbo lasciò modo ad entrambi di riaversi, e Adele non potè notare il loro turbamento. Soltanto il pallore di Stella avrebbe potuto tradirne l’emozione... Ma era sempre tanto pallida, Stella.

— Che hai? Sei indisposta?

— No, forse un po’ di freddo. Il sole è caldo; ma il vento è frizzante. Rientriamo.

E porgendo il braccio ad Ettore:

— Mi sorregga lei, signor Ruggeri.

Sottovoce, in modo che Adele non potesse udire, intenta com’era a rassettare gli abitini del bimbo, scomposti dal ruvido abbraccio di Ettore:

— Il patto è conchiuso. Mai più minaccie di abbandono... Non più scrupoli. Sono tua... Avrò il coraggio di attendere. Tua nella vita e nella morte.

[144]

Ettore non rispose; assentì del capo, stringendo forte forte l’esile braccio di Stella avvinghiato al suo. Stella, riavutasi dal passeggiero malessere, era raggiante, sembrava ritornata ai giorni gaî della fanciullezza, allorchè vispa, chiassosa, birichina, era tutta gioja e sorriso.

Perfino nell’ora dolorosa degli addìi si mostrò lieta e ridente.

Ormai la promessa era formale, suggellata dal delizioso bacio sotto il lauro di San Giovanni, un tempio! L’unione per essa era indissolubile, come se benedetta dal sacerdote e legalizzata dal sindaco.

L’amore di Stella, sopratutto mistico, non era per anco turbato dalle febbri del desiderio. La certezza d’essere riamata le bastava. Il tempo e la distanza non esistevano più.

Dopo cinque anni di dubbî tormentosi, quello il primo giorno di felicità.

Gli addìi erano «un arrivederci a ben presto, per non separarci mai!» Come? Non lo sapeva, non curava saperlo; ne aveva la fede e le bastava.

[145]

CAPITOLO XI. Nella bolgia.

Durante i due giorni di assenza di Ruggeri, l’onorevole Giuliano aveva fatto molto cammino nella bolgia parlamentare.

Ferretti, presolo sotto la sua alta protezione, come il Lucifero di Byron, Manfredo, se l’era caricato sulle spalle, portandolo a volo nelle eccelse sfere ministeriali.

Ferretti non aveva accesso a Montecitorio; in compenso non vi erano anticamere per lui presso le eccellenze. Al suo presentarsi gli uscieri facevano ala rispettosamente, le porte si spalancavano a due battenti, senza ch’egli si desse la pena di farsi annunziare. Se il ministro era impedito di riceverlo immediatamente da qualche visitatore ammesso in precedenza all’onore di un’udienza privata, od occupato da qualche commissione burocratica o parlamentare, al nome di Ferretti si affrettava egli stesso sulla soglia del gabinetto, onde invocare pazienza dall’onnipotente giornalista o per assegnargli altra ora più opportuna. Spesso il visitatore veniva licenziato a profitto dell’impazienza del cavaliere Ferretti, che colle eccellenze affettava il tono confidenziale da collega a collega, da pari a pari. Il novizzo Giuliano non rinveniva dalla sorpresa e si congratulava in cuor suo della provvidenziale lettera di raccomandazione fornitagli dal commendatore Cerasi per quel magico personaggio.

Tutte le eccellenze ebbero accoglienze cortesi per il [146] deputato Sicuri, tutte promisero i loro buoni ufficî presso la futura Giunta delle elezioni, quasi tutte garantirono l’esito felice del processo. Il solo presidente del Consiglio era rimasto diplomaticamente abbottonato nella lunga redingote, divenuta proverbiale, sollevando un mondo di dubbî.

— Molto dipenderà da’ suoi primi voti. Avremo subito battaglia; per quanto scisse ed infinitesimali le due opposizioni, in alcune circostanze possono divenire temibili. Ella comprenderà che il Governo non potrebbe appoggiarla direttamente o indirettamente, senza la garanzia di favorire un amico.

Giuliano arrossì alla brutale imposizione; ma non seppe schermirsi, e finì per assentire ossequiosamente.

Ferretti promise per il proprio raccomandato.

— La Giunta delle elezioni non è nominata dal Governo, riprese il ministro; è scelta dal presidente della Camera. D’altronde ella sa, Ferretti, ch’io mi sono disinteressato dalle elezioni... Vedano il ministro La Fossa.

Ferretti rise poco rispettosamente all’affermazione del ministro.

— Sulla di lei elezione, sul di lei nome si è fatto molto chiasso... Ora un nuovo scandalo, che mi obbligherà a richiamare il sottoprefetto Cerasi, il cui troppo zelo ci ha compromessi.

— Un eccellente funzionario, osò replicare Giuliano.

— Lo so... Ma una soddisfazione all’opinione pubblica bisogna darla. Ha visto lo Svegliarino di stamane? Si scaglia contro il sottoprefetto, e ben presto tutta la muta dei botoli di opposizione latrerà sullo stesso tono. Bisogna prevenirli.

«Come mai lasciarsi cogliere in flagrante a stipendiare agenti provocatori nel giornalismo avversario? Sono errori, leggerezze imperdonabili!

[147]

— Necessità di lotta, osservò Ferretti.

— Lo comprendo; ma bisogna esser cauti, per non compromettere il prestigio delle instituzioni.

Ferretti sorrise nuovamente; per poco non sorrideva anche il ministro.

Gli àuguri!

— Lo richiami a Roma; è il sogno da lui vagheggiato. Qui potrà prestare ben altri servigi. E l’opinione pubblica sarà soddisfatta, perchè scambierà il trasloco per una punizione.

— Ci penserò, disse il ministro congedando i visitatori.

Pensato l’aveva, in verità, tanto che al commendatore Cerasi era già stato trasmesso l’ordine di partenza da Miralto, essendo stato posto a disposizione del ministero... La realizzazione del più ardente desiderio.

La stampa ostile gli aveva servito da sgabello.

***

Ferretti, previdente, aveva già scelto un avvocato per patrocinare davanti alla Giunta la causa di Giuliano. Un giureconsulto illustre, altissima notabilità parlamentare, influentissimo presso tutti i governi succedutisi dal 18 marzo 1876.

— Un avvocato un po’ caro, un po’ troppo salato, aveva detto Ferretti a Giuliano. La necessità di vincere ci vieta di lesinare. Per rendere proficui i sagrifici già fatti, bisogna aggiungere anche questo. Avrei combinato per diciottomila lire.

Giuliano diè un balzo.

— Oh, ma non le intascherà tutte lui. Creda a me, non è troppo! Coll’onorevole Rota per avvocato, in qualunque modo riesca composta la Giunta, possiamo essere [148] sicuri della convalidazione. Alcuni dei membri, imposti dalla loro situazione parlamentare, si conoscono già. L’importante è di ottenere un relatore ligio al Governo. Il meccanismo è talmente complicato! L’esito, tranne in alcuni casi eccezionali, dipende non solo dal valore dell’avvocato, ma specialmente dalla distribuzione delle diverse cause ai singoli membri della Giunta... Se si incappa in un Catone, siamo fritti... È vero che son tanto rari, i Catoni! Supponga che il suo processo caschi in mano di un radicale, amico del competitore Bertasi: lei sarebbe spacciato. Bisogna quindi preventivamente correggere le combinazioni del caso; guidare la sorte.

Scesa la superba scalea del palazzo Braschi, sul cui pianerottolo era avvenuta la conversazione, Ferretti e l’onorevole Sicuri si lasciarono, dandosi ritrovo per il giorno seguente negli uffici di redazione dell’Ordine... Ferretti, salito in carrozza, partì rapido, come persona il cui tempo è prezioso; Giuliano riprese lentamente a piedi la strada di Montecitorio, per Piazza Navona.

Distratto, passò innanzi la statua del leggendario Pasquino senza pur osservarla... Pasquino! L’opinione popolare di Roma, l’ultimo dei tribuni, dal 1870 è ammutolito; un altro spodestato!

Infelice, non ha neppur mani e braccia per detergere le lacrime silenziosamente sparse ogni notte sulla propria sventura. Ad ogni mattino il volto sfigurato è intriso; gli scettici dicono di rugiada; ma si sa, non è cosa nuova, le statue pagane piangono quanto e più delle madonne. E n’hanno ben d’onde!

— Diciottomila lire! pensava Giuliano. Ci va di grosso, il signor Ferretti. Mi abbia scambiato per Giugurta? Ormai ci sono, e lesinare non si può!

Alla posta di Montecitorio, Giuliano ritrovò il telegramma [149] rassicurante di Ruggeri. Trasse un grande respiro. Anch’egli, come il sottoprefetto, pensò che tutto il male non viene per nuocere.

— Sarò liberato dal Ventriloquo...

È vero che in tutto quell’imbroglio la famiglia Sicuri ci aveva lasciato un brandello della secolare rispettabilità.

— Ma, pensava, le calunnie passano, la deputazione resta.

Col telegramma, un grazioso invito della contessa Marcellin, alla cui porta Giuliano aveva lasciata, colla lettera di raccomandazione del commendatore, una carta da visita.

La signora contessa era in casa la sera di ogni mercoledì e venerdì, felicissima di fare la personale conoscenza del deputato conte Giuliano Sicuri.

Mentre Giuliano varcava la soglia del gran salone di lettura, tenendo in mano la lettera d’invito, l’onorevole Lastri, conoscenza del giorno innanzi, scorgendo il monogramma sormontato da una corona, gli disse ridendo:

— Oh! A Roma da quattro giorni, e sei già ai bigliettini profumati e blasonati?

— Profumati sì; ma innocenti come l’acqua... Una noja! Un invito al thè della contessa Marcellin.

— Nientemeno! Salone conciliatore! I bianchi ed i neri vi sono mischiati come i pezzi della scacchiera nella scatola. Prelati e belle donnine, senatori, diplomatici presso le due corti, colonia straniera, rastaquères a josa... quelli di Bourget... Deputati pochi...

«Salone allegro, difficilmente accessibile; la contessa ha il buon gusto di sceglierli i suoi assidui indigeni; per gli stranieri è altra cosa... Essi, a stagione finita, se ne vanno e non ritornano... Bella donna, sul ritorno, un zinzino letterata; però non scrive, almeno per il pubblico. [150] Altro merito incontestabile: in casa Marcellin non si parla di politica; ma qualche celebrità parlamentare è stata inventata in quel salone.

«Si susurra anche di qualche mitria di vescovo distribuita per l’influenza della contessa. Vedova del conte senatore Marcellin, antica famiglia veneta dogale, la contessa è divorziata da poco da un cardinale. Divorzio non per incompatibilità di carattere, per ragioni di decoro. I loro rapporti sono rimasti eccellenti. Per altro Sua Eminenza non appare mai ai ricevimenti ufficiali del mercoledì e del venerdì.

Giuliano, poco edificato dalle informazioni maligne, da lui non chieste, tentò divergere la conversazione.

— Dimmi un po’, chi è quel deputato che sta leggendo là, all’estremità della tavola?

— Quello? Non è un deputato; credo non lo sia mai stato. È un senatore. A Montecitorio lo si vede raramente. Se è qui, gli è che deve bollire qualche cosa di grosso nella pentola dei provvedimenti finanziari... Qualche catenaccio o monopolio, se pure non si tratta di ferrovie... È il trait d’union, il ponte sul quale sono passati tutti i ministeri di Sinistra per avere l’unanimità dei voti della Destra in Senato.

«È il senatore Loschi, ninfa Egeria inevitabile, indispensabile. In affari passa per jettatore et pour cause; in politica, viceversa.

«Abbiamo il Senato in rivoluzione, si conta su di lui per ammansarlo... per ciò prevedo un grosso affare, per lo meno un catenaccio. Simili favori non si ponno mica pagare a contanti: concessioni, preavvisi, compartecipazioni... Il proverbio dice, continuò l’instancabile parlatore: «fammi indovino e ti farò ricco!» Il preavviso in tempo utile di una operazione del Tesoro, ti può far milionario in quarantott’ore.

[151]

«Si arrischia, qualche volta, per gli umori della Camera... Un catenaccio abortito può essere un disastro. S’è già visto poco tempo fa. Case colossali saltarono come fuscelli. Avevan fatto provviste ciclopiche onde prevenire l’aumento del dazio; il catenaccio respinto, i prezzi precipitarono e con essi i bagarini.

— Bagarini?

— È un termine romanesco, affibbiato agli aggiotatori di ogni genere, incettatori di merci per monopolizzarle sui mercati, nelle borse, a prezzi elevati.

«L’altro laggiù, vicino al senatore, il calvo che sta scrivendo, è anche un curioso tipo. Non è ricco, spende centomila lire ad ogni elezione; ma ci vive splendidamente. È un’agenzia ambulante d’affari, e dell’ufficio non paga neppur l’affitto. L’ufficio l’ha qui, non spende un centesimo in oggetti di cancelleria, largamente forniti dalla Camera. Non avendo ditta, si vale dell’intestazione della rappresentanza nazionale. La sua ditta è la Camera dei deputati; il recapito, Montecitorio. A servirlo non parano tre uscieri, cui non dà mai un soldo di mancia; probabilmente ha intenzione di associarli negli utili della sua azienda.

«Vive a Montecitorio, scrive cento lettere al giorno, non ha mai parlato nelle sedute pubbliche, non ha mai letto un ordine del giorno o ascoltato un oratore; in compenso ha sempre votato per tutti i ministeri... A memoria d’uomini non vi ha un solo appello nominale con un suo voto di opposizione. Duecento svizzeri altrettanto fedeli al potere, e i ministeri sarebbero inamovibili e indistruttibili quanto e più del Colosseo.

«Il curioso, riprese il deputato Lastri senza prender fiato, si è che nel collegio ha fama di rivoluzionario ed è portato sugli scudi da una maggioranza radicale.

[152]

— Come mai una simile contraddizione? chiese Giuliano, che cominciava a divertirsi all’arguta maldicenza del collega.

— Non è contraddizione, bensì un fenomeno comunissimo e costante. Tranne pochi, anzi pochissimi, disgraziati zimbelli della politica, ogni deputato ha due personalità distinte, come certi personaggi di Hoffmann. Il deputato in vacanza al collegio; il deputato in funzione a Roma.

«Non parlo del candidato, perchè è tuttavia allo stato di bruco, nelle meravigliose metamorfosi parlamentari; mi occupo della crisalide, uscita dal bozzolo elettorale, con tanta fatica, tanta cura e sorprendente abilità tessile dal bruco tramato.

A questo punto l’oratore avvicinò una seggiola al lungo tavolo sul quale erano sparsi a centinaja i giornali d’ogni lingua e paese, e si sedette facendo segno al giovine collega di imitarlo. Tutt’intorno era un via vai di onorevoli, molti sconosciuti fra loro; quindi, ai saluti, ai benvenuto dei colleghi antichi, le presentazioni dei nuovi. Argomenti delle conversazioni, colle narrazioni degli episodi eroicomici della recente battaglia elettorale, il programma finanziario del ministero, il discorso della Corona, indetto per il giorno seguente.

L’onorevole Lastri, intanto che discorreva col neofito Giuliano, spiegandogli la doppia individualità parlamentare, scambiava ogni tratto saluti e sorrisi, pur non distraendosi dalla dissertazione. Il deputato Lastri, temuto per la lingua pungente, qualche volta spietata, godeva grandi simpatie, guadagnate colla rispettabilità personale, colla bontà d’animo, contrasto bizzarro alla sua maldicenza.

Nei sorrisi, che egli raccoglieva distratto, vi era qualche cosa di furbesco e di timido, come avessero voluto [153] significare tacitamente: «Chi stai dilaniando?» E gli onorevoli gli si approssimavano facendogli circolo, forse non per curiosità soltanto; anche nell’intenzione di scongiurare, colla loro presenza, il proprio massacro. Eran stati tali, sì incredibilmente scandalosi i recenti abusi e le gherminelle elettorali, che ognuno temeva venisse il proprio turno. L’oratore, abituato ad una galleria di ascoltatori, continuava senza preoccuparsene, trattando Giuliano con simpatia speciale:

— Il deputato in vacanza, continuò l’onorevole Lastri, negli abiti, nel contegno, nel linguaggio, nelle convinzioni, nei principî, nella condotta politica, è tutt’altri del medesimo onorevole a Montecitorio.

«Molti elettori rivedendo in Roma il deputato del loro cuore e del loro collegio, non sanno riconoscerlo, tanto è trasformato; trasformazione, la quale non può aver raffronto che in quella di certi cattivi mariti latitanti dal tetto conjugale.

La galleria degli ascoltatori, che s’addensava sempre più, rise al raffronto... Giuliano richiamato, per associazione di idee, alla sua Adele lontana, fece sorridente un atto di diniego, e l’occhio, stranamente azzurro ai bagliori del cielo di Roma, si velò inumidito. Lastri, osservatore finissimo, gliene seppe grado... Lo fissò in volto per studiarlo meglio, sentì un brivido di tenerezza e, senza interrompersi, pensava: «un agnello spontaneamente venuto per farsi scannare nel grande macello!»

L’onorevole Lastri, parlatore instancabile ed inesauribile, era dotato della facoltà di alcuni celebri giuocatori di scacchi, di poter, cioè, tener testa contemporaneamente a parecchi competitori su diverse scacchiere. Discorreva perfettamente, pur pensando ad altro.

«Ha la mente foderata,» aveva detto di lui un collega, dopo una felice replica al ministro dell’istruzione [154] pubblica, il cui discorso non avrebbe dovuto sentire, immerso come era stato, mentre il ministro parlava, in una vivissima discussione archeologica col celebre medico archeologo deputato Gloriosi.

— L’Italia, non c’è che dire, continuava l’onorevole Lastri, è eminentemente democratica. I monarchici sono monarchici per solo amore dello statu quo, non per convinzione, per diffidenza dell’ignoto. I dinastici, eccettuata l’alta burocrazia e l’ufficialità dell’esercito, non si trovano più che in Piemonte, ed ancora bisogna cercarli. La grande massa, quindi, è democratica o clericale. Il clericalismo, naturale nemico delle instituzioni, tende colla politica di Leone XIII a democratizzarsi. Ma i clericali propriamente detti, per ordine del pontefice, non votano. Non per paura della sconfitta; per timore della vittoria. Vittoriosi, provocherebbero una reazione. Quindi conflitti; forse la guerra civile, fors’anche lo sfacelo di questa Italia nuova, tanto necessaria al Papato, per atteggiarsi come vittima all’estero e vivificare i feticismi che andavano spegnendosi, e ancora per avere un grande paese nel quale sussistere, prosperare, agire liberamente.

«In quale terra, in quale monarchia o repubblica, il Papato potrebbe, a questi chiari di luna, aver maggior splendore e libertà?

«Le querimonie di Pio IX avevano stancato non solo i fedeli, anche il Padre Eterno; il quale, informato a tempo dal compianto generale Carini, sulle idee ed intenzioni dell’arcivescovo di Perugia, diede ordine allo Spirito Santo di inspirare a favore del cardinal Pecci il prossimo futuro conclave.

— Sta bene! interruppe l’onorevole Alfredi, uno degli ascoltatori; ma ciò non spiega la nostra doppia individualità.

[155]

— Doppia come le cipolle! Ti servo subito. Se in ogni collegio vi sono elettori ed elettori: dinastici, monarchici, repubblicani, socialisti, clericali votanti, clericali astensionisti, sonvi pure collegi e collegi nei quali le dosi della miscela elettorale sono diversamente ripartite, e siccome ogni singolo deputato assume nel proprio collegio il contegno che la maggioranza degli elettori gli inspira, così ogni collegio (escludo quelli delle grandi città) ha un tipo speciale, tutto locale, di deputato, travestito a seconda delle opportunità elettorali. Come ogni città d’Italia ha la propria maschera: Arlecchino, Pulcinella, Meneghino, Gianduja, Stenterello, ecc., ecc., così ogni collegio ha la propria maschera parlamentare, edizione unica.

«E tutte queste maschere, che siamo noi cinquecento otto, nientemeno! quando arrivano a Roma, buttano i cenci provinciali, per uniformarsi tutti come una legione di carabinieri.

«Nel collegio predichiamo il sollievo dagli aggravî, a Montecitorio votiamo nuove imposte; a casa riduzione dell’esercito; alla Camera, coi bilanci, votiamo fra gli entusiasmi le maggiori spese per gli armamenti; là il libero scambio, qui nuovi balzelli doganali, nuove barriere ai nostri prodotti; discentramento al collegio, giacobinismo a Montecitorio; libertà giurata agli elettori; alla Camera approviamo ogni arbitrio, ogni infrazione alla legge, ogni enormità dispotica, perfino i decreti ministeriali o regi sostituiti alla sovranità nazionale; la Gazzetta ufficiale grande legislatrice... Che dico? Siamo giunti alla evirazione, rinunziando, in odio al patto fondamentale, alle nostre prerogative di inviolabilità, superfettazioni, ormai, come la defunta guardia nazionale.

«Ai collegi, le cinquecent’otto maschere sono patrioti [156] lacrimanti sull’esilio delle sorelle irredente, e qui triplici sfegatati, teneri amici dell’Austria.

«Ecco, mio caro Sicuri, disse alzandosi il deputato Lastri, in atto di andarsene, ecco come quel deputato che tu sai, possa essere radicale al suo paese, pur essendo ministeriale a Roma.

Giuliano anche erasi levato da sedere e la galleria, a conferenza finita, si disperse per le sale ed i vasti ambulatorî.

Lastri, preso a braccio Giuliano, continuò sottovoce:

— Quegli ascoltatori mi annojavano; uno fra gli altri avrebbe potuto credere che alludessi a lui se ti avessi narrato che vi sono deputati inamovibili pel solo fatto che disimpegnano per il loro collegio ogni sorta di commissioni. L’onorevole Cortesi spinge la compiacenza verso gli elettori suoi al punto che la di lui abitazione qui in Roma è un varo bazar da 49 ed anche più. Dalle museruole ai collari per i cani, ai cinti ortopedici; dai manicotti per signora alle vanghe per contadini, c’è di tutto. L’elettore desidera e, come per incanto magico, l’oggetto gli appare sul tavolo sotto forma di pacco postale o ferroviario contro assegno... Il solo parroco ha diritto di aver merce a credito, perchè paga in messe ed in propaganda elettorale dal pulpito e nel confessionale.

«Il curioso si è che l’onorevole Cortesi a Roma è un mangiapreti arrabbiato, e nel collegio non manca ad una sola funzione religiosa. Vota sempre contro tutti i governi, ma si squaglia tutte le volte in cui l’opposizione potrebbe comprometterlo con Santa Madre Chiesa. Tutto ciò perchè i clericali sono in maggioranza nel suo collegio, e non osando a Roma un’opposizione apertamente clericale, si imbranca con chi può, contro tutti i ministeri, pur di poter dire ai papisti suoi elettori, [157] più papisti del papa: «Vedete! Non un voto per il Governo usurpatore!»

«Vi fu un momento in cui la posizione dell’onorevole Cortesi fu scossa, denunziato da un giornale clericale di provincia. Non rispose, non polemicò; inondò il collegio di corone del rosario per le vecchie, di libri da messa per le giovani, di abitini ed imagini sacre per i fanciulli, il tutto benedetto da Sua Santità, e senza neppur le spese di porto. Tutto il gentil sesso fu per lui, ed il sesso forte votò come volle il debole.

«Cortesi è un altro deputato a vita. A vita sono pure i deputati feudali, i quali, per altro, essendosi infiltrata un po’ di fillossera socialista nei loro contadini, sono costretti a pagar salata la elezione, che una volta ottenevano gratis et amore. È ben vero che alla fine di ogni legislatura son già rifatti della spesa, lesinando sui salarî... Poveri villani, sono essi che pagano l’elezione del padrone. Sono i cenci che vanno alla cartiera!

Un pensiero impertinente dovette passare per la testa dell’instancabile parlatore, perchè fermandosi di botto sorrise scotendo il capo, come se si fosse trattato di una grande corbelleria.

Giuliano, che cominciava ad interessarsi vivamente alle maldicenze del vecchio collega, iniziazione preziosa nei misteri di Montecitorio, quantunque ancor più pessimiste delle rivelazioni di Ruggeri, chiese curiosamente:

— Perchè ridi?

— Oh, un ricordo, per associazione di idee... Ti ho detto che sono sempre i poveri che pagano, fatto costante dal giorno che Adonai condannò Adamo a guadagnarsi il pane col sudore della fronte.

«Ebbene, vedi quel deputato là, alto, snello, dal [158] tipo distinto, dai lineamenti fini, eleganti, dalla lunga chioma nera ricciuta, lo vedi là, che sta osservando una carta geografica in rilievo, appesa alla parete?

— Sì! sì, lo vedo.

— È un medico distintissimo che, per sua sciagura, si è dato alla freniatrìa. Dico sciagura, perchè nulla di più contagioso della follìa. Fino a jeri fu radicale appassionato e, credo, anche convinto; ma il di lui collegio, già repubblicano, ha fatto una rapida evoluzione socialista. La lotta di classe, il vangelo; quindi, ostracismo alla politica, specialmente a quella parlamentare. Il deputato, necessariamente si è fatto socialista, classificandosi lottatore anch’esso. Vota contro i ministeri, non che gli importi se al Governo siavi il duca d’Ermina di Destra, piuttosto che il Bellitti, attuale presidente del Consiglio di... di... e chi sa di qual partito sia il nuovo padre eterno ministeriale? o il Dentarelli che lo appoggia, aspettandone la successione, Tartufo raffinato, il quale ha già preparato la bara dell’alleato; o il grande altitonante Sicirri, che detronizzato nicchia ringhiando come un can mastino alla catena, o in fine il diavolo! Il lottatore di classe vota contro, perchè il suo è il programma delle palle nere.

«Ebbene, questo filantropo socialista, in una delle ultime tornate della legislatura tanto inonoratamente testè sepolta, si scatenò contro gli amici antichi dell’Estrema, chiedenti lo sgravio dei contributi, che rovinano la proprietà fondiaria: «Imposte! Non bastano! Ne vogliamo altre delle imposte... Le imposte sui ricchi, le imposte sul lusso, le imposte sulle fortune, sui patrimoni scandalosamente improvvisati, sugli affari loschi, rovina dello Stato e della nazione!»

«L’ingenuo non pensava che le imposte dei ricchi sono i poveri che le pagano. Non pensava che l’abolizione [159] del lusso rappresenta la fame degli operaî che ci vivono... Colpite la produzione, ed avrete rovinato gli opificî, come l’imposta sulla proprietà fondiaria ha rovinata l’industria agricola... Sempre i cenci che vanno alla cartiera! Lotta di classe davvero; ma contro quella che si vorrebbe difendere!

Il deputato Lastri, ravvisatosi, tirò l’orologio dal taschino, esclamando meravigliato:

— Già le cinque! Sicuri, ti lascio. Se mi vorrai cicerone fra queste rovine nuove, nessun archeologo ti potrà meglio servire, neppure il professore Bernabei fra gli avanzi etruschi. Rovine di uomini, di nomi cari, di coscienze, qualche volta di patrimonî, compenso alle rapide fortune ed ai patrimonî rifatti nella gran rovina del paese.

«A proposito, vai stasera dalla contessa Marcellin?

— Necessariamente: l’invito è tanto gentile, che sarebbe sconvenienza il non andarvi.

— Verrò ancor io, chè anch’io sono fra i pochi ammessi all’onore dei mercoledì e dei venerdì.

[160]

CAPITOLO XII. Intrighi e amore.

Esclusi i saloni degli stranieri, ove le due aristocrazie romane, la bianca e la nera, si incontravano qualche volta come in terreno neutro, alcuni anni sono erano rarissimi i ricevimenti nei quali i due elementi, clericale e liberale, si potessero confondere.

L’aristocrazia romana aderente alla corte sabauda, le alte cariche e i funzionari dello Stato, senatori, deputati, magistrati, ufficiali dell’esercito, perfino i diplomatici presso il Quirinale, erano al bando dai saloni neri. Gli intransigenti sdegnavano incanagliarsi coi principi romani, che avevano aderito all’Italia nuova.

Oggi le barriere a poco a poco si rompono, e i due campi vanno sempre più confondendosi. I vecchî raggiungono Pio IX nella tomba, i giovani sono stanchi di querimonie ed approfittando della cristiana tolleranza del pontefice, non disdegnano fare scorrerie nel campo nemico, ove qualche volta piantano le loro tende.

La clausura è finita, il volontariato nell’esercito serve a fondere i due elementi. Gli stessi clubs clericali non domandano più l’atto di fede per l’ammissione dei nuovi soci. Come nell’aristocrazia, nella stampa; giornalisti clericali e così detti liberali, vivono da buoni colleghi, zappando ciascuno il proprio campo, nell’accordo più perfetto.

Le concessioni furono reciproche ed avvennero gradatamente, [161] quasi insensibilmente, ad onta dei colpi di testa dei governanti, i quali, a scatti, provocarono violenze di cui fecero e fanno penitenza, per provare al mondo cattolico la piena libertà del Papato.

Il salone della contessa Marcellin, considerato come internazionale, per la maggioranza di frequentatori stranieri, da anni aveva servito di punto di congiunzione fra avversarî.

Non vi si cospirava propriamente, vi si intrigava. Tutti i conciliatori di ambo le parti vi erano passati.

Quanti castelli di carte rovinati al primo soffio di vento! In compenso vi ci si divertiva. L’onorevole Lastri l’aveva detto: «belle donnine e gente allegra.» Vi si combinavano anche affari, e, quantunque non vi si parlasse mai di finanza, di borsa, gran parte dei milioni perduti dal Vaticano e dalle famiglie principesche, trovarono l’esodo dalle porte e dalle finestre del sontuoso appartamento della vedova del senatore, senza colpa della padrona di casa, del resto. Il precipitare de’ valori italiani in genere, dei romani in ispecie, spalancò il precipizio ai troppo fidenti. Monsignor Arrighi, ora semplice prete, medita piangendo sui trenta milioni dell’obolo di san Pietro sfumati, Mario tonsurato sulla grande rovina. Un crack pauroso! Pure la matura e sempre bella contessa non ha l’aria di avvedersi dei disastri avvenuti a lei d’intorno. La bufera passò sulla sua casa senza neppur spostarne una tegola, senza sgretolarne un ornato. Qualche intimo di meno e la disparizione di monsignor Arrighi, ritiratosi nel suo palazzo, intatto anch’esso, come l’elegante villino della contessa.

Alla sera i ricevimenti gaî; gli affari si trattavano di giorno. Ferretti, l’oculato borsista, l’affarista intraprendente e fortunato, il bandito onnipotente, non sarebbe [162] stato ricevuto; i suoi precedenti, la famigeratezza gli precludevano l’adito in società. Accarezzato, adulato, riverito per le sue influenze, come le donne di malaffare non aveva adito che per le porticine segrete ed in segreto, ed egli consolavasi dell’ostracismo apparente, compensato dalla sua occulta potenza sui portafogli, sulle coscienze rapaci od ingenue di una clientela infinita; compensato del regno su tutto il demi-monde della politica, della finanza, sugli eroi delle bische.

Compenso i convegni misteriosi colle alte notabilità, i rapporti intimi con monsignor Arrighi, amministratore incontrollato del patrimonio pontificio.

In casa della contessa si erano tramati i grossi colpi di borsa, sorrisi in principio dalla volubile dea, allettamento incoraggiante a più formidabili operazioni, meno felici da prima, disastrose più tardi, quando furono ingrossate per l’impazienza di riguadagnare rapidamente le somme perdute.

L’oro usciva a fiotti dalle casse vaticanesche, che andavano man mano riempiendosi di titoli, i quali franavano per la china del fallimento nazionale colla violenza di una valanga alpina.

Il miracolo delle noci, mutate in foglie secche: Mobiliari, Generali, Venete, Crédit, Industriali, Istituto Romano, Raffinerie, Risanamento, Utilità, Omnibus, Immobiliari, ecc.

E con questi, i valori migliori, travolti dalla fiumana del ribasso, deprezzati non solo per il discredito interno, per le crisi estere: la greca, la portoghese, l’argentina, l’australiana, che avevan scossi i mercati più solidi ed ottimisti.

Un Waterloo finanziario, che lasciava lungo strascico di fallimenti e rovine, per molti anni irreparabili.

[163]

Colle banche e le società anonime, coll’obolo vaticano, le fortune annientate di molte famiglie principesche, e modesti patrimonî della borghesia a centinaja perduti.

Ferretti, l’abile, l’infallibile dall’occhio di lince, dalla seconda vista, sdegnato contro sè stesso per non essersi arricchito sulla rovina generale, scampato a mala pena al disastro universale, meditava la rivincita. La passione del giuoco, la febbre delle speculazioni, la libidine del rapido guadagno lo avevano acciecato ed usciva egli pure malconcio dal naufragio, furente di non aver saputo appropriarsi almeno i rottami dei disastri altrui.

La contessa Marcellin, più abile, aveva raccolte le briciole del banchetto nei giorni lieti e, previdente fra la follìa altrui, si era arrestata prima che la mano dell’angelo scrivesse le fatidiche parole di maledizione:

Mane — Tekel — Phares!

La volubile dea cessò di sorridere a Ferretti, vinto, ma non domo dalla fatalità. Dopo tante sfide temerarie e fortunate, tanti ardimenti felici e furfanterie impunite, era venuta l’ora dell’espiazione.

Tutto questo lo sapeva il deputato Lastri? Probabilmente no, perchè, nella sua rigida intransigenza in fatto di onore, non avrebbe mai varcata la soglia di una casa frequentata da Ferretti, fosse pur clandestinamente ricevuto.

Se li avesse conosciuti, certi misteri, a Giuliano li avrebbe rivelati.

Ma Giuliano ormai era lo zimbello di Ferretti, che lo teneva in pugno colla promessa di convalidazione, sperando rifarsi di una parte almeno delle occasioni perdute, sulla ingenuità del giovane onorevole.

Il progetto era semplice: speculare coi danari dell’onorevole Sicuri, non arrischiar nulla del proprio in [164] caso di perdita; serbarsi la parte del leone nelle operazioni fortunate. Le oscillazioni dei valori più accreditati erano tempestose, un lansquenet furibondo per gli audaci; i ribassi esagerati producevano le esagerate riprese. Nulla di più facile dell’arricchirsi, concedendo anche largo profitto al cliente. Si trattava di imbroccare felicemente le prime intermittenze, e la stella offuscata avrebbe brillato di nuovi, più fulgidi splendori.

I giorni nei quali Ferretti poteva tirare a colpo sicuro su tutti i grandi istituti di credito erano passati. L’alta banca si serviva pur sempre di lui come mezzano presso il Governo per i grossi e loschi affari, del di lui giornale, onde patrocinarli e lanciarli; ma ci voleva ben altro per la fame di quell’animale di rapina! le erano bricie. Le sovvenzioni sui fondi secreti eran lesinate con parsimonia da Arpagone, troppi concorrenti nella stampa erano sorti, il di lui esempio era stato imitato da colleghi altrettanto abili e meno compromessi; il Parlamentare, in condizioni migliori di pubblicità, assorbiva il meglio; cento giornalucoli di provincia erano piombati sulla cassa nera di Palazzo Braschi e, nugolo di cavallette, divoravano il resto.

Gli affari doganali, i contrabbandi legalizzati al ministero delle finanze colla complicità di funzionarî infedeli, pericolosissimi, rendevano meno per la concorrenza di deputati, i quali, senza pericolo, gli contendevano le offe.

Tentare il gran colpo! Un conto corrente di mezzo milione, e Ferretti si sentiva in grado di dar battaglia, di vincere.

Giuliano era l’uomo provvidenziale. Duecentomila lire depositate all’Istituto Romano e la garanzia del conte Sicuri potevano procurargli anche un milione. [165] Necessario quindi di ammaliarlo, e sopratutto garantirsi del di lui silenzio presso Ruggeri, il più altezzosamente sprezzante de’ suoi nemici. Ferretti, in buona fede, la sola buona fede sua, riteneva di avere nemici fra i galantuomini. Aveva bensì de’ riconoscenti fra qualcuno de’ suoi beneficati, aveva ammiratori fra gli imbecilli divinizzatori del successo, aveva spietati concorrenti, ma nemici no. Il disprezzo non è odio. Ruggeri considerava Ferretti un animale immondo e pericoloso, dal quale bisognava guardarsi, per pulizia prima, poi per la propria sicurezza.

Certamente, se Ruggeri avesse soltanto sospettato i rapporti che andavansi annodando fra Ferretti e Giuliano, li avrebbe di un colpo troncati; ma Giuliano non osava dir tutto al troppo intransigente amico.

Sul conto di Ruggeri, Ferretti era d’accordo colla contessa Marcellin, per antica ruggine, per le stesse raccomandazioni del sottoprefetto Cerasi, il quale le aveva scritto, che se si voleva far qualche cosa del loro protetto, bisognava anzitutto sottrarlo all’influenza dell’ex deputato Ruggeri, che l’avrebbe costretto nell’Estrema Sinistra.

Il commendatore, dopo diciassette anni di esilio a Miralto, esagerava l’importanza e la possibilità di carriera del suo eletto. L’abile politico, dal microcosmo vedeva tutto ingrandito al di fuori, e gli pareva che col proprio, coll’ajuto dello contessa e di Ferretti, Giuliano avrebbe dovuto arrivare alto e sollecito. Per giustizia devo soggiungere che il sottoprefetto non sospettava neppure lontanamente i piani di Ferretti sul pupillo. Il sottoprefetto riteneva sempre il Ferretti all’apogeo della fortuna e della potenza... In fondo, il commendatore Cerasi si era appassionato per la sua creatura ed aveva finito per volergli bene... a suo [166] modo. Non avrebbe mai cospirato a di lui danno, se non per farsene sgabello.

La contessa Marcellin, dal canto suo, indovinava i progetti di Ferretti; non li osteggiava, perchè anch’essa aveva il suo sul giovane deputato, sì caldamente raccomandato dal sottoprefetto.

Gli uomini politici vecchi, sui quali era basata la di lei influenza nelle sfere ufficiali, si spegnevano man mano, quindi il bisogno di nuove reclute, uomini dell’avvenire. Essa aveva fede, ad onta delle ultime prove disgraziate, nell’oculatezza di Ferretti, e questi, giovando a sè stesso, avrebbe potuto, aumentando il patrimonio dell’onorevole Sicuri, giovare alla di lui carriera politica. Per accaparrarselo e mantenerselo fedele, la contessa aveva meditato un piano che le sembrava dovesse essere infallibile.

***

Alle nove pomeridiane, nel coupé della contessa Silva, anche il coupé dell’orizzontale gli era toccato in sorte, Giuliano si recava al villino della contessa Marcellin, all’Esquilino.

Un solo fanale era acceso, dei due simmetricamente eretti sui pilastri del cancello d’ingresso; nessun lume splendeva dalle finestre, non una carrozza stazionante nella strada e nel giardino che separava il villino dalla via. Tutto era silenzio! Nel giardino, mal rischiarato dall’unica fiamma del fanale, la penombra.

— O il cocchiere si è sbagliato, pensò Giuliano, o mi sono sbagliato io. Probabilmente non è oggi il giorno di ricevimento... Che sia giunto troppo presto?

Stava per risalire in carrozza e andarsene senz’altro. Fu prevenuto da un domestico gallonato:

[167]

— Il signor conte Sicuri?

— Appunto!

— La signora contessa, quantunque un po’ indisposta, la prega di voler entrare.

Giuliano fu preso dal panico. La sua timidità già allarmata si inalberò alla minaccia di un solo a sola colla contessa... Sarebbe ritornato addietro con entusiasmo; ma, non vi era modo.

Il cerbero in calzoni corti, calze di seta, fibbie e galloni d’oro, lo precedeva premuroso. Dovette seguirlo, facendo di necessità virtù.

— Maledetta la fretta! pensò. Potevo ritardare di mezz’ora e, probabilmente, avrei trovato il cancello chiuso.

E col coraggio della disperazione, il solo coraggio dei timidi, affrontò risolutamente la scalea in marmo bianco che dal giardino metteva al vestibolo, mentre ossequioso, il domestico, spalancava la porto vetrata.

Nella penombra, chè anche il vestibolo era appena rischiarato da una lampada in bronzo cesellato dai cristalli a colori, un sentore di eleganza, un profumo di buon gusto signorile, veramente moderno fra i massicci mobili antichi di quercia bruna e i soffici tappeti orientali. Nulla del lusso imponente de’ grandiosi palazzi romani, da Giuliano visitati durante il precedente soggiorno in Roma.

Il comfort artistico, senza ostentazione di ricchezza. Nulla di monumentale nella scala, che dal vestibolo metteva al primo piano; snella, leggiera, dalla branca dorata, era di modeste proporzioni, le pareti coperte da una tappezzeria oscura, trapunta in oro colle armi dei Marcellin, sormontate dal corno ducale.

Qualche cosa di misterioso nell’atmosfera soffice, tiepida, silenziosa, nella ossequiosità taciturna del domestico [168] premuroso, che lo precedeva come ombra, senza produrre il minimo rumore su per i gradini imbottiti. Anche là, la luce, meno fioca, era mitigata da cristalli colorati; i doppieri, sorretti da personaggi mitologici, copie in bronzo di statue greche, erano spenti... Per contro, l’anticamera, come il vestibolo dai mobili in quercia intarsiati, era splendente di luce. Agli angoli, quattro fauni reggevano ciascuno un candelabro dal quale avvampavano saettanti molteplici fiamme; due grandi specchiere scendevano fino a terra, previdenza gentile per le eleganti visitatici, che, appena scese di carrozza, avessero voluto rassettare l’abbigliamento scomposto; un magnifico arazzo spiccava dalla tappezzeria grigia, qualche oggetto d’arte sulle consoles, un trofeo d’armi per sovrapporta all’ingresso della scala, e, vivente ornamento bizzarro, un magnifico levriere, artisticamente atteggiato, quasi a guardia della porta del salone, immobile, incurante del nuovo venuto, come se la consegna fosse stata di simulare il marmo.

Un secondo domestico si impossessò del soprabito e della canna di Giuliano, mentre il primo lo annunziava sotto voce, quasi avesse temuto risvegliare i mani dormenti di quel villino fatato.

Giuliano, senza avere avuto il tempo di riaversi, si trovò in una vasta sala. Al primo entrare, pel rapido passaggio dalla luce vivissima dell’anticamera nella semi oscurità, non seppe discernere che un paralume roseo, attraverso il quale spandevansi raggi miti, rutilanti, come di una lontana aurora boreale in una notte polare.

Un luccichìo confuso, appannato, di mobili dorati, di specchî, di cristalli; ed in fondo in fondo al salone, non avvertito da prima, un tavolo da giuoco, quattro giocatori intenti alla partita, nella penombra anch’essi, [169] per gli opachi paralumi che projettavano tutta la luce dei doppieri sul tappeto verde del tavolino.

Giuliano ristette; abituandosi alla semi oscurità, riuscì a discernere due donne sedute su d’un divano. Fu l’affare di un istante. Una di esse gli venne incontro, porgendogli la mano.

— Signor conte, devo farle mille scuse se la ricevo nell’intimità. Indisposta, ho dovuto rinunziare al consueto ricevimento, limitandolo agli intimi, fra i quali spero ella vorrà annoverarsi.

Il complimento era gentile. Giuliano balbettò un ringraziamento.

— Signor conte, mia nipote Giulia... disse, ravvedendosi, la marchesa Giulia Fiori. — Giulia! il conte Sicuri, deputato al Parlamento.

La marchesa Giulia, a sua volta, porse la mano e soggiunse:

— La zia temeva che vedendo tutto bujo ella se ne sarebbe ritornata. Abbiamo messo di guardia un domestico per trattenerla.

— Sono riconoscente, signora; ma non vorrei abusare della cortesia; la contessa è sofferente... e forse...

— Che dice? Un po’ di emicrania, ma ormai sto assai meglio... Anzi, Giulia, faresti bene a togliere quel paralume che ci sprofonda nell’oscurità.

Giuliano fe’ atto di prevenire la marchesa; la giovine signora con agilità da monello arrivò prima e la magnifica sala si rischiarò come per incanto.

— Ah, così va bene! disse la curiosa figlia d’Eva, che friggeva d’esaminare la nuova conoscenza, da tre giorni soggetto di tutte le conversazioni della zia. C’era da credersi in una catacomba.

Un istante di silenzio, il tempo di riconoscersi. La giovine marchesa d’un colpo d’occhio rapido passò in [170] rivista il nuovo arrivato, ed al sorriso fuggevole, quasi impercettibile, che le sfiorò le labbra, parve soddisfatta.

Giuliano, colla sua aria timida da monachella, inspirava infatti la simpatia di primo acchito. L’abbigliamento inappuntabile senza pretensione alla gomme, la gentilezza dei modi, lui inconscio, gli accaparravano più della simpatia, la benevolenza, specialmente del bel sesso.

Meglio esaminata, la sua bellezza bionda appariva un po’ scipita, un po’ scialba, troppo femminea per la regolarità e l’espressione de’ lineamenti; la distinzione della persona, alta e snella, correggeva il difetto.

La sua Adele lo amava così, pure anch’essa ne conveniva: «Per un uomo, è troppo signorina,» diceva ridendo. La contessa Ida Marcellin fu meno rapida nel suo esame; uno sguardo scambiato colla nipote parve dire: «Me lo figuravo così.»

In quel mentre dal tavolo dei giocatori, che fin là si eran passate le carte silenziosi come automi, sorse un vero tumulto. La partita era finita, evidentemente perduta da una parte per un grosso sproposito di uno d’essi. Recriminazioni violente e clamorose del compagno perdente che non sapeva rassegnarsi alla sconfitta.

— Una partita vinta! stravinta! perduta poi per le sue distrazioni! Reverendo, se si sbaglia così a dir messa, poveri fedeli! povere anime del purgatorio!

Una risata accolse l’apostrofe, e il reverendo a difendersi:

— La scopa gliel’ha data lei... Del resto, come vincere? Non avevo carte...

La contessa s’interpose, ed approfittando della tregua presentò Giuliano.

Un prete, un senatore, un capodivisione al ministero delle finanze ed un alto funzionario vaticanesco, presentato [171] col titolo di commendatore, come il capodivisione; l’uno di Gregorio Magno, l’altro della Corona d’Italia, non monta, commendatori entrambi e buoni amici.

— La conciliazione in pieno, pensò Giuliano, rendendo gl’inchini e scambiando strette di mano.

La partita finita, le conversazioni si intrecciarono; Giuliano, trattenuto dalla marchesa Giulia in un a parte, fu tratto a narrare della sua felicità domestica, della rimpianta Miralto, dei progetti di richiamo della famiglia in Roma. La giovane marchesa s’interessava molto, troppo, a quelle confidenze da essa abilmente provocate.

— Il piccino quanti anni ha?

— Tre appena...

— Dunque, siamo ancora nella luna di miele!

— Presso a poco! La prima nube è apparsa per la mia elezione. La contessa non voleva saperne.

— Oh! e perchè?

— Si è messa in mente che a Roma l’avrei amata meno... Fisime di fanciulla!

La marchesa Giulia sorrise stranamente.

Il domestico entrò con un grande vassojo. La contessa preparava e mesceva il thè... i giocatori discutevano tutta via, ma serenamente, sul sette bello, sulla primiera e le scope dell’ultima partita. La marchesa non interrogava più e Giuliano narrava le sue impressioni romane, narrava, narrava, perfino eloquente, conchiudendo:

— I miei entusiasmi sono già un po’ sbolliti... Ma ormai devo dire come Vittorio Emanuele: «Ci siamo, ci resteremo!» Se fosse da ricominciare, ci penserei due volte... Troppe noje, troppi impegni, troppe contrarietà...

Si morse la lingua; stava per aggiungere: «e troppe spese.»

[172]

Non gli parve conveniente completare la confessione, dicendo che l’elezione era stata ottenuta a contanti e che a contanti e a protezioni intendeva aver giustizia dalla giunta.

La contessa distribuiva le tazze di thè, i giocatori si mischiarono alla conversazione che divenne generale... Dopo una mezz’ora il reverendo se n’andò col capodivisione. Giuliano fe’ atto di seguirli:

— Si trattenga ancora un momento, onorevole; a minuti arriverà la mia carrozza, partiremo tutti insieme. Non è per anco mezzanotte.

Giuliano sedette, lieto di prolungare la geniale conversazione. Le due donne avevano saputo con tatto infinito sorvolare su tutte le forme cerimoniose, trattando Giuliano con cortesia intima, sì che egli, tanto timido, si sentiva come fra antiche, care conoscenze. La bellezza sfolgorante della marchesa Giulia, la sonorità della voce melodiosa, il sorriso compiacente e benevolo, perfino il profumo che esalava dalla persona dalle movenze plastiche, eleganti senza affettazione, le cure simpatiche e cordiali dalle quali era circondato, provocavano in Giuliano un senso di benessere infinito ed all’infinito avrebbe voluto protrarre la partenza. Passò un’altr’ora; la loquela di Giuliano aveva assunta vivacità insolita. Ascoltato con simpatia, incoraggiato da sorrisi, da quattro begli occhî intenti, da repliche briose e confidenziali, discorreva, discorreva, sorpreso egli stesso di scoprire in sè una facoltà inaspettata.

Gli altri visitatori se n’erano andati tacitamente. Al pendolo del caminetto scoccò il tocco.

— Già la una! E la mia carrozza non è ancor giunta, sclamò la marchesa inquieta. Che abbia dimenticato di ordinarla? Il cocchiere crederà ch’io rientri colla tua, zia.

[173]

— Farò attaccare.

— Oh, sarebbe lungo. E poi la tua gente deve essere a letto da due ore. Manda a prendere una carrozzella alla stazione di Termini.

— Marchesa, il mio coupé è a sua disposizione.

La giovine donna stette titubante; una vampa fuggevole di rossore le colorò il volto.

— Attendermi? Sto lontano, presso il Tevere, quasi a Piazza del Popolo. Via di Ripetta. Tutta Roma da attraversare. No! no! Meglio mandare in cerca di una botte...

— Io non oso insistere. Il mio albergo è a due passi di qui... Farò una passeggiata a piedi gradevolissima.

— A quest’ora?... Colla tramontana che soffia stanotte! Non permetterò mai.

Intervenne la contessa:

— Giulia, tu puoi accompagnare l’onorevole Sicuri all’Albergo del Quirinale, poi continuare il tuo lungo viaggio fino al Tevere.

Giuliano non replicò; la combinazione fu accolta coll’assentimento del silenzio.

***

Ecco i due giovani, soli, nella semioscurità della carrozza, rapidamente trasportati verso l’Hôtel du Quirinal.

Fino a Piazza Termini non avevano scambiato che poche frasi. Giuliano era commosso; quell’avventura impreveduta lo turbava. Un profumo inebbriante si sprigionava dagli abiti della marchesa. L’alito caldo della giovane signora sfiorava il viso di Giuliano, che sentiva il sangue affluirgli al cervello... In Piazza Termini, poco lungi dall’albergo, la corsa gli era sembrata [174] troppo breve. Senza riflettere, senza chiederne il permesso, abbassò il cristallo e gridò al cocchiere:

— Via di Ripetta!

La marchesa non protestò, e Giuliano, richiudendo lo sportello:

— Marchesa, non potevo permettere rientrasse così sola, a quest’ora, in quartiere tanto lontano dal centro.

Essa ringraziò porgendogli la mano coperta dal guanto, calda del tepore della pelliccia, sotto cui erasi rifugiata a riparo del freddo frizzante... Giuliano afferrò la piccola mano, non la lasciò più... Docile, la manina, non protestò, pur rimanendo inerte alle strette insistenti della mano di Giuliano.

Così fino alla discesa di Magnanapoli, nel più profondo silenzio.

Essa, come fanciullo freddoloso, erasi rincantucciata nell’oscurità dell’angolo estremo dell’angusto coupé. Giuliano l’avrebbe creduta dormente se, ad intervalli, ad ogni faro elettrico, la luce, entrando dagli sportelli, non avesse illuminato due occhioni sbarrati, quasi paurosi. Alla svolta di Magnanapoli una ruota si incagliò nella rotaja del tram: un urto violento strappò un grido alla bella taciturna, lanciata contro Giuliano, che, inconsciente, inebbriato, la rattenne contro il suo petto, allacciandola brutalmente alla vita col braccio destro... Un molle atto di difesa, una breve lotta per svincolarsi, finchè, come vinta, Giulia lasciò cadere la testa incappucciata sulla spalla di lui.

Il cavallo non aveva rallentato e, rapido, troppo rapido, correva lungo il Corso, quasi deserto a quell’ora.

L’ambiente della carrozza riscaldato dall’alito, saturo del profumo bizzarro, dava le vertigini a Giuliano, il quale colle labbra desiose cercava quelle di Giulia, che nascondevansi riluttanti sotto il gran bavero della [175] pelliccia. Lotta in silenzio, rotta appena da sospiri, da flebili gemiti di protesta.

Il cavallo svoltava l’angolo di San Giacomo, correndo quasi senza rumore sull’asfalto del breve tratto di strada che fiancheggia l’ospedale, poi giù al trotto serrato per via di Ripetta.

Non sapendo a qual numero fermarsi, il cocchiere rallentava in attesa di ordini. Giunto in piazza del Popolo si fermò per conto proprio.

Il bacio, il lungo e dolcissimo bacio, fu interrotto; i due giovani furono richiamati alla realtà, come svegliati da un sogno.

— Dio mio! Dio mio! mormorò Giulia, rincantucciandosi nel fondo della carrozza.

Giuliano, affacciatosi allo sportello, chiese al cocchiere ciò ch’era avvenuto.

— Il numero del palazzo?...

— Ah, marchesa, il numero.

— Centotrenta, mormorò Giulia.

Ed il cocchiere, svoltato, a rifare la lunga via, per fermarsi poco dopo davanti ad un portone aperto ed ancora illuminato.

La marchesa era aspettata. Scese sorretta da Giuliano, senza pronunziare parola. In compenso, una stretta convulsa di mano, più eloquente d’una dichiarazione d’amore.

— Marchesa, quando ci rivedremo? mormorò sottovoce Giuliano, per non essere udito dallo staffiere che attendeva sulla porta.

— Domani... alle quattro! bisbigliò Giulia.

Raccolto il lungo strascico dell’abito, con gesto pieno di grazia, sparì quasi correndo verso lo scalone.

Al ritorno, Giuliano vide ancora splendenti di luce le sale del caffè Colonna. Fece arrestare, e, sceso, disse al cocchiere:

[176]

— Andate pure. Rientrerò a piedi.

Era arso dalla sete. Un turbine di pensieri contrastanti. Rimorsi pungenti... Una soddisfazione fatua per la galante avventura. Adele e Giulia!

— È possibile? Mi pare d’aver sognato. Strana donna! E quel profumo bizzarro, come bizzarra la di lei bellezza... Lo sento ancora, mi fa impazzire. Deve essere legno di sandalo... Anche sulle labbra quel profumo... No, domani non ci andrò. Che donna sarà? Vedova? Maritata?... Marchesa Fiori. Nome da romanzo... Troppo gran dama per essere un’avventuriera. D’altronde, è nipote della contessa Marcellin, altissima nobiltà veneta.

Così almanaccando rimase ultimo nel caffè; i camerieri assonnati, colla massima buona grazia, lo misero alla porta.

Rincasava alle quattro del mattino, sfatto, stanco, livido, la testa in fiamme. Aveva percorso a passi affrettati mezza Roma, come pazzo, fuggente la persecuzione d’un fantasma invisibile.

— Buona Adele! mormorava addormentandosi.

***

Era mattino già alto, quando Giuliano fu svegliato dal bussare insistente all’uscio della sua camera da letto.

— Che diavolo c’è? chiese indispettito al cameriere.

— Perdoni, signor conte, non l’avrei disturbato se il suo cocchiere non avesse insistito perchè lo svegliassi, dovendo farle una comunicazione urgentissima.

— Urgentissima? Fatelo passare.

Il cocchiere entrò timidamente; vecchio soldato, si mise in sull’attenti, aspettando di essere interrogato.

— Che è avvenuto?

[177]

Non rispose, fece segno alla presenza del cameriere, e colla mimica degli occhî fece comprendere che non avrebbe parlato davanti al testimonio.

— Portatemi una tazza di caffè, ordinò Giuliano, ponendosi a sedere sul letto.

— Signor conte, stamattina nel rassettare il legno ho trovato questo oggetto, certamente perduto jersera dalla signora che ella ha accompagnato a via di Ripetta... Deve essere di gran valore, perciò mi sono permesso di farla svegliare... Mi bruciava le mani. Non avrei voluto essere sospettato.

Sì dicendo, porse a Giuliano un oggetto accuratamente avvolto in un numero dello Svegliarino.

Giuliano, svolto il giornale, vide uno splendido braccialetto, di gran prezzo realmente.

— Brav’uomo, e l’avete ritrovato?

— Nel coupè, signor conte, sul soppedaneo. È fortuna che la signora uscendo non l’abbia fatto cadere a terra colle vesti a strascico... Sarebbe stato perduto.

— Antonio, cercate là, su quel tavolino, vicino alla finestra... Vedete? Vi è un portafogli... datemelo.

Giuliano, tratto un biglietto, lo diede al cocchiere.

— Oh, signore, per me? È troppo... Non ho fatto che il mio dovere.

— Via, grullo! È poco, troppo poco... Tieni, ed aspetta gli ordini... Avrò forse bisogno della carrozza più presto del solito... Che tempo fa?

— Bellissima giornata di sole; ma la tramontana soffia gelata.

Il cameriere rientrava col caffè. Antonio, raggiante di gioja si ritirava mormorando:

— Bravo giovinotto, il signor conte. Se fosse stato un inglese od un tedesco, mi avrebbe dato cinque lire, un biglietto da dieci al più.

[178]

Giuliano pensava:

— Anche questo braccialetto ci si mette. Ero deciso a rompere ogni rapporto colla marchesa... Ora, come fare? Mandare il braccialetto senz’altro, sarebbe sconvenienza... Scriverle? Che so io della sua casa? Potrei comprometterla col marito, se un marito c’è. Il meglio è che lo porti io, oggi alle quattro. Maledetto contrattempo, avrei voluto evitare questa visita. In ogni modo non mi vedrà altro... Raramente... Qualche volta dalla contessa Marcellin... Roma è grande e si ritrovano soltanto coloro che si cercano.

Riesaminò minutamente il giojello... La corona di marchesa sovrapposta al monogramma G. F...

— Giulia Fiori! Anche questo sente il profumo satanico che mi dà al cervello come l’assenzio!

Buttò il braccialetto sulle coltri e balzò per vestirsi, preoccupato, non sapendo ricordare l’affare importante che gli incombeva per quel mattino. Cercava, cercava inutilmente.

Ad un tratto, percotendosi la fronte colla palma della mano:

— Ah, perdio! La seduta reale.

[179]

CAPITOLO XIII. La seduta reale.

Dalle otto del mattino Roma, la Roma racchiusa nel circolo che ha per centro, al palazzo Bonaparte, l’angolo del Corso e via del Plebiscito, su cui prospetta l’antica fortezza di San Marco, altra terra irredenta; per raggi, via Vittorio Emanuele, via Nazionale ed il Corso, presentava animazione insolita.

Dall’alba gli stradini municipali avevano sparsa la inevitabile arena gialla, dal palazzo del Quirinale, lungo la via omonima, la discesa di Magnanapoli, il Corso, piazza Colonna, fino davanti l’ingresso di Montecitorio.

La sabbia gialla è una particolarità tutta romana, tradizione che si perde nell’epoca preistorica dei re.

Il lastrico di Roma è sdrucciolevole; la storia della Città Eterna infatti ci narra di cadute innumerevoli, almeno altrettante dei trionfi.

Provvida precauzione, la sabbia gialla, impedisce, se non le cadute delle amministrazioni capitoline e dei governi, gli stramazzoni dei cavalli.

L’arena gialla ha finito per essere emblema di festa. Nei tempi andati si soleva spargere per le corse dei barberi, come per le solenni apparizioni dei pontefici; ora, abolite le prime e rinchiusisi in Vaticano i secondi, l’arena si profonde per le solennità politiche, per le riviste militari, per gli ingressi ufficiali di principi, di re, di imperatori, per il corso delle maschere, quelle [180] del carnevale, per il getto de’ mazzettacci, ai quali soltanto, ormai, il carnevale del popolo è ridotto; per le periodiche messe funebri del Pantheon, per la solennità inaugurale di ogni sessione parlamentare, per i funerali ufficiali votati a spese dello Stato, del Comune o della Provincia, ad alti personaggi. I buoni quiriti, alla visti dello strato giallognolo d’arena, si schierano spontaneamente lungo i marciapiedi delle strade insabbiate, come se ubbidissero ad una parola d’ordine, aspettando rassegnati per lunghe ore la rappresentazione dello spettacolo gratuito, qualunque sia per essere, funerale o trionfo imperiale, non monta.

In quella mattina la ragione dell’insabbiamento era nota, e gli spettatori attendendo il passaggio delle berline reali, pazientavano nell’ammirazione delle cravatte bianche e dei cappelli a tuba degli invitati, i cui guanti spiccavano come macchie di calce sul panno oscuro dei soprabiti, sotto i quali nascondevansi le giubbe di rigore. Mormorii e risate gioviali, per i motti arguti dei popolani allo sfilare delle anacroniche uniformi, spesso ridicole, per la goffaggine di chi le portava, dei diplomatici e dell’alta burocrazia, le cui carrozze passavano alla spicciolata, precedendo il corteo reale, anzi i corteggi reali. Perchè sono due distinti; quello della regina e quello del re.

Per tale solennità, fino dal primo mattino le truppe sono schierate su d’una fila sola lungo i marciapiedi del percorso reale, facendo siepe alla folla curiosa che si addensa sempre più. La tramontana soffia tagliente, ma il buon popolo di Roma non ci abbada. Quante patriottiche bronchiti domani; chi ci pensa? La curiosità, che perdè la madre del genere umano, è la dote culminante dei quiriti, in fatto di circenses di qualunque genere, punto degeneri dagli avi.

[181]

Alla girandola, fuoco d’artificio per il Natale di Roma un tempo, poi per la festa dello Statuto, ed ora come lo Statuto abolito, in causa dei botti che simulano le bombe anarchiche; per la girandola tutta Roma accorreva entusiasta, una frenesia pirotecnica da manicomio; così per le defunte corse dei barberi.

Piazza del Quirinale è gremita; là l’uscita trionfale dei sovrani ed il loro trionfale ritorno; là le batterie d’artiglieria; là lo squadrone dei corazzieri, luccicanti ai raggi del sole come gli arcangeli celesti agli splendori abbaglianti delle sfere empiree.

In piazza del Quirinale gli applausi entusiastici, e sopratutto spontanei, periodicamente registrati dai giornali ben pensanti, telegrafati all’orbe intiero dalla Stefani.

I soldati sono il lusso dei re e dei loro successori, i presidenti delle repubbliche.

Per la pacifica cerimonia, senza la sabbia gialla e le giocondità del popolino burlone, vi credereste in pieno stato d’assedio.

Soldati in via Nazionale, soldati in via del Quirinale, soldati a Magnanapoli, soldati lungo il Corso, soldati disposti in quadrato a piazza Colonna, soldati in piazza Montecitorio, soldati perfino dentro nel palazzo della rappresentanza nazionale. Soldati a tutti gli accessi delle vie per impedire la circolazione delle carrozze, eccettuate quelle degli invitati muniti di biglietto.

Nella Città Eterna, quando la corte si muove in pompa, i cavalli plebei si riposano. I tram, gli omnibus, le botti, i carri, i carretti, tutto si ferma... Siete di partenza? Addio treno! Le strade rumorose di Roma, della Roma politica, per la vietata circolazione dei veicoli diventano silenziose, quanto i calli di Venezia. Pozzolana e soldati!

[182]

***

Giuliano, temendo di essere in ritardo, ordinata la carrozza, si vestì con fretta febbrile. Era a quell’età nella quale non occorrono grandi apparecchî di toletta per essere presentabili. Alle dieci e mezza era in carrozza; il cocchiere frustava allegramente, scendendo al gran trotto via Nazionale. Frustava, sapendo che per lui non vi erano consegne proibitive; portava seco un rappresentante inviolabile. La prepotenza dei piccini è nella protezione dei forti. Appena una fermata a Magnanapoli, allo square che circonda i ruderi delle mura di Servio Tullio, per farsi riconoscere dall’ufficiale e, dopo pochi minuti, a Montecitorio.

Il palazzo berniniano era, per l’occasione, parato a festa.

Un grande baldacchino rosso a frangie d’oro proteggeva dai raggi del sole il portone; due grandi cortine di velluto rosso a cordoni e fiocchi d’oro, scendenti a festoni, ornavano l’ingresso.

Nell’atrio, un battaglione di linea; tutt’intorno, carabinieri, guardie municipali (pizzardoni) in alta tenuta, ed una folla di invitati immensa; un pigia pigia plebeo, ad onta delle giubbe attillate, degli abbigliamenti eleganti delle dame, in gran tenuta esse pure, come la guarnigione.

I minuscoli piedi femminili, calzati ne’ scarpini lillipuziani, costretti a calpestare la pozzolana gialla della piazza, prima di giungere al tappeto disposto sulla gradinata dell’ingresso, scalpitavano impazienti, trattenuti come erano dalla risacca dell’onda umana irrompente nell’atrio e dagli scaloni invasi e rigurgitanti.

Il guardaportone, tutto d’oro, Atlante atletico, coll’orbe [183] terraqueo di Pompeo per pomo alla enorme mazza, simile a quella de’ capitamburi guidanti nei tempi eroici i granatieri della guardia alla vittoria; gli uscieri gallonati dalle pizzarde merlettate d’oro, dalle mantelline succinte, come quelle de’ bersaglieri, sovrapposte alle lunghe zimarre da ciambellani, non potevano far argine al mare irrompente, sul quale non vedevansi galleggiare che cappelli lucidi, a fumajolo, ed un agitarsi frenetico di mani inguantate; mani enormi, per l’effetto ottico del bianco sulle tinte oscure.

Tali confusioni, che a notte, all’ingresso di un grande teatro, per la prima rappresentazione di un’opera di celebre maestro, assumono qualche cosa di pittoresco, di giorno, alla luce insolente di una mattinata romana, sono sovranamente grottesche. Sì, stranamente ridicolo il nostro costume di società, uniforme ineluttabile, portato in pien meriggio all’aria aperta! Tanto stonato il contrasto fra le nostre giubbe, i nostri gibus e le livree dorate degli inservienti, le monture diplomatiche e militari! Tanto bizzarro il raffronto colle tolette smaglianti delle signore, tutte a piume, a nastri, a gemme; fra i cappelli mascolini e le mille foggie fantastiche dei copricapi delle dame, che un osservatore come Ruggeri, afflitto dalla malattia dei diavoli azzurri (blue devils) è tentato di credersi fra una turba di matti.

E Ruggeri, giunto la sera prima da Miralto, era là ad osservare.

Nella qualità di ex deputato aveva potuto oltrepassare i cordoni di truppa; venuto a Montecitorio per cercarvi Giuliano, la sera innanzi irreperibile. La ragione, la conosciamo.

— Oh, eccoti, Giuliano!

— Ruggeri! Quando sei arrivato?

— Jersera. Al tuo albergo mi dissero ch’eri uscito, [184] e che probabilmente saresti rientrato tardi, perchè eri in abito di società... Siamo già lanciati nella haute! Le mie congratulazioni, Giuliano! La noja ti sia leggiera!

— Quali nuove da Miralto?

— Tutto bene. Te ne parlerò poi, perchè non hai tempo da perdere, se vuoi prender posto per godere dello spettacolo e prestar giuramento. Dar l’assalto di qui è operazione difficile; entra dalla porticina di via dell’Impresa.

— Dimmi almeno come stanno.

— Bene, ti dico! I saluti più affettuosi e la preghiera fervente di recarti presto a Miralto per condurli teco. La tua signora, sola in quel villaggio maldicente, dopo tutto ciò che è avvenuto, non vi si può più vedere. Il tuo piccolo Gustavo, un amore davvero... Ti ha scritto una lettera. Eccola. La sua matrina gli ha guidato la manina.

— Stella?

— Sì, anch’essa ti saluta. Questa è la lettera della contessa.

Eran giunti alla porticina riservata. In quel mentre tuonò il cannone da Castel Sant’Angelo.

— La regina esce ora dal Quirinale. Affrettati! Ti aspetterò al caffè Colonna. Questa cerimonia mi dà sui nervi... Una mascherata in quaresima.

Decisamente, dall’avventura della sera innanzi, l’onorevole Sicuri era mutato. Non fu con gioja che rivide l’amico, come senza emozione ricevette le due lettere che l’amico recava. Mentre Ettore gli parlava, egli colla mano inguantata accarezzava il braccialetto in una tasca del soprabito.

La campana di Montecitorio squillava alla distesa. Destino dei bronzi! La longevità cui sono condannati [185] li costringe a tali e tante metamorfosi, che neppure gli uomini politici, nelle loro evoluzioni, sanno superare. Per altro, se gli uomini politici potessero vivere quanto una campana, ne vedremmo di belle!

Le statue delle divinità pagane, mutate in santi, come effigie di santi venerate, colla sola aggiunta di un’aureola stellata... La campana di Montecitorio, disposta dal Bernini sopra l’orologio dell’enorme e punto estetica cimasa della bellissima facciata, non chiama più alla preghiera i pii monaci dello stabilimento di beneficenza per i miseri, prima destinazione del palazzo. Ammutolita dal 1870, la campana non saluta più il mattutino, l’angelus, l’avemaria, non avverte il coprifuoco.

Silenziosa per mesi e mesi, si sveglia a rari intervalli. Una volta, due, ogni tre anni, squilla col timbro antico per salutare i reali di Savoja, inaugurando le nuove legislature, le nuove sessioni.

La campana non suona che quando parla la Corona.

C’era... ce l’hanno trovata, bisognava pure usufruirla! Meglio il suo, del destino delle campane consorelle, fuse, durante il primo impero napoleonico, per esser mutate in cannoni.

La campana di Montecitorio annunzia nuovi sagrifici al paese, nuove imposte, ritornello dei discorsi della Corona. È già un bel divario dalla sua prima destinazione; ma, non ammazza nessuno. La campana suonava alla distesa, il cannone tuonava dalla Mole Adriana, posta ai piedi del Vaticano.

L’arcangelo armato aveva ancora una volta incensi di polvere da cannone; ma eran detonazioni pacifiche, che non impaurivano neppure i colombi ed i gufi, appollajati nella millennaria fortezza.

Giuliano, spogliato il soprabito, si affrettò a prender [186] posto nell’aula, che presentava spettacolo veramente imponente. Nessuna sala di teatro offerse mai colpo d’occhio più sorprendente. Fra le macchie nere delle giubbe dei senatori e deputati, pigiati nei banchi, ingombranti l’emiciclo; fra il nero delle giubbe degl’invitati, lo smagliare giulivo degli abbigliamenti femminili, il luccicare delle uniformi.

Le tribune riboccanti e variegate come immensa corona di fiori, gli sfarzosi addobbi, la sontuosità del trono dai gradini coperti di ricchi tappeti, gli scanni dorati dei principi; la risurrezione, meglio, l’esumazione dei riti del fasto monarchico antico, in tutta la loro pompa superba.

Anacronismo curioso, spettacolo di altri tempi, come di altri tempi il modello delle uniformi diplomatiche, le livree degli uscieri.

Gli ultimi dinastici convinti gioivano, come i fedeli alle funzioni pontificali in San Pietro.

E il cannone tuonava, squillava insistente la campana di Montecitorio... Appunto come già per la benedizione pontificale, che veniva impartita ogni anno alla città ed all’orbe dal defunto Pio IX.

Frattanto le berline reali scendevano lentamente dal Monte Quirino, per le vie assiepate di soldati, di popolo... I balconi gremiti, le bandiere al vento.

Gioite, o popoli! Abbiamo una Camera, e fra poco il sovrano vi annunzierà la pace universale e la necessità di altri tributi per mantenerla.

Tre carrozze di gala, precedute da un picchetto di corazzieri, seguite da uno squadrone di carabinieri. Battistrada rosso, tricorno, parrucchino incipriato, pantaloni di cuojo, stivaloni. Il costume di Emanuele Filiberto. Moda iconoclasta! Gli sfarzosi abbigliamenti degli avi eroici relegati nelle scuderie!

[187]

Carrozze dorate alla Pompadour, staffieri e cocchieri rossi, in tricorno e parrucchino, i tiri a quattro uniformi, di enormi meclemburghesi, solenni sotto le ricche bardature quanto il cavallo di Marco Aurelio.

Dieci minuti dopo, un crescendo di cannonate ed un agitarsi ancor più rumoroso della campana.

Il re!

Non più tre, sei berline d’oro, ed altre carrozze. Modesti landeaux moderni, vergognosi della loro borghese semplicità; si sarebbero scambiati per vetture di rimessa dietro sontuosi carri funebri... Altra stonatura! Nove berline sono molte, ma non sufficienti a contenere le due case, civile e militare, al prestigio regio. Altre ne occorrono! Provideant consules!

Nell’aula un grande mormorio, uno sporgersi curioso dai parapetti delle tribune.

Pubblico, senatori, deputati, diplomatici, tutti scattano in piedi, come ad un comando militare. La regina appare alla tribuna della presidenza. Applausi frenetici... Una, due, tre salve prolungate. La regina saluta ripetutamente, sorride del suo gentile sorriso stereotipato. Chi potrebbe dire quante ansie, quanti rimpianti, quanti terrori si nascondono sotto quel sorriso? Non è tutta rose neppure l’esistenza dei sovrani!

Dieci minuti di attesa, spesi dalle signore nell’esame dell’abbigliamento della regina. Le più lontane si consolano pensando che i giornali della sera lo descriveranno minutamente, numerando perfino le perle nere della collana a triplice giro. Le collier de la reine! Se in Italia fossimo romanzieri, l’interessante romanzo si potrebbe scrivere sulle perle nere dell’Eritrea, senza l’ombra di imitazione del racconto di Dumas padre, o del libretto dei Pescatori di perle, musicato da Bizet.

Dieci minuti precisi, contati al cronometro, dopo [188] l’ingresso della regina, nuovo movimento di curiosità nelle tribune e fra la massa nera, picchiettata di bianco, dei senatori e deputati.

Come se un torrente avesse rotto le dighe, una vera inondazione di metallo lucente, con grande strepito di ferrivecchi.

La luce, piovente dal lucernario, sapientemente mitigata, parve raddoppiata ai bagliori degli elmi, delle spalline, delle tracolle, dei cordoni d’oro e d’argento, delle sciabole, delle corazze.

Il re colla sua casa militare, in uniforme da generale, coll’elmo piumato come un uccello fantastico. Salutata la regina, come tutti, ritta in piedi, sale al trono, seguito dai principi; il seguito si arresta intorno alla gradinata. Due arcangeli d’acciajo, due enormi corazzieri, si dispongono ai lati del trono.

Ancora un applauso. Il cannone di Castel Sant’Angelo tuona tuttavia; ma la campana, con gran sollievo di tutti, ridiventa silenziosa.

Il guardasigilli riceve il giuramento dei nuovi senatori; il presidente del Consiglio fa la chiama dei deputati e li invita al giuramento, colla nota formola, misteriosa come un dogma cattolico; l’inseparabilità del bene della patria e del re.

I senatori giurano fra un mal represso bisbiglio.

Che è? Pare che la scelta fatta dalla Corona dei nuovi legislatori vitalizî non garbi; perchè fra i motti sarcastici si intendono degli oh! oh! irriverenti per la maestà del luogo e la solennità della cerimonia.

Giurano i deputati; ma Giuliano non vide altro, non udì il discorso del re, letto con voce fioca, non notò la freddezza glaciale colla quale il discorso fu accolto, non avvertì i mormorii disapprovatori, quando la Corona alluse alla necessità di esser pronti a nuovi sagrificî.

[189]

Una distrazione invincibile lo aveva isolato fra la folla. Delle centinaja di teste sporgenti intente dalle tribune non ne vedeva che una: la marchesa Giulia.

Come l’aveva scoperta fra la confusione di spettatrici che nella ressa, nella varietà delle acconciature dai mille colori, dalle mille tinte, si confondevano insieme come lo sfondo di un quadro di pittore impressionista?

Lontanissimo dal pensiero che la marchesa potesse essere nell’aula, non l’aveva cercata. Pure si era sentito importunato dalla fissità di un binocolo appuntato su di lui. Lo sentiva, lo sguardo rafforzato dalle lenti, anche quando, distratto da altro, non lo curava. Il binocolo, facendo maschera al viso, gli impediva di riconoscere la persona di lui tanto occupata; per di più, a metà nascosta alla vista da una delle colonne che sostengono gli archi delle tribune.

Riguardò meglio.... Il binocolo si distaccò, una mano accennò un saluto, mentre la vezzosa testa araba della marchesa, scotendosi sorridente dall’alto in basso, pareva volesse dire:

— Finalmente mi riconoscete!

Appena terminata la lettura del discorso reale, senza pur attendere che la corte movesse, Giuliano si precipitò alla ricerca del proprio cappello e del soprabito, coll’intenzione di raggiungere la marchesa. Mentre egli saliva le scale della tribuna B, gli invitati la discendevano fra una confusione indescrivibile. Ascendere contro corrente, impossibile! pensò di aspettare all’uscita nella strada. Attese lungamente, invano: Montecitorio si era vuotato. Gli uscieri chiudevano gli aditi, ed egli era ancor là, immobile, in agguato, fra i poliziotti in borghese, che assiepano sempre le vie della Missione e dell’Impresa, di guardia al palazzo.

[190]

Taceva la campana, il cannone era ammutolito, la folla si era diradata; rientravano le truppe nelle caserme dopo sei ore di immobilità. La festa era finita, appena ricordata dalle bandiere esposte alle finestre e dalla pozzolana gialla della strada. Gli strilloni offrivano il discorso a due soldi, e Giuliano, indispettito per la delusione, ricordò finalmente di non aver fatto colazione, si sovvenne che Ruggeri lo attendeva al caffè Colonna.

— La rivedrò alle quattro, pensò, dando una crollatina di spalle, come per liberarsi dal dispetto.

Un incidente di nessuna importanza lo fece sorridere e lo rimise quasi di buon umore. Passava una popolana con un bimbo per mano.

— E cosa ha detto il re? chiedeva il bimbo alla mamma.

— Che i bambini disubbidienti li manderà a prendere dai carabinieri.

— Quanta verità! pensò Giuliano avviandosi verso il caffè.

Sulle due piazze Montecitorio e Colonna, pochi capannelli; sulla gradinata della Camera, qualche signora in attesa della carrozza in ritardo.

Giuliano salì all’atrio sperando ancora. La marchesa non c’era.

Un crocchio, invece, di deputati che facevano circolo ad una gran dama, a giudicare dalla ossequiosità degli onorevoli che la circondavano.

Un neo eletto chiedeva alla signora le impressioni della solennità.

— Ciò che mi ha più colpito, rispose la signora, è la grande quantità di teste calve di senatori e deputati.

— Principessa, replicò l’onorevole Lastri, tutto merito della politica, la quale fa impazzire la gente e cadere i capelli.

[191]

L’onorevole Lastri, scorgendo Giuliano, lo chiamò, e senza neppur prevenirlo lo presentò alla principessa d’Ajano, della illustre famiglia napoletana, borbonica fervente, da poco aderente a Casa di Savoja, compensata immediatamente colla nomina a senatore del principe.

— Principessa, le presento un deputato non ancor calvo, il conte Sicuri.... Ahimè, qua dentro lo diventerà ben presto!

La principessa porgendo la mano:

— Speriamo di no! Meglio varrebbe, onorevole Sicuri, lasciare la Camera.

— Mille volte, soggiunse Lastri; ma è della deputazione come dell’acqua del Nilo, chi l’ha bevuta, dicono gli Arabi, la riberrà.

«Del resto, è così di tutti i vizî... La deputazione è un vizio, il peggiore; ne so qualche cosa io, che, giurando sempre di non volerne più, sono già alla mia nona legislatura.

Poi con un sospiro, che voleva parere da burla, ma troppo ben imitato per non essere a due terzi sincero:

— Il giorno, forse non lontano, nel quale i miei elettori non volessero più sapere di me, finirei per fare anch’io l’anima vagante negli ambulatorî... Montecitorio diventa una necessità, la deputazione una seconda natura... Principessa, vede quell’onorevole là? Quell’ex? È...

Un grido mal represso, quasi unanime, fermò sulla bocca dell’onorevole Lustri il nome. E, scongiuri strani, le mani si chiusero a pugno, l’indice e il mignolo sollevati a guisa di corna...

— Per carità, non nominarlo! interruppe l’onorevole Cortesi terrorizzato.

Giuliano non comprendeva nulla al terrore, vero o simulato, dei presenti, ed ancor meno alla mimica, cui non era stata estranea la principessa.

[192]

Lastri gli susurrò all’orecchio:

— È un jettatore feroce. Rejetto dagli elettori, si è stabilito a Montecitorio per maledizione d’Italia. Ha un nome di paese; ma per indicarlo nessuno lo pronunzia, lo chiamano invece con quello del corrispondente capoluogo di provincia; l’ex deputato Modena.

La principessa rideva, ne ridevan tutti; ma più come d’un pericolo scampato, che per incredulità nel mal occhio.

— Io non ci credo, soggiunse la principessa; pure, non si sa mai! D’altronde, qualche cosa di vero ci deve essere.

In quel momento uno staffiere annunziò che la carrozza di Sua Eccellenza era di ritorno dal Senato, ove il principe si era recato, dopo il giuramento, per presentarsi a’ suoi nuovi colleghi.

La principessa nel salire in carrozza inciampò; per poco non cadeva. Si volse sorridente a Giuliano:

— Vede, onorevole, che qualche cosa c’è?

E Lastri a soggiungere:

— Per carità, principessa, non dimentichi uno solo degli scongiuri d’obbligo.

— Non tema! rispose ridendo la principessa, coll’indice ed il mignolo della destra inguantata rivolti al cielo, mentre i due magnifici baî partivano scalpitando.

Lastri e Giuliano s’avviarono verso il vicino caffè.

— È possibile? sclamò Giuliano.

— Possibile o no, la è così, caro mio. Tutti fanno lo spirito forte; pure, un zinzino ci credono tutti... Esclusi pochi di voi altri, settentrionali, miscredenti, che sfidate il cielo e l’inferno... Anche tu, come tanti altri conterranei tuoi, finirai per convertirti.

Era il tocco.

— Ruggeri avrà perduto la pazienza, pensò Giuliano; se ne sarà andato.

[193]

Lo calunniava! Ettore, solo ad un tavolino, un bicchiere d’assenzio davanti, era tutto intento alla lettura del Grapich.

— Scusa del ritardo, Ettore.

— Oh che! Stavo leggendo un articolo interessantissimo sulla mia seconda patria, la Patagonia... Ne ho la nostalgia.

— Non è una ragione per non far colazione, soggiunse Lastri. Spero si mangerà anche in Patagonia...

— Quando si può, disse Ettore, stendendogli la mano affettuosamente.

Quei due uomini, quei due originali, si conoscevano da anni e si amavano.

— La rara avis, soggiunse Lastri indicando Ruggeri. Un deputato dimissionario per sua precisa volontà. Un ex, incredibile a dirsi, refrattario a tutti i tentativi di ricandidatura. Ruggeri fra gli ex è una eccezione curiosissima. Un giorno o l’altro la scriverò la fisiologia dell’ex deputato stabilito alla Camera... Qualche cosa di pietoso fino allo strazio. Il supplizio di Tantalo; quello di un beone al regime dell’acqua, posto a guardia d’una fontana di Chianti rosso.

«Il Senato ne accoglie molte di quelle povere anime in pena, e da questo punto di vista la Camera vitalizia è il più umanitario fra gli ospizî. Ma il Senato non è la Camera! Se non Sant’Elena, è, per lo meno, l’isola d’Elba. Pur sempre una terra di relegazione.

«Il fumo della sovranità senza lo scettro, senza il dominio, senza le emozioni delle battaglie, senza i lauri della vittoria, senza il diritto alle prede di guerra. A dirla prosaicamente, il fumo senza l’arrosto. Può essere tanto proficua, per chi vuole e sa, la nostra rovinosissima condizione di deputati!

«Quante goccie perdute lungo il percorso, da un bilancio [194] all’altro, del gran fiume di mille e seicento milioni annui, non compresi i nuovi debiti ed i disavanzi obbligatorî! Quegli spandenti sarebbero bastati a dissettare i lombardi alla prima crociata... E chi sa: i Savoja sarebbero ancora re di Gerusalemme, senza contare Cipro.

«N’exilez personne! sclamava Vittor Hugo.

«Il peggiore degli esilî è quello dagli ambulatorî, per l’ex deputato, inasprimento feroce, l’incuranza sdegnosa del competitore in carica.

«Nessun maggior dolore!

Ruggeri ascoltava sorridente. Giuliano pensava alla giunta delle elezioni...

Se la sentenza gli fosse contraria? Se l’elezione venisse annullata?

Quanta verità nelle divagazioni del vecchio Lastri! Chi ha bevuto berrà!... Giuliano aveva assaggiato il liquore nella coppa fatata, ed ormai l’idea dell’annullamento, del ritorno alla semplice condizione di elettore, gli era insopportabile quanto il pensiero di una grande sventura domestica.

Dal sentimento intimo traeva la spiegazione chiara del fenomeno, in apparenza inesplicabile, di maggioranze servili a tutti i padroni, a tutti i governi, violenti perchè forti della minaccia di uno scioglimento della Camera. Il pericolo, i dispendî di una nuova prova elettorale sono spauracchio anche ai migliori, che in gran parte si arrendono per scongiurare lo scioglimento, o per aver propizio il Governo nei comizî elettorali; la sospensione delle offe per altri, numerosissimi, sempre ministeriali, sempre candidati ufficiali, con Dio e con Satana.

Il diritto della Corona di sciogliere il Parlamento, garanzia liberale in apparenza, si risolve in realtà nella più grave violazione della indipendenza parlamentare.

[195]

CAPITOLO XIV. Intermezzo.

Sono scorsi circa due mesi dalla convocazione della Camera, ma ben poche le sedute importanti.

La costituzione degli ufficî assorbì le prime tornate, nelle quali la maggioranza e le opposizioni si contarono.

Il Governo fa circolare, per mezzo de’ suoi amici, le liste de’ suoi candidati; le opposizioni contrappongono i proprî.

Dai risultati degli scrutini si misura la forza della maggioranza. Equa giurisprudenza impone però al Governo di accordare una parte, minima invero, delle cariche agli oppositori.

Eletto il seggio presidenziale: un presidente, quattro vice presidenti, otto segretarî, due questori, si procede alla divisione della Camera in nove ufficî; i deputati vengono assegnati agli ufficî diversi per estrazione a sorte. Ogni ufficio nomina un presidente, un vicepresidente, un segretario.

Fra le nomine, dal regolamento lasciate alla scelta del presidente della Camera, havvi quella di venti deputati che devono far parte della giunta delle elezioni, altissima magistratura parlamentare, giudice della validità o meno delle elezioni contestate. I giudici di Giuliano.

La Camera poi vota i nomi dei componenti di tre [196] commissioni parlamentari permanenti, fra le quali importantissima quella composta di trentasei membri per l’esame dei bilanci e dei rendiconti consuntivi.

Impossibile, per chi non conosce il dietroscena di Montecitorio, farsi idea delle gare fra deputati per aver l’alto onore di coprire una di tali cariche. Compromessi, concessioni, diserzioni, piccole e grandi viltà, per ottenere che il proprio nome sia inscritto nelle liste dei candidati del Governo... degli amici del Governo, ch’è poi la stessa cosa.

Il Governo, che tenne al battesimo elettorale la sua maggioranza, l’ingrossa negli squittini, accaparrandosi per di più la benevolenza degli oppositori, scelti per necessità fra gli aspiranti avversarî... La nomina, ripercossa nei collegi elettorali, aumenta l’autorità dell’eletto, il quale in tal modo va già seminando per le elezioni future.

— Ogni incluso, spiegava l’onorevole Lustri a Giuliano, ha un amico, se non due o più, corifei troppo modesti o nulli o troppo novellini per poter aspirare ad onori speciali; essi ripongono la loro vanità in accomandita, cioè nel trionfo del collega prediletto, gruppo infinitesimale fra i gruppi che compongono i partiti, nei quali si divide la Camera, e questi due, tre o più amici dividono col prescelto la loro riconoscenza per il gabinetto, dirò meglio, per il presidente del Consiglio, in Italia, da molti anni, qualunque siasi, vero dittatore con tutti i gabinetti, con tutte le maggioranze, quasi sempre le stesse, le quali, disaggregate il giorno delle inevitabili crisi, atterrano l’idolo per erigerne un altro, che verrà ad epoca non lontana egualmente atterrato, per essere sostituito da uno de’ predecessori precedentemente travolto. Vicenda continua!

[197]

Lastri paragonava i ministeri ai limoni:

— Le maggioranze li spremono; quando, esausti, non danno più, si gettano. Ed il quarto d’ora dell’esaurimento viene sempre, mentre i deputati non cessano mai di chiedere... limonata, per sè o per i loro elettori.

«Ministero nuovo, anche composto di limoni vecchî, libro nuovo. Il dare e l’avere passa alla finca profitti e perdite, e si ricomincia da capo.

«Lo stesso Depretis, soggiungeva Lastri, a chi gli aveva fatto osservare la di lui stabilità al potere, lo stesso compianto Depretis, come un Richelieu od un Mazzarino, ministro a vita, lo sapeva tanto, che, per rimanere, offriva spontaneamente alla Camera assetata l’olocausto de’ suoi colleghi. Le crisi parziali con lui erano periodiche come le stagioni. Se il presidente del Consiglio era sempre il medesimo, la maggioranza veniva spostata; chiamando al potere de’ capigruppo dell’opposizione, le nuove reclute erano più ferventi, le influenze nuove portavano elementi nuovi in sostegno al Governo, che formulava nuovi programmi.

«Depretis preveniva l’inesorabile opera demolitrice del tempo con riparazioni e riattazioni anticipate.

«Un ringiovanimento continuo del decrepito edificio.

«Aveva applicato al Governo le norme prudenti del genio civile per i grandi manufatti.

«Il trasformismo è il più grande portato della scienza parlamentare.

«Ma il trasformismo ci ha resi ciò che siamo... E noi abbiamo reso, ormai, il parlamentarismo impossibile.

***

Lasciamo le divagazioni del vecchio Lastri, e ritorniamo al nostro racconto.

Dopo la rinnovazione di tutto il macchinario parlamentare, [198] ch’era stato messo a dormire colla chiusura della legislatura, erano avvenute poche avvisaglie delle opposizioni sconfitte su tutta la linea; un grande voto di fiducia al Governo con duecentocinquanta , contro sessanta no, e sessanta o settanta deputati assentatisi (in gergo parlamentare squagliati) dall’aula al momento dell’appello nominale, onde ritardare a dichiararsi ed impiegare con maggior utile i voti futuri. Poi le vacanze natalizie e di capo d’anno.

Un lungo mese di preparazione impiegato dal Governo nell’ordinare e disciplinare il suo esercito, nell’assegnare a ciascuno dei capigruppo le sue mansioni, nel continuare l’opera di disaggregazione delle esigue, ma violente ed ostinate opposizioni.

Quale grande forza per il gabinetto la spada di Damocle sospesa su di un centinajo di deputati non ancora convalidati dalla giunta!

I sospesi avevano tutto da temere o da sperare dalla influenza governativa, perchè le sentenze della giunta non sono definitive; la Camera, anzi la maggioranza, decide in appello. Non sono rari i casi nei quali le proposte della giunta furono respinte. Fra quei cento deputati sospesi, forse dieci o venti, che osino affrontare le ire del Giove del Consiglio; gli altri portano umilmente il tributo del loro voto sull’ara del ministero, il quale premierà la dedizione favorendo la convalidazione.

Guai ai ribelli! se la loro influenza personale nella Camera non è tale da prevalere contro le cospirazioni!

Giuliano, soggiogato da Ferretti, che continuamente gli faceva balenare il pericolo dell’invalidazione, aveva sempre votato per il Governo. La veste di legalitario ne lo autorizzava; ma i legalitari erano il bersaglio della stampa indipendente, nella Camera stessa erano [199] zimbello. La maggioranza li accoglieva come figliuoli prodighi; ma il senso morale collettivo, che spesso protesta anche nelle assemblee più degenerate, si ribellava contro di essi... I loro voti, sempre accolti da mormorìi, dai commenti pungenti delle tribune, i loro discorsi inascoltati. Camuffati da radicali, avversarî nello stesso campo degli amici loro, rappresentavano qualche cosa di più deplorevole de’ transfughi numerosi dagli altri partiti di opposizione, apertamente, senza sottintesi, senza restrizione inscrittisi nella maggioranza. Fenomeno momentaneo, perchè certe anomalie contro natura non ponno essere che effimere. Tristo fenomeno, prova dell’abbassamento parlamentare italiano!

Il cuore di Giuliano sanguinava nell’umiliante situazione: venti volte aveva giurato di romperla con ogni transazione, di giuocar tutto per tutto, ritornando invalidato, piuttosto di continuare nella servitù avvilente che tacitamente gli veniva imposta. Venti volte era venuto meno a’ suoi propositi.

Lastri, vecchio scettico, indurito nel parlamentarismo, pur deplorando, perdonava tutto alla inesperta gioventù di Giuliano; Ruggeri ne era desolato; ma si era imposto la medesima riserva, dopo una scena violenta, avvenuta a proposito di Ferretti e del commendatore Cerasi, che, richiamato a Roma a disposizione del ministero, ne era agente principale ed inspiratore.

Le sedute erano state poco numerose; in compenso numerosissimi i voti di fiducia, perchè il presidente del Consiglio, prodotto di non si sa quale alchimia parlamentare, con meraviglia di tutti, specialmente sua, arrivato all’altissima carica, non per ciò che era, bensì per quello che non era, si compiaceva nel trastullarsi colla sua imponente maggioranza, moltiplicando i voti di fiducia, forse per tentare di rafforzare la fiducia propria, [200] vacillante, di sè stesso, forse sperando imporre al Senato, messosi in ribellione per certe nomine scandalose di senatori.

Ad ogni voto, Giuliano rinnovava i propositi; ad ogni votazione successiva veniva meno. Un’altra catena gli pesava; una catena di rose, direbbe il poeta; di rose! ma le spine pungenti gli laceravano la coscienza.

***

Durante il mese di vacanza parlamentare, ritornato alla famiglia, si era ritemprato nei dolci affetti della sposa e del suo bimbo. Dalla serenità felice della esistenza casalinga ripensava con terrore al ritorno a Roma, ove Giulia l’attendeva impaziente, sollecitandolo in ogni modo alla partenza. Da Miralto, Giulia gli era odiosa, ed egli malediva le ebbrezze colpevoli di un amore che lo costringeva a mentire ad ogni ora, ad ogni minuto, colla sua Adele adorata. Malediva alla necessità dei mille sotterfugi per nasconderle la corrispondenza della marchesa. Corrispondenza quotidiana; volumi, poemi nei quali tutta l’anima ardente di Giulia era trasfusa fra i baci e i sospiri, fra le espansioni del desiderio delirante, progetti insensati di fuga e gelosie feroci.

Quelle lettere maledette, impregnate dell’inebbriante profumo, infiammavano anche Giuliano, che alla fragranza sottile, voluttuosa, avvampava, come la notte del primo incontro con Giulia, al contatto delle di lei tumide labbra, olezzanti. Sentiva di odiarla; pure i sensi prevalevano sull’affetto immenso nudrito per Adele, che non sapeva, non sentiva i delirî brutali della passione, calma nell’amore infinito per il suo Giuliano, casta, direi, anche negli amplessi legalizzati dal sindaco, santificati dal parroco.

[201]

Giuliano, non nato alla lotta, tentava sottrarsi all’influenza di Giulia; dilaniato da rimorsi, aveva giurato in cuor suo di non rivedere mai più la marchesa, sentendosi troppo debole per sottrarsi al fascino di quella bellissima e strana donna, odiata e tanto desiderata ad un tempo.

Un giorno Giuliano ritrovò il coraggio di scriverle per invocare dalla di lei generosità la forza di mantenere i vacillanti propositi.

«Per carità, Giulia — le aveva scritto — fa ch’io possa ricuperare la pace dell’anima, turbata da rimorsi strazianti... Qui, in presenza del mio bimbo, circondato dall’affetto di quella santa, che fu l’amore di tutta la mia giovinezza, che deve essermi compagna in tutta la vita, sento intiera l’enormità della mia condotta. L’inganno mi pesa. Ciò che mi resta di lealtà si ribella alla menzogna quotidiana con questa affettuosa, fidente creatura, del cui amore, della cui fede ormai mi sento indegno.

«Ti scongiuro, Giulia, dammi tu la forza di lottare, di vincere la funesta passione che mi hai inspirata, nella quale tu stessa non puoi trovare la felicità, perchè non si può essere felici delle lacrime degli innocenti; non vi è, non vi può essere felicità nel rimorso.

«Giulia, tu stessa, sventurata ne’ tuoi affetti domestici, puoi essere giudice della jattura che colpirebbe la mia famiglia il giorno nel quale la nostra relazione venisse scoperta, e lo sarebbe certamente, o tosto o tardi.

«Tu, riacquistata la libertà, per l’abbandono di un marito di te indegno, puoi amare senza rimorsi... Ma io!... Io!... Giulia, perdonami! Giulia, ti invoco in nome del mio bimbo innocente, che si trastulla a’ [202] miei piedi, mentre ti scrivo questa lettera che sarebbe bagnata di lacrime, se nelle ansie cocenti dalle quali sono torturato, potessi avere il sollievo di piangere...

«Addio, Giulia... Il tuo perdono, non avendo il coraggio di invocare il tuo oblio.

«Giuliano

La giovane marchesa ricevette quella lettera un mattino al suo svegliarsi, recata dalla cameriera colla consueta tazza di caffè.

— Francesca, deponi il vassojo ed apri le imposte, ch’io possa leggere.

Messasi a sedere sul letto, impaziente lacerò la busta; un sorriso di gioja le illuminava il volto quasi infantile.

I raggi del sole, irruenti nell’elegante gineceo di Giulia, le offesero le pupille brune, che per un istante dovettero ripararsi sotto le palpebre dalle lunghe ciglia, folte e nere come quelle di una circassa: una smorfia graziosa ed un grido di protesta...

— Francesca, vuoi acciecarmi... Apri a modo! sclamò la marchesa, facendo riparo colla mano sinistra agli occhi che tentava riaprire, mentre colla destra, dal braccio nudo fino alla spalla, ravviava la nera capigliatura fluente, che, scioltasi nel sonno, inondava i guanciali, le faceva velo al viso pallido, dalla pelle vellutata, leggermente ambrata e come l’ambra trasparente, dalle vene azzurrine appena adombrate.

Bella di quella bellezza orientale come doveva aver imaginata la sua andalusa Alfredo De Musset. L’arco delle nere sopracciglia, forse troppo accentuato, dava un non so che di durezza alla gentile fisionomia, contrasto al sorriso affascinante di una bocca sensuale, che mostrava volentieri due file di denti, felini nella purezza [203] del loro candore. Il piccolo naso profilato, tendente all’aquilino, dalle narici aperte e mobili a tutte le forti emozioni, i grandi occhî nero-azzurri, tagliati a mandorla, ricordavano quelli delle mademoiselles Chrysanthème, delle tappezzerie e delle lacche giapponesi, rivelavano una fibra dalle violenti passioni, che, in quella personcina snella, flessibile, ed al tempo stesso carnosa, l’eleganza personificata nella miscela felice di quelle doti, nessun osservatore superficiale avrebbe potuto sospettare. Non era alta e neppure piccina; sembrava più alta che non fosse per la perfezione delle proporzioni, la vita sottile da bimba, il seno turgido, le spalle alquanto pioventi, scultorie, le braccia grassoccie dalle fossette ai gomiti arrotondati, come alle guancie nel sorriso, come agli arti delle piccole mani. Mani e piedi mostruosi, veramente giapponesi nelle loro minuscole proporzioni.

Con tutto ciò non ho descritto nulla, e nessuno de’ miei lettori, che non abbia conosciuta personalmente la marchesa Giulia ed ammirata da vicino, può farsene un concetto.

Una bellezza bizzarra, talmente mutabile da non riconoscersi qualche volta, non solo a giorni di distanza, ma nella stessa giornata. Nella calma era quale l’ho descritta; ad ogni impressione vivace la volubilità della fisionomia la trasformava completamente.

Nipote della contessa Marcellin... Era poi realmente nipote? Fatto è che, orfana, a Roma, presso la zia non venne che all’età di diciotto anni, dopo la morte del senatore. Il pretesto era plausibile: consolare la vedovanza della zia.

Giulia, oltre l’avvenenza, le doti simpatiche dello spirito, la gentilezza dell’animo, possedeva l’invidiabile privilegio della ricchezza; erede universale di un parente... [204] lontano, diceva la zia. Però partito agognato da tutti i cacciatori di dote dell’high-life cosmopolita, frequentatrice del salone Marcellin.

La giovinetta scelse, fra i numerosi aspiranti, il marchese Fiori, e scelse male. Di antica nobiltà, la famiglia Fiori per vicende politiche emigrava in Francia fin dal principio del secolo; quindi il marchese era cittadino della repubblica e il matrimonio fu celebrato sotto la legge francese.

Fortunata circostanza che, dopo l’abbandono del marito, dava a Giulia diritto al divorzio, da essa per altro non invocato, forse per non spogliarsi del titolo di marchesa e riprendere il nome di fanciulla, dallo stato civile molto complicato. D’altronde, ormai rassegnata alla vedovanza, che da principio le aveva fatto spargere molte lacrime, non sentiva velleità di uscirne; tanto più che i disordini rovinosi del marito avevano schierato a di lei favore la pubblica opinione. Vittima compianta e glorificata.

Certo è che, ad onta della libertà dei modi, di alcune eccentricità veramente singolari e d’una certa stranezza nell’abbigliamento, la maldicenza non aveva ragione di mordere contro di essa, enfant gâté indisciplinato, ma esemplare nella condotta morale.

Riceveva pochi amici, e le giornate le passava dalla zia, che nell’intimità chiamava mamma, affettuoso epiteto, al quale nessuno trovava a ridire.

Il lettore chiederà come mai tale fiore di virtù siasi tanto facilmente lasciato cogliere da Giuliano, senza contrasto, senza pure la parvenza di un assedio regolare, senza pretendere all’onore delle armi.

Misteri del cuore delle figlie d’Eva! Forse il quarto d’ora. Il quarto d’ora fatale, nel quale la derelitta sentì prepotente il bisogno d’amare e di essere amata, intollerabile [205] l’isolamento in una società frivola, nauseanti le galanterie di una turba di adoratori, simili tutti fra di loro, dagli eguali luoghi comuni esotici, dalle stesse smancerie affettate, dal medesimo linguaggio, dall’eguale abbigliamento... ridicolo. Forse il quarto d’ora soltanto, il quarto d’ora nel quale la Vergine dello Stecchetti scende inconscia all’altare di Adonai ad incontrare l’angelo dell’Annunciazione.

In casa della zia si era tanto parlato del giovine protetto del commendatore Cerasi! Da prima la curiosità.... poi... poi chi può dire che cosa siasi agitato nella testina capricciosa di Giulia, nel di lei cuore ancora sanguinante per la chiassosa sventura domestica che l’aveva colpita?

Probabilmente, senza il malaugurato ritardo della carrozza, Giuliano e la marchesa avrebbero continuato nel loro cammino, buoni amici, per la simpatia reciprocamente inspirata al primo incontro, senza che la loro amicizia venisse turbata dalla passione funesta, come la qualificò Giuliano nella sua lettera.

D’altronde, a che cercare le cause, o mendicare circostanze attenuanti?

Era destino! Quanti avvenimenti ci sono serbati, dei quali invano si cercherebbero le ragioni?

Fatalità o combinazioni del caso!

Due esseri, ignoti l’uno a l’altro, partono da punti estremi, dal caso o dalla fatalità guidati per lunghe peregrinazioni; tutte le circostanze cospirano per avvicinarli; una combinazione fortuita, impreveduta, imprevedibile, li mette di fronte; si riconoscono, come Erodiade e Haasvero. Ma lo stretto di Behring non li separa, e più fortunati o più sventurati del leggendario Ebreo errante e della figlia di Erode dalle mani insanguinate, procedono insieme pel sentiero della felicità o per la strada maestra della disperazione.

[206]

Stendhal, che volle classificare le diverse manifestazioni della passione così detta amore, quantunque la parola sia spesso impropriamente adoperata, sentimento troppo spesso ferocemente felino; Stendhal, il quale, come un collezionista ornitologo i suoi soggetti impagliati nella bacheca, specificò e classificò l’amore in rubriche diverse, ammette il coup de foudre. L’amore improvviso e ingiustificato, ingiustificabile; lo ammette anche nei temperamenti meno accessibili alle passioni. Stendhal impaglierebbe la vezzosa marchesa, grazioso colibrì, per riporla nella scansìa dei fulminati.

Fatalità o caso! Per rispetto ai credenti non parlo di Provvidenza, perchè non posso ammettere che essa deroghi fino a rendere certi servigi, e farsi complice di adulterî, condannati da tutte le leggi umane e divine.

Fatalità o caso! La ragione, se esiste, è impotente a dominare l’amore. Delirio della febbre, non sente ragione; gli ostacoli lo fanno avvampare più vivace. Nella felicità incontrastata soltanto si consuma... tutto a danno degli amori legittimi, della morale.

Giuliano, scrivendo la lettera che ho ricopiata, si era appigliato imprudentemente ad un mezzo che sarebbe stato eccellente per conseguire sulla marchesa l’effetto opposto del desiderato.

Giulia, che con tanta impazienza aveva lacerata la busta della lettera di Giuliano, non la lesse immediatamente. Ristette, quasi avesse voluto assaporare lentamente, con delizia maggiore, il buongiorno dell’amico lontano.

Voleva essere sola, senza l’importuna testimonianza della cameriera, che si affaccendava nei preparativi della toletta mattinale della signora.

Dopo il primo lampo di gioja, centellinò la tazza di caffè e congedò la donna:

[207]

— Francesca, quando avrò bisogno di te, suonerò.

Le due ammirabili braccia con gesto uniforme si alzarono per ravviare e raccogliere la capigliatura, e nella superba seminudità la marchesa Giulia si dispose a leggere, scotendo il capo, come per scacciare, colle ciocche ribelli, un pensiero molesto.

Alle prime righe banali, da me omesse, si rabbujò. Poi un grido, un’esclamazione:

— Miserabile!

Spiegazzando la lettera colle mani convulse, ne fece una pallottola che gettò lontano, ripetendo:

— Miserabile! Miserabile! Miserabile!

Si lasciò cadere supina e coprendosi colle mani il volto in atto disperato, scoppiò singhiozzando in pianto.

Calmato alquanto il primo accesso delle lacrime, ancor singhiozzante, sperando di aver mal compreso, di aver frainteso il senso della lettera, scese dal letto per ricercarla; carponi sul tappeto la ritrovò di sotto al mobile ove s’era ficcata. Con calma apparente, la calma della disperazione, rimanendo a terra ginocchioni, sul tappeto, stirò colle mani il foglio gualcito; la lettura era difficile per le lacrime che le velavano gli occhi; leggeva lentamente, a voce alta: le parole le uscivano dalla strozza rotte dai singhiozzi.

Finita la lettura, la ricominciò con una specie di voluttà felina, elevando la voce quasi avesse voluto chiamare a testimoni dell’infamia di cui era vittima ascoltatori invisibili. Singhiozzi e risa feroci!

«Addio, Giulia, il tuo perdono, non osando invocare il tuo oblio!»

— Vile! Non una parola di rimpianto! E, per di più, il quadro della sua felicità colla «santa, l’amore di tutta la sua giovinezza... la compagna di tutta la vita...» Vile! Il perdono no! L’oblio forse, se mi sarà [208] possibile... Ma prima la vendetta! sclamò alzando i pugni in atto di minaccia.

Terribile, in quel momento, e bellissima, avvolta nella capigliatura bruna, contrasto alle nudità marmoree, nell’atteggiamento della Maddalena di Guido; una Maddalena non pentita, non rassegnata; Nemesi imprecante il destino, il suo Dio!

Scattò ritta e, afferrato il campanello lo scotè violentemente. Accorse la cameriera.

— Dio mio, signora, che è avvenuto?

— Vestimi in fretta, devo uscire. Presto! Ma spicciati dunque!... Che fai?

— O signora, che è mai successo?

— No! no! non perdono!

E si coricò sulla poltrona, scoppiando nuovamente in lacrime, mentre Francesca tentava indossarle un accappatojo.

— Povera signora! Così nuda, prenderà un malanno... Non pianga, marchesa.

E Giulia, come incosciente, a lasciar fare, mentre la piena del cordoglio traboccava in pianto.

La Francesca intanto le ravviava la folta capigliatura, fissando l’enorme fascio di capelli con un nastro, intrecciandoli rapidamente, ed avvolgendo la treccia, a mo’ di serpente aggomitolato, dietro la nuca.

— Vestimi in fretta, Francesca, devo uscire. Ordina la carrozza!... Fai presto!

E la poveretta soffocava strozzata dai singhiozzi.

Francesca suonò, a sua volta, e corse sulla porta gridando a un domestico:

— La carrozza della marchesa... Carrozza chiusa!

Ritornò affaccendata ed amorevole a vestire la signora, come avrebbe fatto di una bambola inerte. Giulia lasciava fare e singhiozzava.

[209]

La toletta non fu lunga; sull’accappatojo, Francesca passò un mantello impellicciato; adattò al capo un cappello dalle larghe tese, un velo fitto, per nascondere ai domestici gli occhî rossi, molli di pianto...

— Dirai al cocchiere che vado dalla contessa.

E scese lo scalone, accompagnata, quasi sorretta dalla cameriera.

Quando fu in carrozza...

— Ah! la lettera! Francesca, sali, troverai un foglio a terra; recalo subito... Spicciati!

Francesca non si spicciò troppo; il tempo di scorrere essa pure il foglio maledetto, causa di tante lacrime.

— Povera signora! mormorò la cameriera scendendo a precipizio le scale. Povera signora!

Confidente della di lei felicità, la fedele domestica comprendeva tutto lo schianto, tutta l’amarezza del disinganno.

Giulia entrò nel boudoir della contessa Marcellin, senza farsi annunziare; entrò come un uragano. La contessa, sorpresa, le si fece incontro chiedendo ansiosa:

— Che c’è? Che è avvenuto, Giulia?

Intravedendo le lacrime di sotto al velo:

— Dio mio! Hai pianto, Giulia?

Questa abbracciò la madre balbettando:

— Sono tanto infelice, mamma!

[210]

CAPITOLO XV. La farmacia.

— Sai, diceva l’onorevole Lastri a Ruggeri nella farmacia della Camera, che il tuo pupillo in tre mesi ha fatto molto cammino?

— Troppo, rispose Ettore in tono secco, come per avvertire l’amico di mutar discorso. Questi non comprese o non volle comprendere, e continuò.

— Ho visto oggi la sua nuova pariglia, è veramente magnifica. Non vi sono cavalli di egual prezzo che nelle scuderie del barone Michelini.

— Se si trattasse soltanto di cavalli non sarebbe nulla...

— Oh! in quanto al resto io sono di manica larga... Amori di giovinotti. Capisco che nella sua condizione di ammogliato dovrebbe curare un po’ più le apparenze... E quella benedetta ragazza, che si direbbe faccia di tutto per compromettersi e per comprometterlo?

Tale discorso era tenuto a bassa voce fra Lastri ed Ettore, mentre un crocchio di deputati in circolo lambiccava fra i motti di spirito, le osservazioni argute, le dichiarazioni ciniche, le maldicenze spietate, tutta la politica parlamentare.

La farmacia della Camera è ormai una istituzione quanto gli ufficî e le commissioni. Sola differenza che alla farmacia tutti i deputati possono essere ammessi e partecipare alle maldicenze senza bisogno di speciale [211] elezione, senza differenza di cariche. Per altro vi sono i maggiorenti anche là, i quali tengono il mestolo o la corda; vi sono gli assidui, anzi gli immancabili ed i dilettanti periodici; vi sono i membri temporarî ed i leaders di tutti i partiti, quantunque nella farmacia, nella grande fratellanza della maldicenza, non vi siano partiti.

Vi si cospira anche, alla reciproca demolizione od al mutuo incensamento, vi si combinano ministeri e vi si fabbricano crisi, ma ciò in momenti eccezionali e negli a parte.

La farmacia può dirsi in permanenza; funziona dal mattino alle undici fino a mezzanotte, ora nella quale la politica parlamentare si riversa al caffè Aragno, ove i giornalisti corrispondenti aspettano in agguato i deputati per avere l’ultima notizia, compensata col fervorino, colla noticina speciale, redatta per edificare i lontani elettori sulle eminenti qualità del loro eletto.

La farmacia propriamente detta è un salotto che sta fra le due grandi sale di lettura e scrittura, a pian terreno, prospicienti sulla piazza di Montecitorio.

La chiamano farmacia, non già perchè nei tempi andati, quando Montecitorio era un ospizio di carità, vi si distribuivano i farmachi ai poveri... La tradizione ne è spenta; bensì per la ragione che, come nelle farmacie di villaggio, le notabilità vi si raccolgono a crogiolare la politica ed il pettegolezzo, lo scandalo della giornata.

Nell’aula di Montecitorio vi è sempre un ordine del giorno, la grossa legge, la importante interpellanza, la urgente questione, così nella farmacia. Colla differenza che l’ordine del giorno non è a stampa, e le norme regolamentari non sono osservate nella discussione. Vi è un presidente virtuale, il quale, cresimato alla vicina [212] fiaschetteria del Parlamento, intona, ma non dirige le discussioni.

Libertà di parola; nei momenti gravi parecchî oratori possono parlare contemporaneamente e, non essendovi votazioni, possono anche non essere ascoltati.

In quel giorno vi si sussurrava di una grossa calunnia... Si narrava di un deputato che avrebbe avuto rapporti coi briganti, agenti elettorali influentissimi nel di lui collegio, e di un probabile processo. Di un altro onorevole si annunziavano le dimissioni imminenti per bancarotta fraudolenta; e per associazione di idee e di malfattori si parlava di un altro, da tempo dimissionario, autore di cambiali false, il tutto condito da epigrammi e da motti. Si rivangava l’antico crack sardo, mormorando che non tutti i colpevoli eran stati condannati dalle Assise di Genova, eminente notabilità parlamentare il più compromesso.

L’enorme principe di Sant’Alessio si scagliava invece contro il Senato, a difesa del Governo, per l’invalidazione di alcune nomine di senatori, scandalosa rivolta contro i diritti della Corona. Gli si replicava che uno dei rejetti era stato nientemeno che un agente borbonico torturatore di patrioti; l’altro, lo si affermava a bassa voce, direttore di un grande istituto di emissione; avrebbe fabbricato moneta per proprio conto, emettendo molti milioni di carta falsa.

Altri asseriva che le nomine senatoriali erano state messe a prezzo dal Governo, per sopperire alle ingenti spese elettorali.

Qualche deputato novellino meravigliava incredulo; gli anziani ne ridevano; altri, i ministeriali, negavano risolutamente, gridando alla calunnia.

Tra questi, due ex preti, che la infedeltà al dio del seminario compensavano, parlamentari influenti, colla [213] loro fedeltà ad ogni ministero, dal giorno della nascita a quello della caduta.

Ruggeri si interessava mediocremente a tali discussioni, cui Lastri, per la incorreggibile loquacità, partecipava con calore, esprimendo il proprio disgusto.

— Mio caro, a che riscaldarti, gli rispondeva con bonarietà l’onorevole di Sant’Alessio; tutti i parlamenti hanno camminato e procederanno sempre così. Non si governa colla moralità.

Poi il pettegolezzo. Qualcuno meravigliava del treno di casa tenuto da un ex presidente del Consiglio, che, essendo ormai ritenuto impossibile al potere, aveva tutta la maldicenza contro...

— Qual mistero! Un po’ li guadagna, un po’ li ruba, un po’ li deve e non li rende.

La risata fu unanime!

Ruggeri non resse più; era venuto per cercarvi Giuliano, irreperibile al suo appartamento. Chè Giuliano l’aveva affittato, l’appartamento; ma la contessa attendeva invano il richiamo del marito. Ettore, acceso un sigaro, per ingannare l’impazienza che lo rodeva si mise a passeggiare a passi rapidi il lungo ambulatorio del pian terreno.

— Alla Camera ci deve venire. Si discute oggi in giunta la sua elezione. Non è possibile che manchi.

Numerosi deputati eran sparpagliati, a gruppi, isolati, alcuni seduti sui canapè cospiravano a bassa voce, o tenevano conferenza con visitatori estranei alla Camera, elettori o clienti, uomini d’affari, banchieri, costruttori, appaltatori, giornalisti. La gran pentola bolliva con animazione insolita.

Passò il ministro del tesoro, coll’interim delle finanze. Fu tosto circondato... Il Dio dell’or... ormai della carta. Strette di mano, mezze parole, sorrisi, [214] promesse o dinieghi, fra il buon umore, i motti, le risate.

— Oh, Ruggeri! Qual miracolo alla Camera?

— Miracolo davvero... Aspetto qualcuno...

— L’onorevole Sicuri, ne son sicuro, disse il ministro sorridendo del bisticcio.

— Appunto!

— È oggi la sua giornata campale... Ma si può esser certi della convalidazione. Fu da me jeri con...

Il ministro si morse le labbra, non pronunziando il nome.

— Mi sono informato, soggiunse, e non vi sarà neppure discussione. Gli avversarî si sono dimenticati di far autenticare le proteste e, quindi, sono nulle.

— Ah, nulle? sclamò Ruggeri senza mostrare il minimo compiacimento.

— Giovinotto di merito!

Ed il ministro passò ad altri, con aria affaccendata... parlando non più ad alta voce.

Si prevedeva un voto nella giornata; gli occorreva abboccarsi con molti, onde impartire ai ministeriali istruzioni, raccomandazioni; assumendo cogli avversarî inconvertibili l’aria di vittima, il contegno di annojato, stanco della rovinosa e non ambita situazione di ministro.

Nel frattempo qualcuno andava demolendolo, narrando aneddoti, in apparenza fantastici; fra gli altri di un ingente mutuo imposto ad una banca e della senseria toccata... Una forte somma; per di più il regalo di due morelli ungheresi...

— Che! Un equipaggio completo. E intanto che noi si discorre, l’eccellenzina ereditaria, scarrozza nel cocchio di babbo.

— C’è dell’altro... La Corte de’ conti continua a respingere [215] decreti; sono nomine e promozioni di funzionarî, tutti mariti di belle mogli.

— Oh, questa è una indegnità!

— Indegnità o no, è un fatto! Sarà una combinazione; ma il fatto sta. I decreti respinti vengono registrati con riserva; i funzionarî entrano in carica e toccano lo stipendio, a dispetto della Corte...

— Dei conti.

— S’intende.

— Ma c’è la commissione parlamentare per i decreti registrati con riserva, disse un novellino.

L’ingenua interruzione fu accolta fra le risa ed i sorrisi di compassione...

— La commissione! Non si raduna da anni.

— Ma, allora, a che cosa serve la Corte dei conti? replicò il novellino imbarazzato.

— A nulla! decretò solennemente il presidente virtuale della farmacia. Signori, sono le due. Gli uscieri ci chiamano nell’aula. Oggi seduta importante; il deputato Istriani ci costringerà certamente ad un appello nominale. Accidenti alla Estrema Sinistra! Sono quattro gatti e non v’è seduta senza scandali.

— La colpa è della Destra, che, di soppiatto, li appoggia.

Le sale e gli ambulatorî andavano sfollandosi lentamente; pochi onorevoli rimasero ai tavoli, leggendo, scrivendo.

Il duca di Sant’Alessio, rimasto solo in farmacia, approfittò del silenzio per ajutare il chilo della copiosa colazione dormendo, sicuro che in caso di voto gli uscieri lo avrebbero chiamato.

L’onorevole Lastri raggiunse Ruggeri nell’ambulatorio.

— Ancor qui, Ruggeri?

[216]

— Aspetto Sicuri.

— Dimmi un po’, che c’è di vero in ciò che momenti fa si susurrava in farmacia di una grossa perdita fatta al giuoco?

— Anche il giuoco! sclamò Ettore allarmato.

— Lo diceva il duca di Tarsi. Giuliano avrebbe perduto più di centomila lire, in poche sere, in una bisca molto nota anche alla polizia e dalla polizia rispettata per l’autorità dei personaggi che la frequentano e per l’onnipotenza degli anonimi che la tengono.

— È la rovina completa! Mortelli, l’agente di cambio, mi avvertì stamattina che nella liquidazione di borsa di jeri l’altro, Giuliano c’è rimasto per somme enormi... E ciò che mi stupisce è come abbia potuto liquidare regolarmente, passando per più di trecentomila lire alla banca del barone Michelini. E non sarebbe tutto, perchè avrebbe in riporto una massa di titoli.

— Bisogna fermarlo.

— Ci penso. Ma in qual modo? Quel miserabile di Ferretti lo ha ipnotizzato. Come strapparlo alle grinfe rapaci?

— Come mai Giuliano potè avere a disposizione somme sì grosse?

— Deve aver fatto qualche operazione a Milano, durante le ferie parlamentari. So che la dote della contessa è liquida in gran parte. Circa mezzo milione. Egli non possiede che stabili e terre.

— Sarebbe un’infamia! sclamò indignato il vecchio Lastri. Rovinarla mentre la tradisce.

— Oh, i miei presentimenti!

— Ed i miei? mormorò Lastri. Forse non è irreparabile. Bisogna vederlo, parlargli, convincerlo.

Chiamato un usciere, il deputato gli diè ordine di [217] salire in giunta delle elezioni per vedere se vi fosse l’onorevole Sicuri...

— Cercatelo dappertutto. Ditegli che è aspettato qui nell’ambulatorio... Mandate anche nell’aula...

In quel mentre Giuliano entrava dalla porta posteriore del palazzo di via della Missione.

In pochi mesi si era completamente trasformato. Non più la timidità che gli attirava le simpatie protettrici dei vecchi parlamentari. Aveva assunto, con un’eleganza alquanto pretensiosa, un po’ dandinesca, ciò che i francesi chiamano l’à plomb, un fare disinvolto, un zinzino impertinente; impertinenza mitigata dallo sguardo azzurro, sempre benevolo nella sua incertezza vaga.

Scorgendo Ruggeri gli si fece incontro, tentando nascondere le preoccupazioni che lo turbavano.

— Come va, Ettore? Non ti si vede più. Bisognerà andare alla stazione per cercarti... Fai sempre i tuoi viaggi in ispirito?

A Lastri porse la mano sorridente:

— Sai, la giunta propone la convalidazione. Domani uscirò dal limbo... Era tempo!

— Devo parlarti a lungo, Giuliano, gli disse Ettore con dolcezza, come avrebbe fatto con un fanciullo che si vuole ammonire e persuadere ad un tempo...

Lastri fece atto di andarsene.

— No! rimani, non sei di troppo.

Giuliano non seppe nascondere la contrarietà provata a quell’esordio.

— La seduta è aperta, devo recarmi nell’aula... Sarà per più tardi. Stasera, dopo la seduta, disse quasi invocando.

— Nell’aula non ci hai nulla da fare, soggiunse severamente Ruggeri. Si discute il bilancio dell’istruzione... Le interpellanze verranno in fine di seduta. [218] Avrai tutto il tempo di votare per il tuo Governo, se voto vi sarà.

— Sia... Dimmi almeno di che cosa si tratta. Hai un’aria tanto solenne, che mi impensierisci...

E volle ridere, ma fingere non sapeva; levatosi la maschera, con voce tremante soggiunse:

— Lettere da Miralto?

— Non ancora, per fortuna... Tentiamo di prevenirle... se pure siamo in tempo.

Giuliano impallidì.

— Colla tua solennità mi spaventi; sarebbe avvenuta qualche disgrazia?

— No, tranquillizzati... Ma non rimaniamo qui. Nella sala là in fondo, a sinistra, saremo soli ed in piena libertà.

La sala indicata è storica per essere stata abitata dal compagno di Garibaldi, Nicola Fabrizi, il cui ricordo è tutta una requisitoria contro gli attuali nababbi politici, truffatori e non eredi delle glorie dei grandi defunti.

Ruggeri, quantunque preoccupato di ben altro, come se avesse pensato, ad alta voce rivoltosi a Giuliano:

— Ne’ suoi ultimi anni abitò qui il sublime bohème, ospite della presidenza della Camera; aveva dato tutto, nulla serbando per sè, gloriosamente povero come Cristo. La gloria, nè lui, nè Garibaldi non la potevano dare perchè apparteneva alla storia; ora la si svaligia per glorificare i viventi.

Giuliano, poco compreso di ammirazione, specie in quel momento, vagava al soffitto cogli occhi blu di malumore, non dandosi cura di nascondere la contrarietà dispettosa per quella chiamata all’ordine, che presentiva si sarebbe risolta in una nojosa paternale.

Si sedettero in silenzio, colla gravità di padrini che si accingano a discutere una questione d’onore.

[219]

— Ora siamo soli; potrò finalmente sapere di che si tratta, disse Giuliano simulando indifferenza, smentita dal tremito della voce.

— Caro Giuliano, riprese Ettore con affabilità, io non ho veste per farti da mentore, nè autorità, nè diritto di sindacare le tue azioni. Tuttavia l’amicizia ha i suoi doveri, sacri doveri, e la differenza di età che passa fra noi mi impone quelli di un fratello maggiore. La tua inesperienza, la tua natura onesta ed entusiasta, ti additarono facile preda agli imbroglioni. È vero che operi in borsa, che hai subìte perdite gravi e che mantieni in sospeso operazioni ingenti, le quali nell’alea terribile potrebbero assorbire tutto il tuo patrimonio?

Giuliano, non osando mentire, non rispose; abbassò lo sguardo, assentendo in silenzio.

— Oggi ricevetti lettera dal notajo di Miralto, che è pure il tuo notajo. Egli amministra il mio piccolo peculio e, rendendomi conto della sua gestione, si lascia sfuggire un grido di allarme per te, quantunque egli non sappia il peggio. Vecchio amico di tuo padre, mi prega di consigliarti, non osando egli stesso.

«L’elezione ti costò circa settantamila lire, ed in cinque mesi da che sei a Roma ne hai prelevate altre settantamila, circa. Alle tue perdite in borsa, agli svaligiamenti perpetrati nelle bische contro di te, come hai provveduto? Ove hai trovato le quattrocentomila lire occorrenti, quasi la metà del tuo patrimonio?

Giuliano non rispondeva; Ruggeri si era alzato e passeggiava concitato. La scena diveniva imbarazzante... Lastri si sentiva di troppo ed avrebbe voluto andarsene. Ruggeri lo pregò collo sguardo di rimanere.

— Dillo, in nome di Dio! Dillo! Hai firmato delle cambiali?

Giuliano accennò col capo di no.

[220]

— Come hai fatto?

— Un conto corrente all’Istituto Romano.

— Un conto corrente? In qual modo l’hai ottenuto?

— Hanno esagerato... Le perdite non sono quali le supponi. Te lo proverò.

— Il conto corrente?

— Ho depositato una somma...

— Di’ la verità... La dote della contessa?

Giuliano tacque.

Ruggeri era impallidito per lo sdegno. Pure, essendosi imposto la calma, dopo breve pausa:

— Disgraziato! Non pensavi che quei danari sono sacri, che non sono tuoi, che sono di tuo figlio, di quella povera donna, che, fidente in te, nel tuo amore, ti darebbe la vita? Giuliano, quale demonio ti ha invaso?

Avvicinandoglisi, gli prese le due mani, e con affetto, quasi supplicante:

— Dammi almeno parola che liquiderai la tua posizione in borsa, che rinunzierai alla rivincita. Sarebbe il disonore colla rovina completa.

Giuliano aveva le lacrime agli occhî, l’angoscia lo strozzava; mormorò più che non dicesse un sì, assentendo del capo. Poi soggiunse:

— Avevo già pensato di dare ipoteca ad Adele su i miei stabili.

— Bisognerà farlo subito...

Intervenne Lastri:

— L’importante è di rompere ogni rapporto con quel furfante di Ferretti, di non mettere più piede nelle bische, delle quali egli ed il suo avversario... politico, il noto giornalista Moisaici, sono i cointeressati biscazzieri. È notorio. Si susurra perfino che un nostro collega e, parlamentarmente parlando, non l’ultimo venuto, vi abbia lo zampino.

[221]

— Non è possibile! scattò a dire Giuliano.

— Te lo proverò, figlio mio. È il segreto di Pulcinella...

Giuliano, ad un tratto, come sovvenendosi improvvisamente di un impegno urgente, si alzò dicendo:

— Vi ringrazio, amici! Farò tutto ciò che vorrete. Lo prometto! Ci rivedremo stasera, qui, alla Camera...

E, senza lasciar tempo a Ruggeri di insistere per trattenerlo, se ne andò frettoloso. Ettore e Lastri rimasero di fronte, scoraggiati.

— Non vi è nulla da fare, sclamò Lastri. La complicazione della donna guasta tutto... Sai quale affare urgente lo chiama? Va nell’aula per vedere se la marchesa è nella tribuna: fa un segno; essa scende, ed entrambi in carrozza, nella carrozza di Giuliano, che aspetta, ne son sicuro, qui sulla piazzetta della Missione, vanno alla campagna a filare idillî fra le rovine o sulle alture dei colli. Archeologia amorosa!

— Se non possiamo salvare lui, l’imbecille, salviamo almeno la sua famiglia. Tu che sei giureconsulto, dammi un consiglio.

— Un’ipoteca.

— È affar lungo...

— Un sequestro conservativo...

— La contessa non si deciderà mai a volerlo. D’altronde, bisognerebbe dirle tutto. Quale schianto in quella casa!

— Presto o tardi verrebbe a conoscenza d’ogni cosa... Meglio ora, che siamo ancora in tempo per evitare una catastrofe completa.

«Non è nell’interesse soltanto della contessa; anche di suo figlio. L’amore di madre dovrebbe prevalere.

— Tu conosci la marchesa Fiori, replicò Ettore; se la facessimo intervenire... Che donna è?

[222]

— È... E chi potrebbe dirlo? Buona certo. Ma un cervellino bizzarro, come la sua bellezza. La credo capace delle più nobili azioni; lo ha provato di fronte a quel miserabile di suo marito. Ma se la passione se ne immischia, chi può prevedere di che cosa sia capace anche nel male?

«Poi c’è quella zia! Un’intrigante per istinto; affarista per avarizia. Si buccina abbia delle intelligenze con Ferretti; l’hanno visto spesso uscire dal villino Marcellin all’Esquilino; ed un giornale d’affari e di scandali, il Boulevard, stampò in proposito insinuazioni molto trasparenti, passate quasi inavvertite, per il silenzio successivo. Evidentemente, silenzio non del tutto gratuito.

— Prima di prendere una risoluzione, aspettiamo la confessione generale di Giuliano. Ha promesso di venire stasera; dopo, ci appiglieremo al partito che ci parrà migliore.

— Credi che verrà? chiese Lastri.

— Oh, certamente!

— Io ne dubito...

Lastri ebbe ragione; alla sera il bel Giuliano brillò per l’assenza, e i due amici lo aspettarono inutilmente.

[223]

CAPITOLO XVI. Delusioni. — Tristezze.

Nelle informazioni di Ruggeri e dell’onorevole Lastri non vi era fatalmente nulla di esagerato. Il colpo tentato in borsa da Ferretti era fallito alla prima prova.

Incoraggiato all’ottimismo dalle assicurazioni dei ministri, dal progetto di legge di una proroga sessennale del privilegio alle banche di emissione, coi criterî di rispetto della pluralità bancaria; dalle coalizioni di potenti sindacati al rialzo, italiani e stranieri, il cinico Ferretti, pur non credendo alla saldezza delle nostre società anonime e de’ più importanti istituti di credito, pur conoscendo le magagne di tutti gli stabilimenti minori, satelliti dei grandi astri offuscati, dei valori locali e della stessa rendita, scossa dagli incolmabili disavanzi; pur non prestando fede al pareggio, promesso nei bilanci dello Stato, pareggio ch’egli strombazzava nel suo giornale, credette ad una momentanea galvanizzazione del nostro credito, assassinato dal mal governo, e, l’avoltojo, si era imbrancato nuovamente cogli ingenui, deciso a rovesciare, a tempo opportuno, le proprie operazioni, lasciando i merli nelle panie.

Operò al rialzo, accusando nel proprio giornale di alto tradimento deputati e giornalisti, che alle menzogne ufficiali contrapponevano onestamente la verità; indiscutibile verità delle cifre, l’evidenza di fatti inoppugnabili.

[224]

Ferretti, quanto più sentiva di mentire, tanto più gridava, aumentando di violenza. A forza d’urlare si stordiva, e finì per credere di essere nel vero. Fatto nuovo e tanto inverosimile, che avrebbe dovuto convincerlo del contrario.

Fallita la prima prova in due disastrose liquidazioni, si accingeva alla rivincita, rinfrancando la vittima colle promesse, cullandola nelle illusioni più rosee. Una pioggia d’oro e di biglietti da mille senz’altri rischi. E le previsioni erano corroborate da tanta sapienza finanziaria, da tale conoscenza dei mercati e dei valori, che il povero Giuliano non osava opporre objezioni, le obiezioni meditate nella febbre dell’insonnia, fra i rimorsi e lo spavento della propria e della rovina de’ suoi.

All’apparire del giorno, col sonno riparatore, sfumavano i propositi eroici, avvinto a Ferretti come il galeotto al compagno di catena; affascinato dalla marchesa Giulia, la sirena incantatrice, ormai a lui necessaria quanto la luce e l’aria per vivere.

Giulia lo sentiva infelice e, ritenendosi unica causa delle profonde tristezze, de’ turbamenti subitanei, delle ansie mal simulate, raddoppiava d’amore per consolarlo delle gioje domestiche perdute, per costringerlo, nelle deliranti felicità della passione, all’oblìo della rivale lontana.

Anch’essa, Giulia, quando l’amante non era là, dinanzi a’ suoi occhî, fra le sue braccia, era infelice.

Chè, fra di loro, non interponevasi soltanto una rivale; ancora la testina bionda di un bambino, che Giulia avrebbe voluto odiare quanto la di lui madre, ed invece sentiva di amare, quasi a compenso della parte di amore paterno che gli rapiva.

Quando si era data, Giulia, come l’Edea di Byron al giovane naufrago Don Giovanni, sulla spiaggia deserta, [225] ove la tempesta ed il destino l’avevano gettato, non aveva chiesto ricambio di promesse, di giuramenti, non aveva pensato al passato ed all’avvenire. Come abbiamo detto altrove, Giuliano era giunto nel momento fatale, e Giulia si era abbandonata nella incoscienza di un fiore che si lascia cogliere, senza lotta, senza protesta, senza considerazioni, senza preoccupazioni per sè, per lui, per altri. Non sapeva se l’amava, se sarebbe stata riamata... D’amarlo veramente, con tutta la passione dell’anima ardente, non lo seppe che il giorno in cui Giuliano le aveva scritta la lettera d’addio.

Da quel dì comprese tutta l’enormità del suo fallo, si sentì avvinta per la vita a Giuliano, che non poteva, non doveva essere suo.

Da quel giorno provò tutte le torture della gelosia, i terrori del dubbio, i rimorsi della colpa.

Riconquistato l’amante, strappato alla famiglia, se non colla violenza, col fascino dell’ardente bellezza, colla onnipotenza irresistibile dello sguardo innamorato, colle ineffabili voluttà del bacio dall’effluvio inebbriante, era ritornata vittoriosa da Miralto; ma in cuor suo portava la gelosia ed il rimorso.

Aveva voluto vederla, la famiglia di Giuliano. In agguato, dietro le persiane dell’appartamento dell’albergo, li aveva veduti passare nella via, madre e figlio. Era una domenica; si recavano alla messa.

La bellezza odiata della contessa Adele le suscitò in cuore come un senso di pietosa simpatia; alla vista del bimbo, pianse di tenerezza. Eppure, la guerra era a morte contro quegli esseri pii ed innocenti.

L’ufficio divino terminato, ritornarono. Il bimbo che sorrideva a tutto, al cielo come alla terra, sorrise anche alle persiane chiuse, dietro le quali stava appiattata Giulia...

[226]

Un pensiero odioso le balenò alla mente:

— Se la madre morisse, come l’amerei quel bambino!

Se morisse! Nelle gioje e nei tormenti del suo amore, il pensiero colpevole, iniquo... Speranza nei terrori che le inspirava l’avvenire.

La contessa Adele, insciente del dramma che andava fatalmente svolgendosi, attendeva fidente il ritorno del marito, le cui visite, per quanto brevi, non si erano diradate, attendeva con ansia giuliva, contando i giorni, l’epoca delle vacanze parlamentari, ormai vicine. Non si sarebbero separati mai più. L’aveva promesso! L’anno prossimo l’avrebbe seguito a Roma.

E Giuliano, lo vedeva l’abisso?

Lo sentiva, non lo vedeva, perchè sull’orlo del precipizio, colpito da vertigine, chiudeva gli occhi per non vederlo...

Chiudeva gli occhi, senza poter arretrarsi, illudendosi nelle lusinghe di Ferretti, quantunque, ormai, fallita la fede anche in quell’uomo.

Ruggeri e Lastri gli porgevano la corda di salvezza; un carattere risoluto vi si sarebbe aggrappato; Giuliano la respingeva, incapace di risoluzioni decisive. D’altronde sarebbe stata la rinunzia ad ogni speranza di rivincita, la confessione ad Adele delle proprie follìe, la necessità di lasciare Roma, di rientrare nella vita privata, la rinunzia alla deputazione, l’abbandono di Giulia, pensiero intollerabile, mentre un colpo solo di fortuna avrebbe potuto rimediare a tutto.

Non mentori, non consigli; alla sorte la decisione!

E poi?

Non vi pensava! Non voleva pensarci e perciò tentava stordirsi fra l’amore di Giulia e le emozioni del gioco, nell’esistenza vuota, ma affaccendata dello sportsman, cercando distrazioni nelle frivolezze, le meschinerie [227] convenzionali di quella società che, tanto impropriamente, chiamasi il gran mondo.

Ad onta di ciò, il terribile punto interrogante gli si disegnava inesorabilmente alla mente, perseguitandolo, fin fra le braccia innamorate della marchesa.

E poi?

Il suicidio? Facile scappatoja per chi non lascia affetti dietro di sè, non ha doveri da compiere, il nome di un figlio da far rispettare.

Orribile prospettiva per Giuliano, il quale, pur non sapendosi sottrarre ai fascini della nuova esistenza, adorava la famiglia, sentiva la grande responsabilità che gli incombeva.

E poi?

Quando quel fatidico punto lo importunava nel sonno, balzava forsennato, si rivestiva per recarsi al club, o per bussare alla porticina della bisca, nella speranza di trovarvi attardati giuocatori, coi quali, pur precipitando la propria rovina, dissipare, nelle assorbenti distrazioni del gioco, l’incubo intollerabile.

La sera nella quale Ruggeri e il deputato Lastri avevano inutilmente aspettato Giuliano alla Camera, egli era uscito a tarda ora dall’appartamento della marchesa. Sua prima intenzione quella di rincasare immediatamente; quando fu al portone si pentì, ebbe paura delle insonnie tormentose e diede ordine al cocchiere di retrocedere, di condurlo al club.

Le sale erano deserte, il giuoco languiva; però quel soccorso inaspettato fu accolto dai giuocatori con un urrah!

— Come mai tante diserzioni? chiese Giuliano.

— Il thè della baronessa Stigler... Arriveranno fra poco. Sei il benvenuto, Sicuri; ci si cullava in un giuoco innocente di famiglia, avremmo finito per addormentarci. Un chemin de fer a scartamento ridotto.

[228]

— Un tram! disse un altro.

— Chè, un omnibus.

— Aspettiamo i reduci dal thè! propose Giuliano.

— Intanto vieni ad alimentare questa povera locomotiva incagliata.

— Con piacere! disse Giuliano.

E rivoltosi ad un inserviente, soggiunse:

— Datemi dei gettoni.

— Quanti?

— Due o tremila lire! Prese posto al tavolo, aspettando il turno del proprio banco.

Il turno venne, e Giuliano si disponeva a dar carte.

— Quanto di banco? gli chiese il giuocatore alla sua sinistra.

— Quanto vuoi!

— Quand’è così, diamo impulso alla macchina. Parti da mille lire.

— Chiami banco?

— Sì!

— Mille?

— Mille!

— Parto!

Giuliano diè carte. Vinse, rivinse... Una serie di dodici colpi. Una combinazione miracolosa al baccara, meno probabile di un terno al lotto.

Il voluminoso mazzo di carte erasi esaurito coll’ultimo colpo. Le perdite erano state colossali, talmente sproporzionate alle consuetudini del tavolino, che vi fu un momento di silenzio; i giocatori non si rendevano conto di ciò ch’era avvenuto, come svegliati da un sogno, tanto rapida, quasi fulminea, la partita.

I pochi soci dispersi per la sala, alla voce della straordinaria giocata, erano accorsi facendo circolo, spettatori; alcuni, attori, avendo sparato anch’essi cartuccie [229] di biglietti da mille, su parola, agli ultimi colpi della serie inverosimile.

I giocatori erano lividi, il sudore rigava i loro volti contraffatti. Giuliano, come sonnambulo, non rendevasi conto di ciò ch’era avvenuto... Gettoni a mucchî, biglietti di banca a fasci davanti a lui, che nel rifare i conti su parola non connetteva le cifre, tanto che dovette ricorrere all’abilità aritmetica di una fra le sue vittime.

Contato il danaro, liquidati i gettoni, tirate le somme, la vincita di Giuliano saliva a duecentosettanta mila lire.

— Signori, disse Giuliano, rifacciamo le carte... È giusto ch’io dia la rivincita.

Un giovinotto, con sollecitudine ansiosa, disponevasi a rimettere in assetto gli otto mazzi di carte gettati alla rinfusa nel paniere. Altri intervennero:

— E, come la rivincita? A st’ora!... Andremmo nelle cifre fantastiche. Bisognerebbe incominciare da puntate di cinquantine di mille lire...

Il giovane ristette a guardare Giuliano con occhî sbarrati. Gli si leggeva nello sguardo la disperazione. Finchè aveva potuto sperare nella rivincita, gli era riuscito sorridere; ma, troncata la partita, non reggeva al pensiero di non poter soddisfare il suo debito... debito d’onore!

Giuliano vide e comprese. Tutti si erano alzati; egli si avvicinò al giovane e, fingendo intrattenerlo d’altro, gli mormorò all’orecchio:

— La rivincita che non posso darle stasera, la rimandiamo a domani. Non si preoccupi della differenza; i conti a partita finita.

Il giovane gli strinse la mano, senza rispondere, troppo commosso per poter esprimere la propria gratitudine.

[230]

Giuliano si sentiva umiliato da quella vena insolente, avrebbe voluto rigiocare, gli pareva d’essere sospettato. Da poco era stato ammesso a quel circolo, poche volte vi aveva giocato e la sorte gli era stata sempre favorevole.

— Strano! Alla bisca perdo sempre!... Decisamente Ferretti mi porta disgrazia.

Se avesse ricordato gli ammonimenti del deputato Lastri, avrebbe spiegato le ragioni della diversità di fortuna. Quella vincita riparava in parte alle differenze di borsa; se Giuliano avesse voluto e potuto seguire i consigli degli amici, liquidando la sua posizione, la perdita sarebbe stata ridotta a proporzioni meno disastrose. Ma il demone del gioco l’aveva invaso e da quel primo ritorno della fortuna traeva lieti auspicî per l’avvenire.

— Smetterò quando sarò completamente rifatto!

Un nuovo disastro lo sovrastava.

La sera successiva, Giuliano si recò nuovamente al Trotter; non vi si giocava.

Contraccolpo della partita della sera innanzi, il tavolino era momentaneamente esausto; i vinti si riposavano sulla sconfitta.

Giuliano avrebbe voluto rivedere il suo giovane debitore, per accordargli la promessa rivincita, o, per lo meno, tranquillarlo nuovamente. L’aveva sul cuore! Il di lui atteggiamento disperato, lo sguardo di terrore allorchè i giocatori si erano alzati, troncando la partita, lo avevano impressionato e n’era preoccupato. Per un sentimento delicato non volle chiedere di lui, contrariato di non vederlo.

Era presentimento della catastrofe!

La mattina seguente i giornali recavano minuti particolari di un ben triste dramma: il suicidio del primogenito [231] di una celebrità della scienza, il medico Inversi. Il padre avendo rifiutato di saldare la nuova perdita al gioco del figlio, questi erasi suicidato.

Molte inesattezze nel racconto; la somma era esagerata; il creditore, inesorabile, un deputato. Il nome era taciuto, ma lo si indovinava dalle reticenze trasparenti.

Il giornale l’Ordine traeva occasione dal tragico fatto per un articolo violento, di tutto pugno del Ferretti, contro le autorità non abbastanza vigilanti:

«Roma, scriveva l’onesto giornalista, è infestata di bische; dai clubs signorili, nei quali i figli di famiglia lasciano il loro patrimonio, qualche volta l’onore, o, come in questo caso pietoso, la vita, ai tripots di bassa lega, ove impunemente si spogliano i mal capitati, come, nei suoi bei tempi, il Tiburzi nella macchia del Lamone.

«Per ora ci limitiamo a questo cenno, decisi a designare noi stessi, se non vi si porrà riparo, le sentine, che la polizia non sa, o non vuole scoprire.»

L’onesto Jago tirava l’acqua al proprio mulino, obbligando la questura a sopprimere la concorrenza disastrosa delle bische altrui, sicuro della inviolabilità della propria.

Per due giorni i fogli cittadini riboccarono di commenti alla straziante tragedia, che piombava nel lutto la famiglia del dottor Inversi.

Il nome del deputato Sicuri non era stato stampato; per altro lo si susurrava nei caffè, e lo si pronunziava ad alta voce nella farmacia della Camera.

Giuliano era costernato; il padre infelice gli aveva mandato la somma dovuta dal suicida, ultima volontà, espressa con sentimenti di simpatia e di gratitudine verso il conte Sicuri nella lettera di addio.

[232]

Giuliano la rimandò, pregando il medico Inversi di erogarla per i suoi malati indigenti.

Solo il padre infelice rendeva giustizia al deputato Sicuri, contro cui scagliavasi la pubblica opinione.

Roma è divoratrice di scandali; dopo pochi giorni, scandali nuovi assopivano l’antico; non così in provincia, ove il nome del deputato giocatore era stato stampato senza reticenze, trasmesso in tutte lettere dal telegrafo indiscreto.

Imaginarsi il chiasso che se ne fece a Miralto. Il conte Sicuri giocatore, era cosa tanto incredibile, che da prima si suppose un equivoco, una calunnia; le conferme non tardarono. La contessa Adele fu l’ultima persona di Miralto a conoscere l’accaduto; quantunque ormai il fatto fosse inoppugnabile, non volle prestarvi fede.

Indignandosi contro la nuova calunnia, scrisse al marito: «Non credo!»

Fu indotta a dubitare quando il notajo, il vecchio amico di famiglia dei loro cari defunti, si recò a farle visita. Caso veramente straordinario, perchè le visite sue le erano da anni contate in precedenza; il caso di visite eccezionali erasi verificato soltanto in circostanze di speciale gravità.

Quando il notajo Invernizzi fu annunziato, Adele, gentile Penelope, stava nel suo salotto intenta ad un ricamo, mentre Stella sorvegliava il piccolo Gustavo che sudava tirando faticosamente delle aste sul quinterno rigato.

— Vedi, diceva Stella, tu premi troppo colla mano, ed invece di aste fai dei pali da telegrafo, ma non uno diritto. Tien leggiera la manina.

Gustavo assentiva del capo, ma la mano premeva ancor più pesantemente.

[233]

— Via, riposati... Ti affatichi meno quando vai a zappare nel tuo giardinetto...

Adele sorrideva, e scorgendo la manina del bimbo tutta imbrattata d’inchiostro:

— Gustavo, chiama l’Isabella e dille che ti lavi le mani; si direbbe che hai intinte le dita nel calamajo e non la penna.

Gustavino non se lo fece ripetere, e sparì, lieto di sottrarsi alle torture calligrafiche.

In quell’istante il domestico annunziava il dottor Pietro Invernizzi, il notajo di Miralto.

Le due donne si guardarono sorprese; tale visita, a quell’ora antimeridiana, di un personaggio visibile solo nelle grandi solennità di capo d’anno, degli onomastici e genetliaci di famiglia, inquietò Adele.

L’imbarazzo del vecchio legulejo non era fatto per tranquillare la contessa, alzatasi ad incontrare il visitatore, il quale si profondeva in iscuse per il disturbo, a quell’ora; ma gli affari passan sopra le convenienze.

Tali cerimonie sembrarono ancor più inopportune, stante che il notajo trattava tuttavia Adele col tu confidenziale, come da fanciulletta.

— Anzi, signor Pietro, è un favore doppio, perchè spero rimarrà a colazione con noi. È un regalo; se non avessi Stella, che la sua mamma mi concede l’intiera giornata, sarei sola con Gustavino, come santa Genovieffa nella foresta... Si ricorda? Fu lei a regalarmene la storia tutta illustrata, passata in eredità a Gustavino.

Il notajo sorrise a quel richiamo degli anni lontani, s’assise ringraziando e scusandosi di non poter accettare l’invito:

— Gli affari, i clienti, lo studio, l’incapacità de’ commessi...

[234]

Poi, rabbujandosi, sottovoce:

— Adele devo parlarti d’affari.

Ed accennò a Stella, per far comprendere che non avrebbe voluto testimonî.

Adele impallidì. Che cosa mai poteva essere sopravvenuto? Perchè quel mistero?

— Oh, dottore, non tema di parlare in presenza di Stella; è la mia confidente. In ogni modo le ripeterei ciò ch’ella mi avrà detto. Per essa non ho segreti.

— Come vuoi, Adele.

Imbarazzato, il notajo entrò in materia con grande solennità.

— Tu sai che, dopo steso il contratto matrimoniale, io non mi sono immischiato più nei vostri affari, all’infuori dell’amministrazione e dell’impiego del capitale affidatomi dal conte Giuliano. E, devo dire la verità, non solo del mio intervento non vi era bisogno, ma neppure del mio consiglio, perchè nessun amministratore era più prudente e più oculato di Giuliano. La tua dote poteva avere impiego più proficuo, non più sicuro. H vostro reddito non era mai speso intieramente, e le economie si capitalizzavano ingrossando il vostro patrimonio.

«Da sei mesi tutto è mutato, ed io sento dovere, per l’affetto che ho portato ai vostri genitori, per il bene che vi voglio, di intervenire.

Adele lo fissò esterrefatta, senza dire parola. Stella aveva alzata la pallida testa in atteggiamento di ansiosa attenzione.

— Dimmi la verità, Adele. Hai tu dato il consenso a tuo marito di disporre altrimenti della tua dote, depositata alla Cassa di Risparmio?

— Sì! rispose Adele arrossendo. Avrei dovuto prevenirla. Ma Giuliano non lo desiderava.

[235]

— Imprudente! Perchè non chiedermi consiglio? Non hai pensato che si trattava non solo dell’interesse tuo, anche di quello di tuo figlio?... di Gustavino?

— Di mio figlio? sclamò la madre sempre più ansiosa. Che è dunque avvenuto? Dottore, per carità, mi dica tutto. Sono coraggiosa, mi dica tutto.

— Tutto, figlia mia, perchè è necessario. Tutto ciò che so. Da giorni avrei dovuto venire da te... Ma, la situazione non era come ora allarmante, e poi io non sapevo del nuovo impiego della tua dote... Perchè nascondermi la verità? L’Istituto Romano da tempo mi aveva chiesto informazioni sulla condizione economica di tuo marito. Credendo si trattasse dell’acquisto di qualche stabile, operazione mille volte da me consigliata nel tuo interesse, le mandai eccellenti. Dissi la verità... Ora, da Roma, mi si scrive... mi si scrive di consigliarti a garantire la tua dote compromessa in operazioni di borsa, con una ipoteca sugli stabili di tuo marito.

Adele scattò, esclamando:

— Non è possibile... Una nuova calunnia!

Il notajo, da uomo prudente, tacque aspettando che la bufera fosse passata, per ritentare la carica al ritorno della calma.

La contessa Adele, dopo il primo scatto di ribellione, scoppiò in pianto. Pur troppo la verità, alla quale si era ostinatamente rifiutata di credere, si faceva strada nella sua mente, ed ormai le appariva fulgida, inoppugnabile.

Si accovacciò nell’angolo del canapè, e, coprendosi il volto, per nascondere le lacrime:

— Lo sentivo! Lo sentivo! Malaugurata elezione!

Stella ed il notajo stavano muti, rispettando il dolore della povera donna...

[236]

Stella conosceva la vita dissipata di Giuliano, per le voci meno ritegnose ch’erano giunte fino alla sua casa; ma s’era ben guardata di parlarne all’amica, per non addolorarla, tentando anzi rassicurarla allorchè, dubbiosa, Adele le confidava le sue ansie.

Stella, pentita del silenzio, accusando sè stessa di avere aggravata la situazione, si avvicinò all’amica ed abbracciandola confuse le proprie alle lacrime di lei, invocando perdono.

— Ora è necessario, Adele, che tu faccia ciò che il signor notajo ti consiglia.

In quel punto entrò chiassoso il piccolo Gustavo che, sorpreso di trovare nel salotto uno straniero, intimidito dalla di lui barba bianca, ristette... Scorgendo la mamma in lacrime, fece atti di minaccia contro il nuovo venuto, e piangendo egli pure corse a nascondere la testina bionda sul seno materno...

— Mamma, perchè piangi? Che cosa ti ha fatto quel brutto signore?

Gruppo pietoso! Anche la pupilla del dottor Pietro era inumidita.

— Faccia ciò che crede nell’interesse del mio bimbo, signor dottore, soggiunse la contessa, stringendo fra le braccia il piccino. Faccia come vuole, e scriva lei; per carità, scriva a Giuliano di ritornare... subito. Eravamo tanto felici! Troppo felici! Dio ci ha puniti...

«Almeno questa sventura valesse a farlo ritornare... Gli scriva! E faccia ciò che vuole! Firmerò tutto!

[237]

CAPITOLO XVII. Il crack.

A Roma frattanto il vento spirava alla burrasca.

Lo scandalo francese del Panama aveva il suo contraccolpo in Italia.

Per una di quelle fatalità che farebbero credere davvero al dito di Dio, e confermando il proverbio popolare che il diavolo fa le pentole senza coperchio, fra i mille documenti compromettenti uomini politici di Francia, alcuni riferivansi ad un uomo di Stato italiano, per la vendita di una decorazione ad un affarista semita, fra i più compromessi nel colossale scandalo parigino, e gli scandali sono come le ciliegie; ne tiri una, ne vengono cinquanta fra di esse intrecciate. Come le idee per associazione, un’accusa si collegava all’altra, a guisa de’ complici nelle requisitorie del fisco.

Il Senato non volle accogliere nel suo seno il celebre direttore dell’Istituto Romano, lacerando la firma reale della nomina. Le ragioni che in Senato non si eran dette, si susurravano nei pubblici convegni, negli ufficî dei giornali, nei circoli politici, negli ambulatorî di Montecitorio, nella farmacia della Camera in ebollizione. Si additavano gli uomini politici debitori dell’Istituto, si mormorava di corruzioni incredibili, di compromissioni altissime, di doppie emissioni di biglietti e perfino di biglietti falsificati per diecine di milioni. Nella sala [238] dei giornalisti al telegrafo si facevano nomi, mettendo a fascio galantuomini e disonesti, colpevoli ed innocenti.

Per la indeterminatezza delle accuse il sospetto ingigantiva, e Giuliano nell’incoscienza del sonnambulismo, fra il suo amore delirante per la marchesa Giulia e le angosciose emozioni della borsa, esaurito il conto corrente firmava cambiali ad ogni richiesta di Ferretti, che le barattava coi biglietti doppî e falsi del grande Istituto.

Degli sconti il neo senatore non chiedeva in compenso che l’appoggio del voto nelle leggi di proroga del privilegio di emissione alla sua banca, proroga che avrebbe ritardata per anni ed anni la inevitabile catastrofe.

Garantita, coll’ipoteca voluta dal notajo Invernizzi, la dote di Adele, Giuliano si sentiva più tranquillo. Nella propria rovina non sarebbe stata coinvolta la famiglia sua... Ma alla rovina non poteva credere... Ad ogni disinganno delle liquidazioni disgraziate, rinasceva la speranza nelle liquidazioni future.

Pochi punti di rialzo, rialzo accertato, garantito da Ferretti cogli argomenti più attendibili, rialzo inevitabile, e le perdite sarebbero state riparate con larghi profitti.

Ma la stella di Ferretti si era eclissata, ed ormai, colpito dalla fatalità, tutto ciò ch’egli toccava doveva rovinare.

***

In quella sera la farmacia della Camera era più popolata del consueto; si vociferava d’una interpellanza presentata alla presidenza sulle voci di gravi irregolarità nella gestione degli Istituti d’emissione, tutti [239] egualmente accusati. Le accuse sarebbero state documentate dalle relazioni di un’inchiesta avvenuta qualche anno innanzi. Relazioni soffocate nel silenzio dai diversi ministeri che si erano succeduti, al silenzio interessati.

Le indicazioni vaghe prendevano forme determinate, le vociferazioni incerte ormai si riferivano a fatti precisati... Correvano liste di nomi di deputati, senatori e ministri debitori delle banche per somme ingenti, di commissioni parlamentari corrotte, per l’approvazione di leggi favorevoli all’Istituto Romano, e si facevano nomi.

— È strano, diceva l’onorevole Lastri, come in un’assemblea, nella sua grande maggioranza composta di galantuomini, certi scandali possano verificarsi, possano avvenire abusi mostruosi quali quelli che oggi si denunziano.

— Tutte calunnie, soggiungeva il duca di Sant’Alessio. Gli odî politici le fomentano, la manìa di demolizione... La foja dei partiti d’opposizione di afferrare il potere.

— Sarà, rispondeva un altro deputato; ma in questo caso le accuse si basano su d’un documento officiale, l’inchiesta del defunto senatore Risi.

— E chi l’ha visto il documento? Deve essere falso...

— No, di falso non vi sarebbero che i biglietti della banca.

— Ma è possibile che tanti ministri onesti, chè ammetterai ve ne siano...

— Qualcuno, lo ammetto...

— Ebbene, che tanti uomini di Stato onesti abbiano taciuto per sì lungo tempo, se i fatti fossero veri, se il documento esistesse?

— Onesti per conto loro, lo credo; ma altro è l’onestà del privato, altra l’onestà politico, ripresa Lastri. Buoni [240] padri di famiglia, probi amministratori, eccellenti guardie nazionali, se la guardia nazionale non fosse abolita con uno strappo di pessimo augurio alla intangibilità dello Statuto... L’onestà non c’entra in questo caso. Se il documento esiste realmente, se la sua gravità è quale si afferma, sarebbe un imbarazzo scottante per qualunque governo. Prima la confessione di non aver sorvegliato; poi la necessità di colpire deputati di tutti i partiti: in maggioranza, si capisce, quelli della maggioranza; poi, per alcuni ministri, di rivelare le proprie magagne; poi le ignote conseguenze dello scandalo, che ricadono sempre sul Governo.

«Più che l’onestà, manca il coraggio.

— Sì, ma vi sono ministri compromessi personalmente, scattò a dire un deputato di Estrema Sinistra... Tutti hanno pescato nelle casse della banca per proprio conto o per conto della propria politica. Vedrete che l’interpellanza del deputato Collani andrà a vuoto come l’inchiesta del senatore Risi.

«Si fanno i nomi di una cinquantina di compromessi, un rinforzo di voti pel Governo che non vorrà farne nulla...

— I nomi! Fuori i nomi!...

— Li diremo alla Camera... Lo diranno le liste di sofferenza della banca, se pure potranno parlare.

In quel mentre entrava nel salotto della maldicenza l’onorevole Sicuri.

Fra i convenuti, un mormorìo; poi il silenzio e come un movimento di curiosità.

Si avvide Giuliano d’essere stato causa dell’interruzione delle conversazioni?

Evidentemente era fra i sospettati. Lo sapesse o no, egli presentiva la scandalo e si sentiva perduto.

Pallido come l’eroe romantico di una leggenda tedesca, [241] pareva uscisse da lunga malattia... Un bisbiglio, qualche sorriso maligno, gli fe’ sospettare si parlasse di lui. Gogna insopportabile... Finse di cercare qualcuno o qualche cosa, e in aria distratta traversò rapidamente la farmacia, per recarsi nel salone di scrittura. Lustri lo seguì frettolosamente.

— Che hai, Sicuri? Passi e non saluti. Cosa è avvenuto? Si direbbe che sei malato.

— Infatti, sono indisposto... Non hai veduto Ruggeri? Ho bisogno di lui.

E si lasciò cadere su d’una seggiola in atto di supremo sconforto.

— Ruggeri? È partito stamani per Miralto. Ti ha cercato onde prevenirti. Sarà di ritorno domattina.

— Domattina! Aspettare fino a domani! Ebbene, aspetterò. Ma che è andato a fare a Miralto?

— Non lo so davvero!... Disse per affari, chiamatovi dal notajo...

— Per affari? Quali affari può avere?

— Sicuri, riprese Lastri a bassa voce... Ruggeri ti è amico... Certamente non si tratta di affari suoi; ma de’ tuoi.

«Bisogna riparare subito alle tue follìe, prima che scoppii lo scandalo.

Giuliano arrossì... Sorgendo da sedere stese la mano a Lastri e scrollando il capo, come per dire: «È troppo tardi!» uscì evitando di ripassare dalla farmacia... Non osava sostenere lo sguardo de’ colleghi.

Nelle sue follìe, come le aveva chiamate l’onorevole Lastri, Giuliano non aveva mai pensato alle responsabilità politiche che un giorno gli si sarebbero potute rinfacciare. Aveva bensì intraveduta la propria rovina finanziaria, ma non quella del proprio onore. Colpevole verso la sua famiglia, per le centinaja di mila lire [242] dilapidate, non credeva di avere in alcun modo derogato alla dignità politica di deputato. La dote della moglie era reintegrata per l’ipoteca, le duecentomila lire dovute alla banca le avrebbe quanto prima saldate sul suo patrimonio, o, un’ultima illusione restava, illusione da giocatore, colla ripresa dei valori che già si accentuava, promettente una liquidazione trionfale... Aveva speso del proprio, e del proprio avrebbe pagato.

Quale indegnità politica per ciò? Pure sarebbe stato messo a fascio coi corrotti, coi venditori di voti, coi colpevoli di imbrogli, coi miserabili che avevan fatto della deputazione un lucroso mestiere, della politica una speculazione.

Ritirare le cambiali...

— Ma, ritirate o no, io mi troverò pur sempre nelle liste degli indelicati, degli imbroglioni...

Non avendo trovato Ruggeri, pensò al commendatore Cerasi. A lui avrebbe chiesto il consiglio che non aveva osato domandare all’onorevole Lastri.

Diede ordine al cocchiere di condurlo al Palazzo Braschi, il regno occulto dell’ex sottoprefetto.

Il commendatore era uscito avvertendo, in caso d’urgenza, di chiamarlo per telefono al villino Marcellin, ove avrebbe passata la serata.

— Stasera vi sarà anche Giulia, perchè è venerdì, giorno di ricevimento, mormorò Giuliano.

Il primo pensiero fu di recarsi a casa per indossare la giubba... Vi rinunziò, all’idea che vi sarebbe folla, e forse anche là avrebbe dovuto subire le curiosità maligne, i silenzî ironici, i segni d’intelligenza che aveva creduto provocare al suo ingresso nella farmacia della Camera... Non sentendo il coraggio di rincasare a quell’ora, impaurito dalla solitudine, licenziò la carrozza, e ricordandosi di non aver pranzato, entrò in [243] una trattoria di modesta apparenza, sicuro di non trovarvi persone di conoscenza, nè di essere riconosciuto.

L’ora grigia del ravvedimento forzato era scoccata. Non la temuta bancarotta finanziaria, ma qualche cosa di peggio, la minaccia del fallimento morale e politico.

— Banca d’emissione! Perchè a un deputato non sarà permesso di concludere affari con una banca qualunque, di emissione o no, purchè gli affari suoi siano onesti? All’Istituto Romano ho portato più di mezzo milione del mio, devo somme che posso pagare... e pagherò quanto prima, e dovrò essere messo a fascio coi panamisti, come li chiamava lo Svegliarino stamani! Oh, se avessi ascoltato Ruggeri!

«Ruggeri è partito per Miralto... Per che fare? Forse chiamato da Adele! A Miralto si sa già ogni cosa, e chissà in quali ansie è la povera donna! Maledetto il giorno nefasto in cui Cerasi mi offerse la candidatura; maledetta l’ora nella quale conobbi Ferretti, maledetta la raccomandazione del commendatore per la contessa Marcellin!

Il tavoleggiante stava ritto impalato davanti a Giuliano aspettando gli ordini, e non sapendo come richiamare dalla distrazione lo strano avventore, eccessivamente elegante per quella modesta osteria, gli presentò, ponendogliela sotto al naso, la minuta del giorno.

— Datemi quello che avete di pronto, e del vino, del migliore...

— Deve essere innamorato quel signore, disse il cameriere ad un avventore, mentre si recava in cucina... Parla tra sè come un matto!

Ad un tavolo di faccia, un crocchio di bevitori discutevano ad alta voce gli avvenimenti del giorno. Uno fra di essi, che sembrava avere maggiore autorità, spropositava notizie e commentava un articolo del Parlamentare [244] che, ferocemente ministeriale, si scagliava contro i giornalisti che volevano la luce.

— Tutti ladri! sclamò un secondo, una Camera di affamati. A lasciarli fare, divorerebbero l’Italia in ventiquattro ore...

— Mezza l’hanno già mangiata!

Giuliano istintivamente si abbottonò per nascondere la medaglia di deputato, distintivo del quale era stato tanto superbo e che ora gli sembrava un marchio d’infamia.

— Non si tratta soltanto dell’Istituto Romano; si parla della banca Michelini, la quale distribuiva somme e somme per comprare il silenzio sulla falsificazione dei biglietti... Il più bello si è che i complici venivano comprati col corpo di reato.... Coi biglietti falsi.

— Biglietti falsi! Se fossero falsi si riconoscerebbero.

— Falsi propriamente no. Sono identici agli altri; di falsificato non vi sono che le firme. Come riconoscerli? Quando avevano bisogno di denaro giravano la manovella del torchio e li fabbricavano come se si fosse trattato di stampare dei biglietti da visita. Cento all’ora!

— Finiranno in galera.

— Ma che galera! Se sono tutti d’accordo! Al direttore erigeranno monumenti come per Guttenberg! Se il Senato lo ha respinto, è probabilmente perchè in quel giorno il torchio s’era guastato; lascia che la manovella si rimetta a girare, e te lo faranno anche ministro delle finanze.

L’ingresso nell’osteria di un nuovo venuto fu salutato con un grido unanime di soddisfazione.

— Oh! ecco Cesare, che ci porterà notizie autentiche.

— Che c’è di nuovo nel baraccone?

— C’è del grosso... Burrasca. Nei corridoî e nelle [245] sale non si parla che dell’Istituto Romano... Noi uscieri dobbiamo sempre aver l’aria di non comprendere.

Giuliano aveva riconosciuto il nuovo arrivato; un usciere della Camera infatti; ma questi non l’aveva veduto, nè lo poteva vedere, volgendogli le spalle...

— Si dice che vi sono quaranta deputati accusati... Uno solo per più d’un milione. L’onorevole De Respi è indicato come il più compromesso... I milioni sarebbero parecchî... Lo ricordo. È venuto dieci anni fa alla Camera povero come Giobbe; ora ha ville e villini, tien cavalli e corte bandita... Ci sono anche ministri... Domani l’interpellanza... Chissà che baccano... Il deputato Collani dell’Estrema parlerà. Ha i documenti. Li ho visti in un plico di carte che pesa due chili... Si dice di un altro deputato, un novellino che è alla Camera da soli sei mesi, il quale si sarebbe pappate più di seicentomila lire.

— Bono! Centomila lire al mese. Non c’è male! Una bella lista civile!

Giuliano non resse più. Pagò lo scotto e se n’andò, non senza aver attirata l’attenzione dell’usciere, il quale riconoscendolo allibì.

— Sono perduto! sclamò quando Giuliano rinchiuse dalla strada la porta vetrata... Sono perduto!... L’onorevole Sicuri! Deve aver tutto udito. È di lui che parlavo...

E il poveruomo nella costernazione si picchiava la fronte ripetendo:

— Sono perduto! Sono perduto!

La scena divenne tragica; i bevitori facevan circolo al disgraziato, tentando rassicurarlo: questi, inconsolabile, si scaraventava contro le più terribili imprecazioni.

— Se è fra i colpevoli, avrà ben altro da pensare che a far rapporto contro di te.

[246]

— Io l’avevo preso per pazzo, disse il cameriere; parlava fra sè, proprio come un mentecatto.

— Giuro che non ha sentito nulla.

Giuliano era annichilito da quella scena... Si era riconosciuto nel deputato novellino... La leggenda era a rovescio del vero, fraintesa dall’usciere in farmacia, quando, partito Giuliano, l’onorevole Lastri ne aveva prese le difese.

— Mi pare, aveva detto un deputato all’onorevole Lastri quando questi ritornò in farmacia dopo aver salutato Giuliano; mi pare che il tuo giovine protetto sia annoverato nella lista dei pescatori nel torbido.

— Il conte Sicuri, rispose Lastri ad alta voce per essere inteso da tutti, non ha pescato; ma fu pescato dal più abile accalappiatore di pesci che vi sia mai stato dopo san Pietro.

«Sapete a chi voglio alludere...

— A chi? A chi? chiesero più voci in coro... La curiosità, in quei giorni di sospetti e di accuse, era talmente eccitata, che alla speranza di una nuova rivelazione tutti gli onorevoli radunati in farmacia fecero religioso silenzio, silenzio invano domandato dal campanello del presidente nelle sedute pubbliche della Camera.

— Alludo, riprese Lastri, all’eroe del Romanzo copiato dal vero del nostro collega poeta, il Quevedo y Villegas moderno d’Italia, Lieto Destrieri, la cui Storia sorprendente può fare raffronto all’Historia y vida del gran tacaño llamado Buscon...

— Ferretti! Ferretti! sclamarono dieci voci.

— Per l’appunto! soggiunse Lastri.

«Ebbene, il mio pesciolino, il mio protetto, un provinciale ingenuo, cascò nelle reti del gran tacaño del nostro Quevedo e trovò modo in sei mesi di mangiarsi [247] o di farsi mangiare 600 mila lire, dico lire seicentomila in stampatello, col gusto di vedersi inscritto nelle liste di proscrizione che circolano clandestinamente.

— Non è possibile, saltò su a dire il deputato Boemi, celebre per la onorata miseria, per la onesta parsimonia e per la trascuranza poco pulita ed ancor meno olezzante dell’abbigliamento... Seicentomila lire in sei mesi... Sei patrimonî!

— Alla tua stregua potrebbero essere dodici ed anche più...

L’assemblea rise considerando la barba incolta e la deplorevole toletta dell’interlocutore. Rise anch’egli pensando che infatti il dodicesimo di quella somma, per lui, avrebbe rappresentato l’opulenza.

— A Roma non vi è nulla di impossibile, caro Boemi. Il duca di Piombo, cascato in mano del banchiere Michelini, trovò modo di perdere sei milioni oro sonante in un giorno solo, e lo zampino di Ferretti c’era... Ove non c’è lo zampino di Ferretti? Perfino nei falsi perpetrati per frodare la finanza... Così dice la Storia sorprendente. Così è. E il mio protetto, mezzo rovinato... se si farà la nuova inchiesta parlamentare alle banche, arrischierà di vedersi accusato di corruzione. Così va il mondo.

— È il caso del collega Capolini che è nella lista degli indiziati, avendo accordato per più di trecentomila lire di avalli ai suoi grandi elettori, i quali in omaggio al suffragio universale non trovarono di meglio del mangiarsi vivo il loro eletto, disse un deputato meridionale.

— Il cannibalismo applicato al sistema rappresentativo, riprese Lastri.

«Fatto è che la Camera rappresenta davvero l’intiera società; tutte le gradazioni di intelligenza, di abilità, [248] di furberia, di ingenuità, di ipocrisia, di sincerità, di coraggio di viltà, di avvedutezza, di prudenza, di galantomismo e di marioleria. Sfruttatori o sfruttati anche qui; lupi ed agnelli, come nel Parlamento degli Animali parlanti del Casti. Ma fuori di qui l’atmosfera è ampia ed aerata; noi, invece, in un ambiente ristretto e viziato da pochi, siamo tutti affetti di febbre miasmatica. Malaria! E nei fremiti degli accessi febbrili non abbiamo più la nozione del bene e del male.

«In politica, come nel resto.

«Negli accessi malarici, continuava Lastri, anche i migliori scambiano la Camera per il paese, le istituzioni per la patria, confondono gli uomini coi principî...

«L’opportunismo solo programma politico, i capi partito sola bandiera, il Governo sola meta; tutto, compresa la coscienza, subordinato alla rielezione, tramite necessario alla potenza, alla fortuna, agli onori vagheggiati.

«I più modesti, fra i quali mi imbranco, senza aspirare precisamente ai portafogli, spenti gli ideali che rendevano bella e gloriosa la loro opera di legislatori, rimangono, vogliono rimanere per vanità.

«L’idea di dover rinunziare alla deputazione ci fa allibire... Ritornare spontaneamente semplici cittadini è da pochi; i Silla sono rari come le mosche bianche... E poi, è proprio certo che Silla abbia abdicato per volontà propria?

«La malattia di cui morì mi fa supporre che avesse troppi fastidî in famiglia, per trovar tempo e modo di occuparsi degli affari di Stato.

Le campane di Montecitorio, ritornate dopo il discorso della Corona al loro modesto ufficio cronometrico, annunziarono la mezzanotte. Ora canonica. La farmacia si spopolò, i deputati all’avvertimento dei [249] sereni di bronzo si sparpagliarono, i morigerati per rincasare, i nottambuli per rovesciarsi nel caffè Aragno, ove rifriggere tutte le dicerie ed i pettegolezzi del giorno, cucinati in farmacia, portando messe di notizie, di raccomandazioni, di fervorini e réclames ai corrispondenti telegrafici in agguato.

Quella sera i fili elettrici erano ingombrati di particolari della prossima interpellanza bancaria, di iniziali di deputati compromessi o sospettati.

Il monogramma G. S. era già stato segnalato a Miralto, ove lo si commentava con indignazione.

[250]

CAPITOLO XVIII. I due voti di Stella.

Solo chi fu colpito dai più grandi dolori morali può farsi idea della terribile notte passata da Giuliano.

Rincasando un nuovo colpo l’aspettava. Non avrebbe dovuto essere impreveduto; ma nel disordine della mente agitata, nelle emozioni divoranti, aveva perduto la nozione del tempo.

Sul suo scrittojo un modulo a stampa, riempito a mano dall’impiegato dell’Istituto Romano, lo preavvisava della scadenza di diversi effetti per la somma di settantacinquemila lire.

Bisognava dunque pagare o rinnovare.

Per procurarsi la somma gli sarebbero occorsi parecchî giorni. Rinnovare! Come rinnovare le cambiali nello stesso giorno nel quale si doveva svolgere alla Camera l’interpellanza Collani contro gli uomini politici che all’Istituto Romano avevano attinto, o col quale avevano affari? Sarebbe stato ribadire la propria compromissione, firmare la propria condanna.

— Perduto senza remissione... mormorò. Non c’è via di scampo! Disonorato!

Le notti romane sono brevi nel tepente mese di giugno. Quattro ore dopo, i primi bagliori illuminavano la camera da letto di Giuliano, contrastando sinistramente colle fiamme rossiccie delle candele quasi intieramente consunte. L’alba radiosa è conforto ai disgraziati afflitti d’insonnia; l’alba confortatrice per tutti, [251] per lui, come per il condannato a morte, sorgerà annunziatrice del supplizio.

Le finestre dell’appartamento di Giuliano prospettavano sulla Piazza Termini, la vista spaziava fino alla stazione. Panorama variato e ridente in un mattino estivo.

Il giardino pubblico, tutto fiori e profumi, contrasto alle nere rovine delle terme di Diocleziano, i viali verdeggianti, gli chalets, caffè rumorosi la notte, ma in quell’ora mattutina silenziosi come tombe; il biancheggiare delle costruzioni moderne, l’azzurro del cielo, la perenne colonna d’acqua della fontana di Termini, soffiante come getto della respirazione affannosa di enorme cetaceo, il pulvischio acqueo iridescente ai primi saluti luminosi del sole presentavano una scena forse un po’ teatrale per le inverisimiglianze edilizie, sì frequenti in questa strana Roma tutta anacronismi architettonici e contrasti fra il vecchio e il nuovo, fra il grandioso ed il meschino, fra il sontuoso ed il lurido; una scena teatrale, ma superba.

Giuliano, arso dalla febbre, si affacciò per respirare la fredda brezza confortatrice...

Uno strillone passava gridando alle vie deserte ed alle case addormentate l’Ordine e lo Svegliarino e annunziava le notizie. «L’assassinio di questa notte al ponte di Ripetta. — Le coltellate di via dei Serpenti. — L’orribile fatto a Prati di Castello. — L’interpellanza Colanni, nomi e cognomi dei deputati compromessi nelle ladrerie dell’Istituto Romano.»

— Nomi e cognomi! Vi sarà anche il mio!

Si ritrasse come se avesse temuto di essere riconosciuto dallo strillone, che andava distribuendo numeri dello Svegliarino ai cocchieri assonnati, di stazione sulla piazza.

[252]

— A chi rivolgersi? pensava Giuliano disperandosi, per far fronte alle scadenze d’oggi?

Egli, all’infuori di Ruggeri e di Lastri, non aveva amici. Se, almeno, avesse potuto vedere la sera innanzi il commendatore Cerasi! Gli avrebbe dato consiglio... Nè Ruggeri nè Lastri sono ricchi... Poi Ettore è a Miralto...

— Scriverò al direttore dell’Istituto di sospendere gli atti per pochi giorni... Ma se l’inchiesta sarà votata, a che gioverà? Non vi è che Ferretti il quale mi possa salvare... Ferretti! Si parla di un imminente mandato di cattura contro di lui... Avere nuovi rapporti con quel miserabile, causa di ogni mia sciagura?... D’altronde, rapporti ne devo avere per forza... La liquidazione di domani!... Almeno, come si annunziava jeri, fosse favorevole!... Troncherei ogni operazione... i corsi... vediamo i corsi della chiusura di Parigi...

Premette convulsamente il bottone elettrico; dopo qualche minuto di attesa apparve sulla soglia, mezzo svestito, il cameriere.

— Presto... scendi! Va a comperare l’Ordine e lo Svegliarino; recali subito.

Il domestico non si moveva...

— Signor padrone, si sente male?

Infatti, Giuliano era irriconoscibile; le sofferenze di quella terribile notte lo avevano sfigurato... pareva invecchiato di vent’anni... Gli abiti scomposti, i capelli arruffati rendevano ancor più evidente la trasformazione.

— Male? Io, no... Sì, un po’... Portami del cognac... una tazza di caffè... E presto, presto, i giornali!

Il domestico uscì. Dalla strada il grido stentoreo dello strillone: «coi nomi e cognomi dei deputati compromessiiii nelle ladrerie dell’Istituto Romanoooo...»

[253]

— E Giulia? Che penserà di me, confuso coi ladri... Disonorato! Non la rivedrò più!... Non oserei dirle tutta la verità. Scolparmi sarebbe inutile, essa non mi crederebbe... Disprezzandomi, mi metterà a pari col marito.

«Non rivederla, impossibile... Partire? Dove e come? Le calunnie si aggraverebbero contro di me... Direbbero che sono fuggito non potendo difendere il mio onore... In Francia, Reinach si è ucciso... Passerò anche per vile. Morire! Sarebbe il miglior scioglimento, il più logico... Ma io non so, non oso, mi ripugna morire! Non mi vi sono deciso stanotte, non saprò decidermi mai più... Il tragico scioglimento non salverebbe il mio onore, ch’io devo difendere anche nell’interesse di mio figlio... Oh! Adele, quanto avevi ragione di vestirti a lutto il giorno della mia partenza! Il povero angelo mio divinava l’avvenire... Eravamo tanto felici!

Il domestico col vassojo del caffè recò i giornali.

Giuliano, trepidante, ne scorse le rubriche, i titoli degli articoli... L’interpellanza era la minuta del giorno, articoli, commenti, notizie... Ma i nomi dei deputati non vi erano. Respirò, alquanto sollevato; l’ora della gogna allontanata, sperava... Il listino di Borsa segnava nuovi rialzi, forse una nuova ironia del destino, una nuova illusione; la speranza gli sorrise, ma di un ben pallido sorriso; volle illudersi.... Se Ruggeri arrivasse!

Si affacciò nuovamente. Una giornata radiosa, la natura festante. Nessun più gajo risveglio della città, nessun più ridente mattino! L’allegro brulichìo della vita rinascente: le carrozzelle riprendevano le loro rapide corse allo schioccare delle fruste de’ cocchieri, i carrozzoni del tram si succedevano al suono rauco delle cornette de’ conduttori, ed un affluire di gente affrettata verso la stazione, dalla quale uscivano stridenti i barriti delle locomotive, tutt’intorno un affaccendarsi [254] allegro degli insetti umani, sorvegliati gravemente dal maestoso pizzardone... A frotte i bambini condotti dalle loro governanti s’avviavano al giardino pubblico, spingendo innanzi i cerchî, o carichi di quinterni e di libri movevano un po’ a ritroso alle scuole gesuitiche del palazzo Massimo.

La giornata si annunziava calda, e quiriti e buzzurri eran quindi solleciti a godere la frescura del mattino.

Nella serenità del cielo, nei palpiti giulivi della terra, l’allegrezza umana!...

Dello spettacolo lieto nulla vedeva Giuliano, quasi sonnambulo, appoggiato al davanzale collo sguardo fisso alla stazione.

— Lastri ha detto che Ettore sarebbe di ritorno stamani... Il diretto deve arrivare a momenti!

Ed egli era là intento, come il naufrago dallo scoglio, frugando l’orizzonte, nell’attesa ansiosa della vela salvatrice.

Dalla stazione un via vai di vetture, ma nessuna si arrestava all’abitazione di Giuliano, e nella strada i venditori di giornali ad urlare l’interpellanza contro le ladrerie dell’Istituto Romano.

Rientrò... la luce gli offendeva la vista; chiuse le imposte, e affranto si gettò su d’un divano cadendo in sopore febbrile...

Le fiamme rossiccie delle candele ardevano rischiarando appena il disordine di quella camera; la si sarebbe creduta il teatro di un delitto. Giuliano, bocconi sul divano, col capo nascosto fra i cuscini, la vittima.

***

Ruggeri era ritornato da Miralto, ove era accorso per salvare l’amico, e dove un triste dramma l’attendeva.

[255]

Ettore, dopo il convegno mancato, disperando ricondurre alla ragione il giovine amico, lo evitava anzichè ricercarlo.

Lo evitava riprendendo le antiche abitudini di esistenza misantropica, di fantasticherie solitarie, interrotte alla venuta di Giuliano, cui erasi proposto mentore e guida nel pandemonio parlamentare.

Aveva ripreso le passeggiate notturne, le mattutine visite alla stazione, più puntuale degli stessi impiegati di servizio, che s’eran congratulati del suo ritorno fra loro.

Lo chiamavano l’onorevole Ferroviomane, ed avevano creata la leggenda che, abbandonato dall’amante, nell’attesa dell’infedele, ogni giorno andasse ad incontrarla.

Ettore sapeva e lasciava credere, poco importandogli i commenti suscitati dalle sue abitudini bizzarre.

Cessate le distrazioni, se non le preoccupazioni, procurategli dalla venuta dell’amico, era nuovamente piombato nella malinconia del suo pazzo amore senza speranza...

Ma, un mattino, con sorpresa, gli impiegati della stazione non videro il ferroviomane...

— Sarà malato.

— Sarà ritornata la bella.

— In diligenza forse... Perchè ancor jeri ha aspettato inutilmente.

La ragione vera, un biglietto del commendatore Cerasi il quale diceva:

«Onorevole signor Ruggeri,

«Avendo gravi comunicazioni da farle riguardanti l’amico comune, le sarò grato se vorrà fissarmi un ritrovo.

[256]

«Se non le sarà troppo grave disturbo, l’aspetterò domattina nel mio ufficio a palazzo Braschi, altrimenti altrove, all’ora ch’ella si compiacerà designare.

«Colla massima stima

«Devotissimo
Cerasi

Ruggeri alle otto antimeridiane del giorno seguente saliva non senza ripugnanza la magnifica scalea del ministero dell’Interno.

Sorprendente opera d’arte quello scalone! Capriccio architettonico, ci si meraviglia come l’architetto di Pio VI, Cosimo Morelli, abbia potuto tradurlo in atto senza il concorso magico di una fata. Fantasia d’artista, meritava destinazione più degna.

Ingombro giorno e notte di poliziotti in divisa, di bravi proteiformi, di spie. Per quello scalone, colle eccellenze del giorno, passano richiedenti d’ogni specie e condizione, senatori, deputati, giornalisti, cavalieri, dame e straccioni. Quante speranze ascendono, quanti disinganni ne discendono! Le coscienze corrotte salgono per toccare il prezzo della prostituzione, coscienze ingenue ne scendono corrotte. Palazzo Braschi è il grande lazzaretto degli appestati politici, che ormai infettano l’Italia intiera. I fondi segreti, le cariche, le croci, i favori d’ogni sorta sono compenso ad ogni sorta di favori. A palazzo Braschi si organizzano le eroicomiche cospirazioni di polizia, che finiscono sempre tragicamente in repressioni cruente, negli scandalosi processi: disonore dei governi, spesso della magistratura.

Palazzo Braschi, guardato dal portiere di sasso, il mutilato Pasquino, è il perno su cui si aggira tutta la corruzione italiana... La sontuosa scalea ne è la cloaca massima.

[257]

Ruggeri aveva varcato vergognoso la soglia... guardandosi d’attorno come liceale contumace che, per la prima volta, passi il limitare di una casa infame... Ma i passanti di quell’ora non sanno di politica...

D’altronde nulla di strano, anche in quell’ora mattutina, la visita di un ex deputato al palazzo di Pio VI; tutti gli interessi politici, anche i più onesti e confessabili, vi mettono capo.

La gogna sono le anticamere del ministro, ove tutta l’insalata sociale ha ritrovo.

Ettore non cercava di ministri, quindi non subì la penitenza delle anticamere ministeriali; fu subito introdotto nell’ufficio del commendatore Cerasi, il nuovo Deus ex machina della pubblica sicurezza.

Il lungo funzionario, ch’era curvo sullo scrittojo, compilando circolari segrete ai mille subalterni, ordigni della gran macchina costituzionale, all’entrare dell’ex deputato si drizzò in tutta la sua inverisimile longitudine, gli si fece incontro e stendendo un braccio semaforico porse la mano al visitatore, per il quale ebbe il suo più cordiale sorriso.

— Mi perdonerà, onorevole Ruggeri, se non venni io da lei. Fu per guadagnar tempo, perchè l’affare di cui devo intrattenerla è della massima urgenza.

Ettore rispose freddamente alle cortesie dell’alto-funzionario ed approfittando dell’invito sedette, in attesa delle preannunziate confidenze. Il commendatore entrò immediatamente in materia:

— Ella sa, signor Ruggeri, quanto io mi sia interessato al nostro povero amico Sicuri... Oggi ho il rimorso di essermi interessato troppo. Forse sarebbe stato miglior consiglio lasciarlo nella sua oscurità a Miralto. Ora il male è fatto, inutili i pentimenti miei e le recriminazioni da parte sua, soggiunse sorridendo il commendatore; [258] il male è fatto! L’onorevole Sicuri è compromesso, bisogna salvarlo!

«La manìa imitatrice degli italiani ha creato lo scandalo dell’Istituto Romano; senza il Panama di Parigi, nessuno si sarebbe preoccupato della nostra banca.

«Si rifriggono cose vecchie e notorie da anni, e si lanciano al pubblico come scoperte recenti. Tutti sapevano, dai ministri in giù, in quali condizioni versasse l’istituto, tutti vi attingevano senza curarsi di conoscere se i biglietti riscossi fossero di doppia o triplice emissione, se fossero autentici o falsi... Senza il Panama, la catastrofe sarebbe venuta, ma col giudizio universale.

«Ora è inevitabile. Per quanto faccia il Governo, onde impedirlo, lo scandalo scoppierà irreparabile.

«Ho qui la nota dei personaggi politici che ebbero affari colla Banca, e dei maggiormente compromessi. Mi fu consegnata, non dagli impiegati dell’Istituto, ma dalla Banca concorrente, la quale esercita attivissimo spionaggio negli uffici dell’istituto rivale.

Sì dicendo, il commendatore s’alzò per cercare sullo scrittojo il documento.

Dopo breve ricerca lesse:

«Deputato Giuliano Sicuri, debitore di lire duecentomila in cambiali non scadute.

«Il suo deposito alla Banca, di lire cinquecentomila, è esaurito. Le cambiali furono presentate allo sconto dal signor Ferretti, direttore dell’Ordine, e portano avalli di impiegati subalterni a quel giornale.»

— Indispensabile ritirare al più presto quegli effetti, soggiunse il commendatore, dopo breve silenzio, nell’attesa vana che Ruggeri parlasse.

«Il conte Giuliano non è in nulla e per nulla colpevole; si è rovinato spendendo del proprio... Ma in questi giorni di sospetti, innocente e vittima, sarebbe messo a [259] fascio cogli altri... Chissà quale clamore susciteranno le rivelazioni... Bisogna intervenire subito.

— Subito! Come? osservò Ettore. La somma è enorme... La povera contessa sarebbe rovinata... Ah commendatore! Cattivo servigio ha reso alla famiglia Sicuri coll’elezione di Giuliano!

— Pur troppo! Dovevo prevederlo!

«Il cuore me lo diceva! La mia teoria non falla... Quegli occhi blu mi avevano messo in sull’avviso. Ma chi poteva prevedere? Io non ero a Roma. Quel furfante di Ferretti, cui bisognò ricorrere per la convalidazione, l’ha divorato, come il gatto un topolino.

«Noti poi che Ferretti non fece nulla presso la giunta delle elezioni... Senza di me l’onorevole Sicuri non sarebbe stato convalidato... Ho dovuto intendermi coll’avvocato del competitore Bertasi, perchè mandasse i reclami degli elettori avversarî non autenticati.

Alla smorfia di Ruggeri per la ingenua confessione del reato, il commendatore soggiunse:

— Buona guerra! Senza strattagemmi non si vincono battaglie.

— Strattagemmi!? replicò Ettore in tono di protesta.

— O Dio! In politica non si va pel sottile. Se gli avversarî avessero potuto fare altrettanto contro di noi, non sarebbero stati trattenuti dagli scrupoli.

— Diceva, dunque? soggiunse Ettore per tagliar corto alle dissertazioni del commendatore.

— Che è urgente togliere di mezzo le cambiali del conte Giuliano.

— Posso tentare; ma, davvero, non so se potrò riuscire... Per mio conto metterò a disposizione il mio piccolo patrimonio, fortunatamente liquido; col notajo Invernizzi vedremo di provvedere al resto... Pure non so se sia doveroso; per salvare quell’imbecille, derubiamo [260] la contessa... Una martire, che, pur sapendo tutto di suo marito, anche la fatale relazione colla marchesa, darà fin l’ultimo spicciolo.

Il commendatore stette pensoso, quasi titubante:

— Ha ragione, signor Ruggeri, lei è un uomo di cuore. Lo sapevo, ed oggi ne ho la prova... Il caso della povera contessa è compassionevole; per altro, non vi è scelta... O prima o poi bisognerebbe ritirarle quelle maledette cambiali; meglio ora che poi, quando non saremmo più in tempo di salvare il nostro deputato.

— Il suo!... protestò Ettore...

— Il mio, sia! Pur troppo... Volevo farne qualche cosa... Almeno un sottosegretario di Stato... Invece ne ho fatto un fallito... Quegli occhî azzurri furono funesti...

«Nè consistenza, nè volontà. Come l’acqua, di cui gli occhi hanno il colore, si lascia scorrere a caso verso la foce che non sa; serpeggia per girare gli ostacoli. Vi opponete? precipita... Sulla china nessuno la ferma; retrocedere, impossibile, impossibile risalire.

«Colla sua elezione ho fatto un buco nell’acqua.

— Peggio! ha scavato un abisso.

«Ha dato un giocattolo pericoloso ad un fanciullo che l’ha spezzato ferendosi a morte.

— Ne convengo. Ed ora concludiamo... Ella spera ottenere la garanzia della contessa? La somma potremmo trovarla anche qui.

— Immischiare la contessa negli avalli alle banche? Mai!... Cercheremo a Miralto... o a Milano.

— Il tempo stringe... L’interpellanza Collani è fissata per martedì, abbiamo soli quattro giorni davanti a noi...

«Il Governo si opporrà all’inchiesta, pure dagli umori della Camera prevedo che sarà in ogni modo [261] votata... Oh, se non ci fosse stato il Panama, sarebbe messa subito a dormire... La mania d’imitazione ci perde. Dio mio, quale scandalo! Ed anche il governo ne sarà travolto.

«Parta, parta presto! Una volta ritirate le cambiali sarà facile provare che l’onorevole Sicuri non ha lucrato, ma si è semplicemente rovinato per eccesso di buona fede... diciamo meglio per minchioneria.

Ruggeri si levò per andarsene, meno prevenuto contro il commendatore, per il quale ebbe una stretta di mano ed un ringraziamento...

Uscendo, mormorò:

— Per poliziotto, non c’è male. È vero che ciò che voleva ottenere l’ha ottenuto... Venire a Roma...

Queste le ragioni del nuovo viaggio di Ruggeri a Miralto.

***

Partito immediatamente, senza aver potuto prevenire Giuliano, la sua prima visita a Miralto fu per il notajo Invernizzi che trovò recisamente contrario a consigliare nuovi sacrificî alla contessa.

— Valeva la pena di averle salvata la dote due mesi fa per riperderla ora?

«Il conte Giuliano è pazzo; se l’onore è in pericolo, peggio per lui... S’abbia il destino che merita.

— Signor dottore... tale pensiero l’ebbi anch’io; una considerazione del commendatore Cerasi mi ha vinto.

«Presto o tardi bisognerà pagare; la contessa si rovinerebbe mille volte piuttosto di lasciare insaldati i debiti del marito. I nostri consigli non sarebbero ascoltati.

Il notajo, sospirando, ne convenne...

— Ebbene, faccia lei, signor Ruggeri... Come cercare [262] i denari? Di liquido non c’è più nulla, duecentomila lire non si trovano mica per le strade, come torsoli di cavolo.

— I miei titoli... si potrebbero dare in pegno...

— Lei vorrebbe?

— E perchè no!

— Sa che gli amici della sua sorta sono rari?

— Mio Dio, se non ci fosse l’amicizia a questo mondo, che ci rimarrebbe, quando cogli anni l’amore se ne fugge?

Il vecchio notajo tossì con ostentazione, quasi avesse voluto insinuare un dubbio e sbirciò stranamente Ettore, scotendo il capo, come per sollevare dubbî sulla credibilità dell’affermazione:

— Amore o no... è un fatto che per la generalità, la migliore e la più sentita amicizia è l’egoismo, l’amicizia per sè medesimi. Ella vuole... Sia! Ma in ogni modo la somma non sarebbe sufficiente; nella migliore ipotesi ci mancherebbe sempre una cinquantina di mila lire.

— Quelle le anticiperà lei, signor dottore.

— Io! sclamò il notajo, facendo un balzo...

— Certamente! soggiunse Ettore... Poi prenderà tutte le garanzie onde assicurare il suo credito; ora non abbiamo tempo da perdere...

— Cinquantamila lire! Fa presto lei... Non sono un soldo...

— Lo so, ed è per questo, ch’io non so chi altri potrebbe in Miralto snocciolarle lì, su l’unghia, all’infuori di lei.

— Già, mi hanno fatto la nomea di milionario... Non dico di essere un disperato; cinquantamila lire sulla mano... da un minuto all’altro?...

— Non dico questo, per domani basta... Oggi mi recherei [263] a Milano per depositare alla Cassa di risparmio i miei titoli, la somma mancante me la darà lei domani. Dopo domani a Roma ritirerò le cambiali e noi diverremo creditori del conte e della contessa per la somma corrispondente. Ella poi stipulerà il contratto in piena forma e noi avremo fatto una buona azione senza il minimo sacrificio, senza il più piccolo rischio.

— Come ci va lei! Ella è proprio del secolo del vapore e del telegrafo... Mi stipula i contratti, senza neppure l’assenso dei contraenti... In affari si deve camminare a piedi di piombo.

— Per carità, signor dottore... Non facciamo teorie... Quale documento più valido delle cambiali del conte? Abbiamo noi bisogno di altri atti notarili?

— Non dico di no... Ma...

— Lasciamo i ma. Ella avrà la compiacenza di darmi quei quattro stracci di titoli miei... Le rilascierò ricevuta in piena regola...

«Mi recherò a Milano stasera, domattina al più tardi sarò di ritorno colla somma, ch’ella completerà. Domani stesso ripartirò per Roma, non senza aver ottenuto l’assenso della contessa... Dopo domani ritirerò le cambiali ed avremo salvato un galantuomo senza perdere un centesimo, senz’altri fastidî e noje...

— Farò com’ella vuole, replicò il notajo, mal rassegnato sospirando profondamente... Le dico in verità però che non mi è mai capitato di trattare affari in tal modo.

Ed a ritroso, di malumore, si alzò dirigendosi alla cassa forte. Un gigantesco mobile medioevale in ferro, tutto catenacci e bulloni, che con gran fracasso di chiavistelli si spalancò cigolando, quasi a protesta, ancor più di mala voglia che non l’aprisse il notajo, il quale dal grosso mazzo di chiavi sceltane una piccina [264] aperse un cassetto interno, ferrato anch’esso come un lanzichenecco. Ne estrasse un grosso pacco tutto coperto di suggelli, colla scritta: «Titoli di proprietà dell’onorevole Ettore Ruggeri.»

Consegnò il plico ad Ettore, dicendogli:

— La nota dei titoli è in doppio, una la conserverò io, l’altra è acclusa coi valori.

— Sta bene... le rilascio ricevuta dell’intiera somma...

— Bisogna che sia in regola; farò stendere la minuta dai miei commessi; ritorni fra un’ora e sarà pronta.

— Fra un’ora? Vuol dunque farmi perdere il treno? Una ricevuta provvisoria... Domani legalizzeremo la definitiva...

Nuovo sospiro del notajo, il quale, vinto, non osò protestare, e facendo segno ad Ettore di sedersi allo scrittojo, scrollando il capo, soggiunse:

— No! no! gli affari non si trattano così.

Quando Ettore ebbe finito di scrivere, lesse e rilesse attentamente la ricevuta:

— Sta bene! Domani la rifaremo...

Ettore respirò...

— Ed ella prepari la somma... Dalle cinquanta alle sessantamila...

— Mi ha fatto promettere, non dubiti...

Quando furono sulla soglia, il burbero legulejo si rabbonì e quasi commosso, serrando la mano ad Ettore gli disse:

— Lei è un cuor d’oro... Fortunati coloro che l’hanno amico... Io posso esserle padre, mi permetta quindi un consiglio... La cinquantina l’ha toccata anche lei. Non sarebbe bene rinunziare a certe fisime, a certe velleità che non sono più de’ suoi anni?

— Che dice? chiese Ettore meravigliato ed impallidendo.

[265]

— Noi notaî siamo come i preti... Il nostro studio è un confessionale; molte confidenze, molti segreti, molti dolori vi fanno capo, chiusi gelosamente nel nostro petto, come i danari e i titoli in quello scrigno di ferro... Non le posso dire di più... In Transilvania una provvida legge vieta il matrimonio fra due persone la cui differenza d’età raggiunga i trent’anni... Noi non l’abbiamo, quella legge, ma dovrebbe essere legge morale, rispettata da tutti.

— Signor Pietro, io non la comprendo... balbettò Ettore, che aveva troppo compreso...

— Via, Ettore... pensaci e mi comprenderai! soggiunse paternamente il notajo, ritornando al tu antico, col quale aveva trattato Ruggeri quand’era fanciullo.

Ettore non insistè e salutando affrettato col pretesto dell’ora, andò alla ferrovia, senza neppur passare dalla contessa, senza chiedere notizie di Stella, che pur stavagli in cuore, assai più delle cambiali di Giuliano.... La rivedrò domani!

Ben triste domani!

Al ritorno da Milano, assestato ogni affare col notajo, Ettore si recò dalla contessa per narrarle lo scopo del viaggio suo e gli espedienti cui si era appigliato per salvare Giuliano.

— La contessa non c’è, gli fu risposto dal domestico... La madre della signorina Stella è aggravata, e da tre giorni la contessa non rientra che per vedere il bimbo e mutarsi d’abiti. Le notti le passa al capezzale della malata.

Ruggeri, fulminato da quella notizia, corse alla casa di Stella... la porta dell’appartamento era spalancata, nessun domestico nell’anticamera in disordine. Retrocedette fin sul limitare per suonare il campanello. Alla chiamata nessuno rispose. Si inoltrò ansioso verso le [266] camere di servizio del noto appartamento; nella cucina trovò i due vecchi domestici in pianto.

— Oh, signor Ruggeri, sclamò l’Antonio, ha fatto bene a venire... Quale disgrazia... È morta stamattina la nostra signora... Passi, la signorina colla contessa sono di là, soggiunse additando; di là a vegliare...

Scotendo il capo in atto di sconforto, si rimise a pregare.

Ettore procedette attraverso l’appartamento; la porta della camera funebre era aperta, chiuse le imposte delle finestre, i ceri ardenti la lasciavano nella penombra.

Ettore, al fioco chiarore dei ceri non distinse che l’eburneo pallore del volto della defunta. Era stesa sul letto coperto di fiori, composta a pace serena, sonno profondo senza sogni.

Ristette dinanzi la solennità paurosa della morte. Abituandosi alla semi oscurità, scorse due suore, bisbiglianti preghiere, ai lati del capezzale; più lontano, adagiata su di una poltrona, la contessa Adele piangente sulla testa bruna di Stella, che singhiozzava inginocchiata a suoi piedi.

— Benvenuto, Ruggeri, mormorò la contessa, scorgendo Ettore ritto sul limitare... È Dio che l’ha mandato!

Al nome di Ruggeri, Stella sorse in piedi e correndo ad incontrarlo, non curando i testimonî:

— Sapevo che saresti venuto, il cuore me lo diceva. Ti aspettavo! Ho promesso alla povera mamma, per non turbare i suoi ultimi istanti... Non sarò tua! Ma, lo giuro nuovamente, qui davanti a lei, che con Dio mi ascolta: non sarò d’altri. Fidanzati nella morte, ci incontreremo nuovamente e la Provvidenza non ci negherà la felicità che ci è vietata su questa terra.

Rompendo in singhiozzi, si gettò fra le braccia di Ettore atterrito.

[267]

Le veglie, le emozioni strazianti dell’agonia materna, lo schianto inenarrabile, infinito, per la perdita della madre adorata, la promessa giurata nell’angoscia, il terrore dell’avvenire nella solitudine, avevano affranta la fibra della fanciulla, che alla nuova emozione non resse più. Le braccia, che convulsamente avevano allacciato il collo dell’amico, si allentarono. Stella si ripiegò su sè stessa; sarebbe stramazzata al suolo se Ettore ed Adele non l’avessero sorretta.

Accorsero le suore... Stella fu portata nella sua cameretta verginale, adagiata sul lettuccio. Priva di sensi, pareva morta... morta anch’essa...

Le suore ed Adele si affaccendavano nelle cure, sciogliendo frettolosamente i ritegni degli abiti, spruzzandole il volto, approssimandole alle narici impallidite una boccetta di sali. Stella non rinveniva e si disperavano nel terrore.

Ettore instupidito era caduto ginocchioni a’ piedi del letto, colla mano inerte di Stella fra le sue, incapace a nulla nel terribile dubbio... Avrebbe urlato nella disperazione, se la voce gli fosse uscita dalla strozza; anch’egli si sentiva morire, soffocato dall’angoscia.

Pallida come cera, ancor più bella, il volto dimagrato dalle sofferenze, sembrava veramente morta... Mai come in quell’ora, perfetta la identità coll’altra, la fidanzata perduta dalla morte rapitagli.

Se l’ansia fosse più lungamente durata, Ruggeri sarebbe impazzito.

Quando Stella diede un primo segno di vita, un grido di gioja gli uscì dal petto...

— È viva! È viva!

La più anziana delle suore, che con pietosa indulgenza erasi commossa allo strazio di Ettore, senza aver [268] diviso i suoi allarmi per un semplice svenimento, gli si avvicinò dicendogli:

— Signore, ora tocca a noi infermiere; la signorina fra poco sarà pienamente ristabilita... È bene lasciarla sola con noi. Non tema! Noi che viviamo fra i dolori e le miserie, assistiamo spesso a simili strazî. I grandi dolori morali sulle fibre delicate producono eguali effetti delle eccessive, intollerabili sofferenze fisiche, la momentanea cessazione della vita. È forse provvidenziale! Momento di sollievo, per chi soffre, nella insensibilità della morte.

Ettore ringraziò collo sguardo la suora pietosa, e, baciata la manina fredda di Stella, che increspò le pallide labbra ad un sorriso, si ritirò mormorandole all’orecchio:

— Stella, ci rivedremo fra poco.

Adele baciò con affetto materno l’amica e seguì Ruggeri.

Anch’essa, Adele, era trasformata; la sua bellezza calma e serena aveva attinto nel dolore una nuova espressione di energia, lo sguardo soavemente dolce brillava come illuminato dalla febbre, più bella nello sdegno maturato nei disinganni e nelle rivolte dell’abbandono.

Nella tristezza solenne e profonda di quella casa visitata dalla morte, Adele aveva accolto il fido amico come angelo confortatore; ma nella riflessione divinò che non il caso lo avea mandato in quell’ora di sventura, qualche nuova follìa del marito, dal cuore in rivolta, ripudiato per l’offeso amore, per la fede tradita, per il nome onorato compromesso.

Adele precedette Ettore in un salotto attiguo alla camera ardente, e fattogli segno di sedersi, gli disse:

— Signor Ruggeri, è Giuliano che lo manda?

[269]

— No, signora... Venni io spontaneamente. Giuliano da molti giorni non l’ho riveduto. Però venni per lui...

— Ancora nuove dilapidazioni?

— No... La conseguenza delle antiche.

Ed Ettore le narrò brevemente della bufera parlamentare che stava per scatenarsi. Delle ultime cambiali di Giuliano, del pericolo di uno scandalo irreparabile, del disonore che l’avrebbe colpito. Narrò le sue intelligenze col notajo Invernizzi, la gita a Milano, soggiungendo che sarebbe ripartito la sera in tempo per ritirare le cambiali prima che l’inchiesta fosse decretata dalla Camera.

Quando ebbe finito, la contessa ringraziò con effusione.

— Il notajo Invernizzi assesterà le questioni di interesse; io non dimenticherò mai ciò che ella ha fatto per noi... Così Stella potesse dimenticare... la simpatia che lei le ha inspirato, soggiunse la contessa arrossendo... La sua povera mamma al letto di morte, con ostinazione inconcepibile in quell’ora suprema, volle la promessa formale dalla figlia che avrebbe rinunziato ad ogni rapporto con lei... signor Ettore. Stella ha giurato! Entrambe siamo infelici; io abbandonata dal padre del mio piccolo Giorgio, essa legata da un giuramento solenne a non essere mai dell’uomo che ama, cui si ritiene avvinta da un voto egualmente indissolubile. Alla sua generosità, signor Ettore, il tranquillare la coscienza allarmata di Stella, restituendole quella libertà ch’essa crede di non avere... Col tempo, chi sa? si cicatrizzano tante ferite! riprese la contessa sospirando...

— Non le ferite mortali! sclamò Ettore.

E dopo un lungo silenzio:

— Stella non è in alcun modo legata a me... Io sono [270] un grande colpevole perchè non avrei dovuto fomentare una passione insensata, per la differenza d’età. A me non rimane che rivarcare l’Oceano, sopprimermi... Sperando nel tempo, non per me che da anni non spero, illudendomi appena qualche volta per rendermi sopportabile la vita.

«L’amicizia per Giuliano, per lei, contessa, l’amore per Stella, un amore pazzo, erano le ragioni della mia esistenza... Ora tutto è spezzato... Domani, quando avrò restituite le cambiali a Giuliano, il mio compito sarà finito... Per lei, contessa, la venerazione come di una santa, ed il voto che il suo Giuliano possa ritornare guarito dalla terribile lezione nel seno della famiglia, amoroso e riamato come un tempo.

— Impossibile! sclamò Adele con energia che Ettore non avrebbe mai supposto in quella soave e mite creatura. Impossibile! Il mio amore offeso, il mio orgoglio calpestato potrebbero perdonare; non perdonerò mai a Giuliano di aver spogliato suo figlio... che ormai è tutto il mio amore, tutto il mio orgoglio. Compio con entusiasmo quest’ultimo sagrificio che lei mi chiede, ma più nulla di comune io posso avere con quel disgraziato, che abbandono al suo nuovo amore, al suo destino senza rimpianto.

«Il notajo Invernizzi, che incaricherò di assestare quest’ultima pendenza, è pure incaricato delle pratiche per la nostra separazione... Tutto è finito! Felice se mi rimarrà la di lei amicizia, signor Ettore, mi dedicherò tutta al mio bambino, a Stella; della quale devo essere pure il conforto e la guida... Questi sette mesi di sofferenze e di umiliazioni mi hanno invecchiata di dieci anni. Sarò una mamma giovane, disse sorridendo melanconicamente, ma assennata.

— Signora Adele, ella spera nel tempo per me e per [271] Stella; lasci ch’io speri nel tempo per lei e per Giuliano...

— Il tempo? Chi sa? Forse... Quando avremo i capelli bianchi... Ella deve partire. L’avrei voluto qui per giovarci in queste ore tristi, nelle quali la sventura si è scatenata con tanta furia contro di noi tutti, ma è bene ch’ella parta; la sua presenza è necessaria a Roma per quel disgraziato...

— E devo dirgli?

— Nulla!

— A quando i funerali?

— Dopo domani. Le permetto di ritornare per la mesta cerimonia... Poi sarà bene non rivedere Stella...

Ettore stette muto...

— Me lo promette?

— L’ho promesso e terrò... Ma non è giusto che la morte invada la vita, che i morenti ci leghino imprescrittibili volontà, e si erigano arbitri dei nostri affetti, delle nostre azioni dalla tomba... È contro natura!

E sorto da sedere passeggiava concitato nel ristretto salotto, rompendo in esclamazioni di protesta:

— No! no! non è giusto!

Adele, sorta anch’essa a corrergli incontro, e prendendogli la mano:

— Per carità, signor Ettore, non bestemmiamo la morte in quest’ora solenne, il cadavere è nella camera attigua... le ultime volontà dei morenti sono sacre.

— Perdoni, contessa... Perdoni! Sono un infelice condannato al supplizio, e non oso, non so strapparmi il cuore dal petto... Stella le dirà il nostro amore... È la seconda volta che la perdo, rapitami dalla morte, ora mi è dalla morte contesa.

Adele credette che fosse impazzito...

— Partirò! Pure come pretendere, contessa, ch’io [272] subisca rassegnato la mia sorte? È tutta una gioventù di lacrime e di rimpianti che oggi, nella sventura stessa che ha colpito Stella, avrebbe trovato compenso nella nostra unione ridicola, forse agli occhî del mondo per la sproporzione degli anni, ma che ci avrebbe egualmente reso felici, perchè nella gioja del presente non avremmo curato l’avvenire...

«Ed invece più assoluta separazione...

«Tra noi si frappone il veto della morta; la nostra unione non sarebbe soltanto ridicola: sacrilega...

Le lacrime dei fanciulli e delle donne commuovono, quelle degli uomini bruciano... Il volto virile e abbronzato di Ettore era rigato di pianto...

— Signor Ruggeri!

— È vero, è vero... Sono un grande fanciullo... Sia, contessa, mi farò animo... Partirò, ritornerò per i funebri... E darò l’arrivederci a Stella in un’altra vita, se pure non è un inganno... Contessa, perdoni... Sarò ragionevole... no, meglio, sarò eroico.

— Così la volevo, disse Adele serrandogli con riconoscenza la mano.

— Ella è un angelo, rispose Ettore, baciando la purissima fronte di quella santa, che non si ritrasse alla casta carezza dell’amico, sorridendo di un sorriso di riconoscenza.

— Andiamo a salutare la povera Stella... Le annunzii il suo prossimo ritorno, e della partenza definitiva non le dica nulla... La saprà anche troppo presto.

[273]

CAPITOLO XIX. L’interpellanza.

La segreteria, gli uffici della Presidenza, i singoli deputati erano in quella mattina assaliti dai richiedenti biglietti per le tribune della Camera... In via della Missione fin dalle prime ore del mattino la folla faceva ressa davanti la porta chiusa dell’ingresso alla tribuna pubblica. Nei pressi di Montecitorio un’animazione insolita per la grande première parlamentare, che il pubblico intitolava Il Panamino italiano.

Nei corridoî e nelle sale di Montecitorio affluenza straordinaria di deputati, un affaccendarsi dei moretti ministeriali, ajutanti di campo del Governo a portare il verbo ai loro colleghi della maggioranza, gli oppositori a gruppi discutevano il piano di battaglia... Il deputato Collani, l’eroe del giorno, asserragliato dagli amici, dispensava le primizie inedite della sua interpellanza... Si facevano nomi di ministri ed ex ministri, di deputati morti e viventi, di funzionarî compromessi, si precisavano cifre di somme attinte alla banca, si susurrava di documenti scandalosi degli onorevoli Tizio, Cajo, Sempronio, di biglietti dolci di dame più o meno politicanti e di biglietti di banca in risposta... di prodezze da una parte, di sfacciate corruzioni dall’altra, i voti non disinteressati, di leggi votate o soltanto proposte a prezzo fisso.

Mai Montecitorio era stato più animato; ai fatti veri [274] si accoppiavano fiabe fantastiche, insinuazioni calunniose... Si assicurava che il Governo si sarebbe opposto all’inchiesta parlamentare, d’altra parte si prevedeva che ormai l’inchiesta sarebbe stata ineluttabile.

Tutte le passioni, tutte le invidiuzze, le rivalità, gli odî sopiti sotto la cenere della cortesia di colleganza, levate le maschere, scoppiavano in accuse formali, in proteste virulente...

La farmacia non funzionava, tutto Montecitorio era farmacia, la maldicenza aveva invaso il palazzo. La malignità aveva buon gioco; bastava aver partecipato ad una commissione parlamentare qualunque, attinente agli interessi, alle riforme bancarie, per essere sospettati... Si studiavano le fisionomie dei colleghi, tentando indovinare il loro grado di compromissione. Un pallore insolito, o una cattiva digestione, un malessere, una preoccupazione qualunque, erano indizî di colpabilità.

— Guarda come è immusonato il deputato Donadio... Che ci sia anche lui?

— Non c’è caso, è due volte milionario. È l’onest’uomo per eccellenza.

— Lo dicono... Ma io la so lunga de’ fatti suoi... D’altronde è un affarista... Negozia di vini. E i vinaî non è per la delicatezza che brillano...

— È produttore; vorresti che se lo bevesse tutto lui?

Ed ogni gruppo aveva la vittima. Gli accusati erano quaranta, i sospettati duecento. Il nome dell’onorevole Sicuri era su tutte le labbra. Non valeva la loquela dell’onorevole Lastri a scolparlo...

— Dite un imbecille, sclamava Lastri, non un indelicato, come chiamò i corrotti l’inchiesta di Firenze per la Regìa... Un imbecille che s’è divorato e lasciato divorare in borsa un patrimonio, non un imbroglione. Un ingenuo caduto nelle panie di Ferretti...

[275]

— Ferretti, la gran canaglia, scattò a dire un deputato dell’Estrema Sinistra, è il Governo; Sicuri brogliava dunque col Governo o colla banca... Un’aggravante di più. D’altronde è stato candidato governativo, riuscito a forza di corruzioni. Finisce come ha cominciato...

Lastri non aveva che rispondere; pur troppo tutte le apparenze erano contro il suo protetto... In quel momento di eccitamenti e di passione, le difese eran fiato al vento.

Ad un tratto nel baraccone in ebullizione circolò una notizia che mise al colmo l’effervescenza della rappresentanza nazionale. L’arresto di Ferretti.

Da prima un senso di incredulità.

L’onnipotente giornalista, la ninfa egeria di tutti i ministri, l’amico intimo del presidente del Consiglio Bellitti, il sostenitore fervente del gabinetto, arrestato! Sembrava impossibile!... Per altro le conferme giungevano da ogni parte, coi più minuti particolari dell’arresto...

Testimonî oculari affermavano aver vista la carrozza scortata dai carabinieri dirigersi verso le carceri di Regina Cœli... Ferretti livido nel fondo del landeau con due delegati ed un capitano dei carabinieri.

La conferma, accolta con un grido universale di soddisfazione, con un «era tempo!» su cento bocche, aveva sparso il terrore fra i compromessi nei brogli bancarî.

Dunque non era vero che il Governo si sarebbe opposto all’inchiesta...

I deputati della maggioranza, ossequenti fino il giorno innanzi al potente giornalista, applaudivano il Governo a quel colpo d’energia...

— A tempo e in tempo! Non si dirà più che il Gabinetto parteggia per i compromessi.

[276]

La causa vera, il pretesto dell’arresto?

Chi diceva di un colossale ricatto tentato contro il governatore dell’Istituto Romano, chi di falsi in atti pubblici, altri assicurava si trattasse di una enorme frode a danno delle finanze pubbliche, perpetrata d’accordo con alcuni funzionarî... Ragioni di tutti i colori e per tutti i gusti, che tutte potevano aver ragione, stante la vastità delle operazioni dolose del direttore dell’Ordine...

— La ragione vera, la dirò io, sclamò il deputato d’Estrema:

Al brontolar della bufera

La ciurma è d’impaccio alla galera.

«Il Governo, impaurito della interpellanza che si svolgerà oggi dal nostro collega Collani, si affretta a liberarsi delle solidarietà compromettenti. Senza il terrore dal quale è invaso, non avrebbe mai osato. Troppe complicità lo legavano al Ferretti... Oggi la Camera, coll’abile colpo, è disarmata.

Al nome di Ferretti si associava quello di Sicuri... Si vociferava di cambiali false, dal deputato Sicuri avallate... Non eravi nulla di vero; tuttavia le cambiali, quantunque autentiche, esistevano, e ciò bastava a confermare la voce.

L’assenza di Giuliano era notata, mentre la maggior parte de’ compromessi, per sviare i sospetti, passeggiavano per i corridoî, mischiandosi ai gruppi ed allo conversazioni, ostentando una sicurezza che non era nei loro cuori, nella speranza che l’inchiesta sarebbe stata respinta, che lo scandalo sarebbe stato seppellito sotto un voto formale della Camera: lottavano di audacia tentando smentire col loro contegno le dicerie.

[277]

***

Ruggeri, giunto al mattino da Miralto, si era affrettato a recarsi al palazzo dell’Istituto Romano; gli ufficî erano ancor chiusi per l’ora mattutina... Anche là una insolita agitazione... L’anticamera del direttore era affollata di personaggi ufficiali, deputati, senatori, giornalisti, banchieri ed uomini d’affari d’ogni stampo e condizione...

Ad uno ad uno, come penitenti al confessionale, entravano nel gabinetto del quasi senatore, del grande finanziere sul cui capo stava per scatenarsi terribile la tempesta, e n’uscivano lieti o rannuvolati, frettolosi tutti, come vergognosi della sfilata davanti al pubblico in attesa, in quell’ora di sospetti, di accuse, di pericoli.

Il sentimento dell’amicizia, in Ruggeri, doveva essere eroico, per essere rimasto nell’anticamera, fra quel pubblico che si osservava a vicenda sospettoso, lusingati gli infimi di trovarsi in tanto alta e rispettabile compagnia.

Il turno suo avrebbe tardato infinitamente, ed il sorriso ironico di un giornalista, troppo assiduo in quell’anticamera per essere intimidito o sentirsi umiliato, decise Ettore di rivolgersi ad un usciere per chiedergli a quale ora si aprissero gli sportelli.

— Perchè, soggiunse a voce alta, io sono venuto non per chiedere, bensì per pagare... Se il governatore è occupato, conducetemi da un altro impiegato.

Comprese il giornalista, che quella era la risposta al di lui sorriso?

Probabilmente no; ma negli assembrati l’insolente distinzione fra postulanti e paganti, sollevò un bisbiglio... [278] Tutti gli sguardi gli furono addosso, e non benevoli.

L’usciere interpellato aveva risposto:

— Quand’è così, venga con me.

Dal canto suo Ettore, pietoso nella tristezza profonda dell’animo, per attenuare l’effetto che le sue parole avevano prodotto, prima di andarsene si rivolse a un gruppo di deputati e di un senatore, per salutarli personalmente.

All’impiegato dal quale fu condotto spiegò la missione.

Ritirare le cambiali dell’onorevole Sicuri.

— La cassa si apre ora; scenda con me agli sportelli.

Con sorpresa Ruggeri seppe che le cambiali in scadenza per lire settantacinquemila erano state ritirate il giorno innanzi. Rimanevano accettazioni per altre lire centoventitremila non ancora scadute.

Ettore pensò che le settantacinquemila lire fossero state versate da Giuliano, e non insistendo per avere spiegazioni, sollecitò l’operazione del ritiro delle rimanenti... Volle assistere alla chiusura di ogni partita, chiedendo per di più una lettera di saldo completo d’ogni pendenza.

Uscendo respirò...

— L’onore è salvo! Alle accuse risponderanno le date e le cifre.

Ettore si ingannava. In quell’ora di sospetti, di recriminazioni, di vendette, non bastava aver saldato i proprî conti coll’Istituto Romano; il fatto solo, per un uomo politico, di aver avuto affari con quello stabilimento d’emissione, sentiva di broglio, diventava reato.

Logica nuova, ma la politica non ha bisogno di logica. I colpevoli trascinavano nella loro caduta a fascio gli innocenti... Al tempo soltanto la giustizia.

[279]

Nelle mani del governatore simoniaco, peculatore e falsario, rimanevano almeno dieci lettere di Giuliano chiedenti sconti, esprimenti simpatia per la causa dell’Istituto, nella lotta che si combatteva sui giornali ed alla Camera in favore e contro quell’Istituto, minacciato di soppressione a favore della banca unica.

Quelle dieci lettere imprudenti, dettate da Ferretti, in mano a Talleyrand sarebbero bastate a far impiccare dieci uomini, anche non politici... A ciò non pensava Ruggeri, mentre andava alla ricerca dell’amico per annunziargli l’esito felice delle sue pratiche.

Gli affari di Giuliano eran stati salutare distrazione al cordoglio che lo straziava. La missione compiuta, ricadde nella malinconia disperata, compagna nel triste viaggio di ritorno da Miralto.

I grandi dolori non si possono simulare, anche dagli uomini più rotti alle lotte della vita. Quando Ettore salì la scalca esterna di Montecitorio, alcuni deputati in crocchio notarono la di lui preoccupazione...

Che anche gli ex ci siano nella nota del senatore Arisi? disse qualcuno.

— Evvia! non è più deputato da dieci anni!

— Che importa? Chi ti dice che le sue sofferenze non datino da quell’epoca?

— Possibile... La faccia di sofferente ce l’ha... Si direbbe che esce da una malattia...

— Malattia bancaria, o cambiaria, come volete. È stato visto un’ora fa nell’anticamera dell’Istituto Romano.

— Chi te l’ha detto?

Il deputato interpellato si morse le labbra... Avrebbe dovuto confessare di avercelo incontrato.

— Lo dicevano or ora... in farmacia.

Ettore frattanto aveva messo in moto gli uscieri alla ricerca di Giuliano... Ricerca inutile...

[280]

— Certamente non ebbe il coraggio di venire alla Camera... Sarà in casa.

Prese una carrozza e si fe’ portare a Piazza Termini...

— Il signor conte deve essere malato, gli disse il domestico... Stamattina all’alba ha chiamato. Il letto era intatto, non si è quindi coricato. Ha ordinato di farla passare subito.

Ettore, entrando nella camera di Giuliano, sentì una stretta al cuore. Il dubbio di una nuova sventura. Aveva bussato replicatamente e non gli era stato risposto; la camera semi buja, appena illuminata dai raggi che entravano per le sconnessure delle imposte e dalla fiamma fioca di una candela quasi intieramente consunta, ultima rimasta nel candelabro... Giuliano steso sul divano...

— Suicidato?!

Corse verso l’amico scotendolo violentemente... Giuliano, svegliandosi, balzò in piedi impaurito, e durò fatica a riconoscere l’amico...

— Ah! sei tu... Grazie di avermi svegliato... Un incubo orribile... Quello di otto mesi fa... Apri, apri le imposte... Sei stato a Miralto? Sei passato da Montecitorio? Che fanno alla Camera? Apri, apri! Ho bisogno di luce!

Il disordine della stanza rivelò ad Ettore le angoscie provate da Giuliano in quella notte. Il letto intatto, gli abiti scomposti, i mobili alla rinfusa, e a terra carte, giornali, le candele consunte, i candelabri fumosi.

— Che hai fatto, Giuliano?

— Non so... Forse il delirio... Mi pare di aver avuto un accesso di febbre... A Miralto? Perchè andasti a Miralto? Ti ho cercato dappertutto...

— Tranquillizzati, i tuoi conti coll’Istituto Romano sono completamente saldati...

[281]

— Saldati!? Come ti sei procurati i denari? chiese Giuliano... È possibile? Non mi inganni? Chi? Chi ha pagato?

— La contessa Adele...

— Lei? Sono un miserabile! E che ti ha detto, la povera Adele?

— Nulla!... Non è il momento di parlare di Miralto... Ti dirò poi... Eccoti le cambiali... La dichiarazione di saldo completo della banca... In caso che il tuo nome venga pronunciato, le presenterai al presidente della Camera... Ed ora, rassettati, fa un po’ di toilette, che hai l’aria di uno spiritato, e va alla Camera... Al tuo posto! Colla testa alta... Se hai ragioni di arrossire, gli è con noi, non di fronte ai tuoi colleghi... Se lo stomaco ti dice, fa un briciolo di colazione. Poi occupa il tuo posto fra i primi. Hai due ore di tempo; la seduta si aprirà alle due.

Al miracolo fatto da Ruggeri, sì in buon punto intromessosi ne’ suoi affari, Giuliano ebbe una lacrima di riconoscenza e di rimorso insieme per la famiglia; dalla disperazione era passato alla gioja... Piangeva e rideva insieme.

— Salvato!

Intanto passava le cambiali numerandole come per accertarsi della verità alla quale non sapeva credere. Gli sembrava di sognare...

Ad un tratto ricadde nell’abbattimento; mandò un grido di sorpresa dolorosa...

— Ettore, non abbiamo fatto nulla! Mancano le cambiali scadute oggi!

— Quali? Non le hai ritirate tu? Qui c’è il saldo completo!

— Sei stato mistificato; non ho ritirato nulla!

— Eppure, le settantacinquemila lire furono pagate.

[282]

— Da chi? Da chi mai, se non da te? Per carità, corri alla banca a chiarire l’equivoco. Tutti i sacrifici di Adele sarebbero inutili. Settantacinquemila lire, capisci! Eccoti il biglietto di preavviso...

— Non turbarti; se c’è errore, ho la somma occorrente... Pure ti assicuro che alla banca le tue cambiali non vi sono più...

— Chi mai?...

Lasciandosi cadere su d’una seggiola stette pensoso.

— Oh!... sclamò. Quale umiliazione! Giulia! non può essere stata che lei... Essa ne sapeva qualche cosa; me ne parlò, io negai recisamente. Giulia! Ettore, Ettore, è troppo!

Ruggeri non disse parola. Non poteva essere altrimenti, ed osservava con pietà mista a disprezzo l’amico, le cui avventatezze dovevano essere riparate da due donne: la sposa tradita e l’amante milionaria.

Finalmente Ruggeri riprese:

— È troppo davvero! Credevo che da Ferretti, dal tuo Ferretti arrestato stamattina, da vile malfattore qual è, non si potesse scendere più in basso... Non mancava che le amanti tue pagassero i tuoi debiti.

«Giuliano, di’ la verità, devi altre somme alla marchesa?

— No, te lo giuro!...

— Ebbene eccoti le settantacinquemila lire; erano destinate alla banca, le porterai invece alla signora... La quale avrebbe dovuto comprendere che meglio era lasciarti in balìa all’inchiesta parlamentare, che disonorarti co’ suoi soccorsi.

— Non dire così... È una prova sublime di abnegazione e di affetto...

— Come vorrai! replicò indispettito Ruggeri, contando i biglietti di banca. Prendi la somma, corri dalla [283] marchesa e portami le cambiali; ti aspetto qui. Purchè nulla sia trapelato del suo concorso... Si direbbe e... e si stamperebbe in tutta Italia che il deputato conte Giuliano Sicuri paga i debiti e le differenze di borsa coi denari delle donne innamorate de’ suoi begli occhî... De’ suoi begli occhi blu, soggiunse, ripensando alla teoria oculistica del commendatore Cerasi.

Giuliano nella gioja di sentirsi salvo, quantunque ferito nell’amor proprio per l’indubitato intervento di Giulia, era raggiante alla nuova prova d’amore.

Se avesse osato, avrebbe protestato contro Ruggeri. D’altronde, pensava: — Che c’è di male? Se non avessi potuto rimborsarla sarebbe stato altro affare... E poi, a mia insaputa; io non sono menomamente imputabile... Buona Giulia! Mentre io mi disperavo, essa accorreva tacitamente in soccorso mio... Senza neppur prevenirmi per delicatezza.

Frattanto si rassettava frettolosamente. Scampato al pericolo, al pericolo passato non pensava, divorato dall’impazienza di rivedere Giulia, di ringraziarla, di effondere ne’ caldi baci la riconoscenza traboccante.

— Poveretta, jersera mi avrà inutilmente aspettato...

Una nube ripassò sulla fronte rasserenata.

— Ferretti arrestato! E la liquidazione di domani? Dovrò nuovamente ricorrere ad Ettore... A lui che mi fa sì pesantemente sentire il suo appoggio, i suoi favori. Meno male! Domani si tratterà di riscuotere, non di pagare...

Ettore, mentre Giuliano stava vestendosi, indovinando gli intimi pensieri dell’amico, si sdegnava...

— Ha ragione il commendatore; l’acqua non risale alla sorgente. Sul pendìo precipita... È finita! Compirò il mio dovere, e poi l’abbandonerò al destino.

Allorchè Giuliano stava per uscire:

[284]

— Ti raccomando di far presto. Ritorna colle cambiali... Fra un’ora devi essere alla Camera... Sollecita!

Nella fretta, Giuliano usciva senza salutare... Sul limitare ristette pentito; ritornò ad Ettore:

— Come ringraziarti di tutto ciò che hai fatto per me?

— Non ringraziarmi... Va, e ritorna presto. Io sono sulle spine per quelle tue cambiali, più che se fossero in mano del notajo per il protesto.

— Buon Ettore!

E giulivo abbracciò l’amico in un impeto riconoscente...

— Fra venti minuti sarò di ritorno... non temere, non tarderò.

Nell’uscire il suo sguardo cadde su di un vaso riboccante di fiori sciolti; ne tolse un garofano rosso, se lo mise all’occhiello dell’abito e sparì correndo, mandando ancora un saluto ad Ettore, che, rimasto solo, ritornò al suo pensiero dominante, a Stella. La distrazione cessata, il dolore riprendeva il suo impero.

L’eleganza di quella camera da letto, quantunque nel massimo disordine, rivelava la mano intelligente ed affettuosa della donna, i mille ninnoli rovinosi e inutili, sparsi sui mobili, regalucci da innamorati, e fiori... Fiori smaglianti e profumati agonizzavano nei vasi giapponesi, fiori avvizziti, appuntati a mazzolini cogli spilli al grande arazzo della parete, contro la quale poggiava il letto di Giuliano, eran tutto un calendario di giorni felici.

— Giuliano rientra la notte e non getta il fiore donatogli, lo appunta alla parete, pensava malinconicamente Ruggeri.

Le cento fotografie della marchesa Giulia in cento abbigliamenti diversi... I cuscinetti da spilli ricamati, la disposizione del sontuoso mobilio, i paralumi colorati, [285] capilavori di modista, dai nastri sapientemente intrecciati dalla mano della marchesa, rappresentata stupendamente in costume di Mignon, nel solo quadro ad olio. Deliziosa Mignon, pittura del Verni, il celebre autore della Maddalena ribelle.

Tutto sentiva l’amore, l’amore trionfante, felice, in quella camera dall’acre sentore di sandalo, che si espandeva inebbriante dal soffice tappeto orientale.

Come un senso di invidia morse Ettore al cuore...

— Egli ama riamato e felice! Felice anche nel delitto, ch’è delitto l’abbandono della famiglia; felice nella vergogna per le sue colpe... Riamato e felice!... A me l’amore nella disperazione. A che giova la mia virtù?

«Ho anticipata la vecchiaja in un’esistenza da cenobita, casto contro natura, per serbare fede ad una fanciulla che non sarà mai mia e forse non mi ama e, nell’illusione di amarmi, sacrifica in sterile celibato la sua fiorente giovinezza, allucinata, la martire, dalle bugiarde visioni di una vita precedente, visioni ch’io le feci balenare ed essa credette realtà nei mistici entusiasmi giovanili...

«Forse non mi ama; si appassiona soltanto al mio romanzo, che ormai è il suo, eroina fantastica, risorta per riamarmi.

«Amore inverisimile, il quale spezza due esistenze, condanna per la vita due esseri al dolore.

«Che importa la virtù?

«Giuliano, venuto meno a tutti i doveri, appena salvato dal disonore, lo rivedo raggiante di gioja per una nuova prova d’amore che, accettata, sarebbe l’infamia... e nell’incredibile egoismo di amante non ha un pensiero per la povera abbandonata, che per lui si immiserisce col figlio.

[286]

«Tutto ciò è infame; ma egli non se ne avvede, non si ravvede, ed è felice.

Con invida curiosità, Ettore esaminava minutamente ogni oggetto, il monogramma di Giuliano, ricamato in cento maniere... Un serico cuscino portava una data soltanto...

— Certamente quella del loro primo incontro...

Due figurine di Sassonia, abbracciate, rappresentanti forse Fausto e l’Elena greca della leggenda; sullo zoccolo di bronzo, a caratteri d’oro, in rilievo, eravi la scritta: «Oggi e sempre!... anche all’Inferno!» Sfida terribile di Giulia alla sua fede... Più forte l’amore della religione... Religione l’amore per Giuliano, nella giovine donna innamorata!

Un cofanetto in legno di sandalo, lavoro paziente, sorprendente, di artista arabo, lasciato aperto da Giuliano, era colmo di lettere... Lo rinchiuse, Ettore, girando la chiave d’oro a doppia mandata, quasi per vincere la tentazione di frugare in quel cofano misterioso, nel quale erano custodite le espansioni innamorate della marchesa...

Un lungo sospiro...

— Per Giuliano è finita! Il ravvedimento impossibile; un’anima debole come la sua non ritorna da un simile amore.

Snervato da quelle indagini, offeso da tanta felicità, insulto per lui in quei giorni desolati, premette il bottone elettrico ed al cameriere che si era presentato sul limitare della porta:

— Il conte è uscito... Potete rassettare la sua camera da letto; l’attenderò in salotto.

La stessa cosa. Anche là, l’acre profumo orientale, anche là la presenza di Giulia in ogni oggetto... Anche là per lui la inseparabile ombra di Stella, per sempre [287] perduta, più spasmodico il pensiero della propria miseria, innanzi alle prove di tanta felicità.

Quando Giuliano fu di ritorno, la serenità giuliva dell’amico lo irritò...

— Le cambiali? gli chiese rudemente.

— Eccole... Le aveva ritirate, per incarico della marchesa, il commendatore Cerasi... Passai a palazzo Braschi a riprenderle...

— Sta bene! Ora vattene alla Camera, vacci a testa alta... Per oggi il tuo onore è salvo; non contare mai più su di me. Che Dio, il destino, ti ajutino... Il mio còmpito di bambinaja è finito!

Giuliano rimase atterrito al brutale congedo. Nell’egoismo di fanciullo viziato, egli non aveva mai pensato che l’appoggio di Ruggeri gli potesse mancare, del quale, specialmente in quell’ora, sentiva l’assoluta necessità.

Fissò in volto l’amico, collo sguardo cerulo, del color del mare, direbbe il poeta, sguardo attonito e impaurito, come quello di un piccolo eroe de’ racconti di fate, minacciato dell’abbandono della provvida guida in oscura, paurosa foresta...

— Ettore, mi abbandoneresti, ora che ho maggior bisogno di te?

— E che posso io fare? Non eri tu jeri lo sposo ed il padre più felice; non sei tu oggi l’amante più fortunato? Avevi un patrimonio pazientemente ammassato da tuo padre. L’hai in pochi mesi dilapidato...

«Che vuoi ch’io faccia? Il tuo onore era compromesso, ho tentato salvarlo, spero esservi riuscito. Ora a te. Hai appena trent’anni... Quindi, se saprai, se vorrai, l’avvenire può essere tuo.

«Io partirò presto... Domani a Miralto per i funebri della madre di Stella... Poi riprenderò la rotta pel [288] capo Horn; presso le coste cilene, nell’immenso Pacifico, vi è un’isola che si chiama della Desolazione: quella la mia terra di deportazione.

— Morta la madre di Stella! E non mi hai detto nulla?

— Che dirti? Ti interessi tu a qualche cosa nel tuo egoismo?

Giuliano stette pensoso, umiliato, non potendo in alcun modo scolparsi...

— È vero... Ancora un favore ti debbo chiedere, poi farò ciò che vorrai.

«Ferretti è stato arrestato e domani è giorno di liquidazione in borsa, la seconda profittevole fra tante disastrose. Io non mi intendo di borsa; vorrei almeno che prima di partire tu andassi dal mio agente di cambio, per vedere come sono gli affari miei, per liquidare ogni partita. Ho giurato di non tornarci più... Questo ultimo favore non me lo puoi negare. Dopo domani, quando sarai di ritorno...

— Se non è che questo, soggiunse interrompendolo, Ettore, con un amaro sorriso, ti servirò, quantunque di borsa dovrei intendermene meno io che non ci ho mai perduto un centesimo...

«Ed ora andiamo alla Camera!

[289]

CAPITOLO XX. La bufera.

La discussione dell’interpellanza bancaria si protrasse tre giorni, fra i tumulti di un’assemblea sovraeccitata al parossismo. Alle passioni politiche di partito si aggiungevano interessi personali, di attacco, di difesa.

Vendette elettorali, rivincite, sfide latenti per inveterate inimicizie; antipatie in lotta, rappresaglie di abbandoni, di diserzioni e tradimenti.

Ed ancor più appassionante la manìa dello scandalo, malattia inguaribile, ereditata colla condanna ai lavori forzati ed a morire, dai nostri genitori per il primo fallo di Eva.

Le passioni che agitavano la Camera si erano propagate sui fili telegrafici per l’Italia intiera. I giornali non si occupavano d’altro, riboccanti di particolari sulle sedute parlamentari, di rivelazioni, di accuse.

Il sentimento di moralità di un popolo intiero era in rivolta; la curiosità, curiosità febbrile, si associava allo sdegno.

— I nomi! I nomi dei concussionarî! si gridava da ogni parte... I colpevoli alla berlina!

Il Governo, sostenuto da una maggioranza formidabile, si opponeva recisamente alla domanda di una inchiesta parlamentare; ma l’opinione pubblica lo travolgeva. [290] La difesa era ostinata, pure ad ogni attacco dell’opposizione perdeva terreno. Tutte le arti di seduzione, tutti gli strattagemmi parlamentari furono esauriti. Dovunque si voleva la luce... I fogli degli scribi stipendiati, l’Ordine dell’onesto Ferretti, il Parlamentare del gentiluomo Mosaici, in testa, invano proclamavano carità di patria, nell’intento di sopire lo scandalo, onde salvare all’estero l’onor nazionale, quasi che potesse essere compromesso da pochi individui, qualunque sia la loro posizione sociale e politica.

Asserragliato nell’ultimo riparo, il presidente del Consiglio capitolò, promettendo un’inchiesta governativa. La maggioranza l’accettò.

Il Governo sperava, sottraendosi al controllo parlamentare, assopire fatti inoppugnabili compromettenti tutti i poteri dello Stato; ma alle prime indagini dell’inchiesta, le risultanze apparvero talmente enormi, che l’intervento dell’autorità giudiziaria fu inevitabile.

Il minuto del terrore!... Un direttore di banca fu arrestato per l’appropriazione indebita di due milioni, dei quali non sapeva render conto... La voce si propagò di incredibili brogli all’Istituto Romano per più di trenta milioni di lire. Tutte le voci le più pessimiste si avveravano. L’opposizione trionfava.

Un mattino, Roma, attonita, vide sfilare per le sue vie un lungo corteo di carrozze, guardate da un nugolo di guardie e carabinieri, dirette alle carceri di oltre Tevere... a Regina Cœli... Direttore, cassiere, alcuni impiegati, perfino l’elegante banchiere Michelini, alcuni funzionari dello Stato componevano il triste convoglio... E la folla crudele ad insultare gli arrestati, in attesa del turno dei ministri, dei senatori, dei deputati ritenuti complici.

L’ora pareva vicina... Nelle carte degli arrestati compromissioni [291] insospettabili. Correva voce di domande del procuratore generale alla Camera per autorizzazione a procedere contro alcuni deputati; affermavasi che il Senato stava costituendosi in Alta Corte di giustizia, per giudicare alcuni de’ suoi membri accusati.

La febbre dello scandalo, della pubblica curiosità, al delirio.

Dai banchi della Camera partivano accuse e denunzie formali, ed i gabinetti dei giudici istruttori si erano trasformati in bocca di leone, ufficî di informazioni, vere e false, per la stampa assetata di notizie. Ogni reporter faceva bottino di nomi e di documenti onde metterli a disposizione del proprio giornale, il quale, a seconda del partito politico, delle sue attinenze e delle influenze, ne usava a proposito ed a sproposito. Miscela di verità e di calunnie, di esagerazioni e di pietose o interessate soppressioni. La confusione degli innocenti ai colpevoli giovava al Governo, che frattanto sopprimeva nomi, sottraeva documenti, a beneficio de’ suoi, o per ricattare gli avversari più temibili, col silenzio momentaneo, forte della minaccia di rivelazioni successive...

Giuliano, il quale, assestati i suoi affari coll’Istituto Romano, munito della dichiarazione del saldo completo d’ogni suo conto col detto Istituto, si credeva ormai al sicuro da ogni accusa, vedeva invece ogni giorno il proprio nome correre su per i giornali, con quelli dei più compromessi fra i malfattori politici.

Nelle liste, astutamente divulgate dai magistrati, il suo nome compariva pur sempre fra i debitori... Una sua dichiarazione formale, stampata sull’Ordine e sul Parlamentare, non servì. Ormai lo si accusava di aver offerti servigi politici al direttore dell’Istituto, e lo si additava come uno fra quelli contro cui l’autorità giudiziaria avrebbe proceduto.

[292]

Giorni terribili quelli, di umiliazioni, di agitazioni, di terrori...

Ruggeri nell’ora triste era ritornato, e Lastri non abbandonava il giovane amico.

Ma, pur troppo, l’autorità giudiziaria nelle lettere di pura cortesia dell’on. Sicuri si ostinava a trovare un reato... L’intervento dell’onorevole Lastri non aveva servito... Le vittime si volevano, per poter salvare i rei influenti, altolocati, potenti... L’opinione pubblica era assetata di riparazioni, di soddisfazioni... Nel 93 la ghigliottina, ora la morte civile.

La marchesa Giulia, vera eroina, per salvare l’amante aveva messo in gioco tutte le influenze della contessa Marcellin, non risparmiandosi per proprio conto.

Avvocato difensore irresistibile per la bellezza affascinante, il casato illustre, le ricchezze, era corsa per tutti i ministeri, aveva perorato presso tutti gli alti magistrati, aveva bussato a tutte le porte di personaggi politici, non chiedendo grazia, invocando giustizia.

Giuliano, incapace alla lotta, si era ripiegato su sè stesso, chiudendo gli occhî, come i bambini per non veder la folgore, turandosi gli orecchî, impaurito dal fragore del tuono.

Spinto alla Camera dalla volontà di Ruggeri, alla quale non sapeva resistere, sotto la rispettata protezione dell’onorevole Lastri, occupava ogni giorno il proprio banco di deputato, nell’atteggiamento di colpevole piuttosto che di innocente.

In quel mattino correva voce che alla presidenza fossero giunte le domande a procedere contro alcuni deputati.

Giuliano, pallido come cadavere, stava assiso al suo banco, straziato dal dubbio d’essere compreso fra gli [293] accusati... Gli sembrava che tutti gli sguardi fossero rivolti su di lui. Per nascondere il proprio turbamento fingeva scrivere, ma in realtà non tracciava che parole senza senso... Non udì una sillaba della lettura del verbale, gli pareva sognare... il sogno tormentoso della notte del suo primo viaggio di deputato da Miralto, la stessa visione, le risa ed i cachinni dei colleghi, che lo beffeggiavano, la stessa apparizione; là in alto, come in una nube, Adele e il suo bimbo!...

La carta su cui la mano inconsciente tracciava i caratteri era bagnata di lacrime...

L’onorevole Boemi, brav’uomo, vicino di banco a Giuliano... a susurrargli all’orecchio:

— Coraggio, Sicuri... Tutti ti rendono giustizia... Via! Sii uomo!

Giuliano, richiamato alla realtà, si asciugò frettolosamente gli occhi, serrando riconoscente la mano al collega...

Un silenzio di tomba s’era fatto nell’aula affollata... I deputati, scesi nell’emiciclo, all’invito del presidente ritornavano ai loro posti, compresi della gravità della situazione sentendo tutta l’importanza delle comunicazioni preannunziate.

Le tribune erano gremite. Pure sarebbesi detto che gli spettatori rattenessero il respiro per meglio udire, tant’era il silenzio.

Spettacolo imponente, solenne, emozionante quanto quello di una degradazione militare.

Un colpo di campanello, ed il presidente annunziò essergli pervenuta, inviata dall’autorità giudiziaria, la domanda di autorizzazione a procedere contro un deputato.

La comunicazione era aspettata, pure un bisbiglio si sollevò dall’assemblea, bisbiglio subito represso dagli [294] zittìi universali e da un rintocco del campanello. Udite! Udite!

Per nessuna catastrofe di dramma, a nessuna Corte d’Assise, nell’imminenza del verdetto, l’ansiosa aspettazione del pubblico fu maggiormente tesa.

La lettera del procuratore del re al presidente della Camera particolareggiava minutamente le prime indagini della giustizia dopo l’arresto degli imputati appartenenti all’Istituto Romano e complici. Dalle deposizioni degli accusati, dai documenti sequestrati appariva che ingenti somme di danaro furono spese dall’Istituto nell’intento di ottenere l’approvazione della «legge per la proroga del privilegio della emissione dei biglietti di banca», legge dal Parlamento votata infatti.

Giuliano, ricordando di aver appunto scritto qualche cosa in proposito al direttore dell’Istituto, non dubitava più di essere compreso fra gli accusati; si sentiva morire, avrebbe voluto essere cento metri sotterra.

Nella tensione d’animo in cui si trovava, tanto apparsagli chiara la propria compromissione, sarebbe svenuto, se, in quel mentre, un usciere non gli avesse recato una lettera dai noti caratteri... L’aperse e, con difficoltà per la vista ottenebrata, potè decifrare:

«Giuliano,

«Ritorno ora dall’ufficio del procuratore generale. Nessuna accusa contro di te.

«L’inchiesta trovò regolarissimi i tuoi conti... Le tue lettere inconcludenti... Salvo! Ed io, nella felice certezza, ti amo ancor più.

«Giulia.»

L’onorevole Sicuri non credette a’ suoi occhî... Rilesse nuovamente per convincersi di non aver errato... Alzò [295] lo sguardo alla tribuna della presidenza, come per aver un’affermazione di quella notizia che poteva essere una pietosa bugia; riconobbe l’amica, indovinò il di lei sorriso... Giulia salutava scuotendo leggermente il fazzoletto, raggiante di gioja.

La lettura del presidente continuava nel più profondo silenzio, appena turbato tratto tratto da qualche bisbiglio... Il nome del deputato accusato, De Respi, era stato pronunziato, e il documento assumeva il carattere d’una fiera requisitoria, che non doveva essere l’ultima, perchè il magistrato preannunziava nuove procedure contro altri deputati.

Gli articoli invocati del Codice penale erano il 168, il 63, il 171, il 172 ed il 204; ognuno dei quali comminava più anni di carcere.

Come un brivido di terrore, forse di pietà, corse per l’assemblea. Impressione profonda, terribile.

Terminata la lettura, i banchi, le gallerie si spopolarono.

Scena indimenticabile... Il deputato De Respi, il colpito dall’accusa giudiziaria, era rimasto solo al suo banco, in atteggiamento in apparenza impassibile, quasi sorridente. Si alzò, con mano ferma raccolse le carte, e fattone un plico, che mise sotto braccio, si dispose ad uscire. Ristette; nella di lui mente d’artista balenò forse un ricordo, come al narratore, che assisteva dalle tribune pubbliche a quel dramma: il plotone di fucilazione del maresciallo Ney, rappresentato dal pennello di Gérome... I soldati guidati da un’ufficiale, i quali, ad eccidio compiuto, se ne vanno riguardando con pietà paurosa la vittima inanimata, stesa al suolo bocconi. Così gli onorevoli, uscenti a frotte dall’aula, si volgevano al colpito dalla morte civile con sguardo pietoso ed impaurito... La solennità dell’esecuzione li aveva commossi.

[296]

Nessuno dubitava della di lui reità, per il rapido patrimonio ammassato, per la nomea di audace affarista; ma il collega così ucciso dalla spada della giustizia, che lo coglieva al sommo della popolarità, alla vigilia di afferrare l’ambito portafogli, era sì miseranda catastrofe, che atterriva... I complici suoi, minacciati anch’essi dal rigido magistrato, s’eran dileguati esterrefatti.

L’onorevole De Respi ristette e, portata una mano al cuore, come per uno spasimo improvviso, ricadde a sedere. Un coraggioso collega accorse a lui, l’esempio fu imitato da altri e, l’infelice, nell’ora fatale dell’espiazione, ebbe il conforto della generosa pietà anche di qualche avversario.

Di tutto ciò nulla aveva notato Giuliano, che, abbandonata l’aula, saliva alla tribuna della presidenza, onde ringraziare Giulia, ed effondere tutta la riconoscenza per l’amica devota, tutta la gioja per lo scampato pericolo.

L’emozione aveva spezzata la debole fibra. La lieta notizia, giuntagli tanto improvvisamente, il repentino passaggio dai dubbî accascianti alla consolante certezza della propria innocenza riconosciuta, avevan potuto più del supplizio sì lungamente durato; quando fu al limitare della tribuna, non resse e svenne stramazzando a terra, mal sostenuto dall’usciere, che, vedendolo barcollare, gli era accorso in ajuto.

Dai pochi presenti nel corridojo fu scambiato per il deputato De Respi... l’accusato.

La marchesa Giulia gli prestò le prime cure nell’appartamento della presidenza. Appena potè reggersi, Giuliano, ospitato nella carrozza della marchesa, fu ricondotto al di lui appartamento, preceduto da Ruggeri, avvertito dell’accaduto.

[297]

Divorato dalla febbre, fu posto a letto delirante. Febbre cerebrale, avea dichiarato il medico, sollecitamente chiamato.

Al capezzale, silenziosi, Giulia ed Ettore, che, avversarî fra loro, dall’amicizia e dall’amore erano stati riuniti nella stessa opera di carità. Entrambi testimonî dei vaneggiamenti del povero naufrago, da entrambi, con affetto sì diverso, egualmente amato.

Dei due afflitti, in quei momenti di ansia, sarebbe stata Giulia la più infelice, non udendo mai il proprio nome pronunziato dal febbricitante, il quale nel delirio non invocava che Adele; più infelice sarebbe stata, se Ettore non avesse portato in cuore ben altro tormento.

L’ultimo addio a Stella era stato dato sulla bara della madre.

Ultimo addio, senza speranza di ritorno. La morente aveva ribadito nel testamento il divieto alla figlia. Per ciò il notajo Invernizzi erasi mostrato a conoscenza dell’amore di Ettore, che avrebbe già portato oltre l’oceano la propria disperazione se l’amicizia per Giuliano non gli avesse imposto di rimanere, guida ed ajuto, nelle disastrose peripezie.

Dissi avversarî, Giulia ed Ettore... Non per antipatie personali. Ettore era l’amico della famiglia Sicuri; Giulia l’intrusa, che la felicità di quella famiglia aveva distrutta.

Giulia istintivamente indovinava tutta l’avversione che Ruggeri doveva nutrire per lei e lo detestava, protesta perenne contro l’amore di Giuliano, ad essa perenne rimprovero.

Entrambi al letto del delirante, egualmente solleciti nel soccorrerlo, non avevan discorso che a monosillabi e sempre per cose attinenti al loro mandato, alla loro missione di infermieri.

[298]

Il medico era ritornato a sera; la febbre era aumentata, il pericolo si aggravava. Giulia non si era allontanata dal capezzale che alla venuta del medico; quando se ne fu andato, rientrò nella camera del malato per chiedere premurosamente notizia del responso della scienza.

— Giuliano è sempre più aggravato; a me incombe l’obbligo di avvertire la contessa Sicuri... Sarà bene, quindi, ch’ella lasci il posto di suora a chi ha il dovere ed il diritto di occuparlo.

— Mi scaccia? chiese quasi supplicante Giulia.

— Non lo dica... La parola è dura e non risponde alla verità. Vi sono esigenze più forti della nostra volontà... Sarà mia cura mandarle notizie replicatamente ogni giorno. Ella deve comprendere che la contessa, già abbastanza infelice, non deve incontrarla qui.

Giulia non rispose; non aveva argomento da opporre. Solo argomento il suo amore, la ragione appunto per cui la di lei presenza in quella casa diveniva incompatibile. Lo comprese e chinò il capo rassegnata.

— Quando verrà la contessa? chiese, gli occhî pieni di lacrime.

— Non so... Le telegraferò ora... Domani certamente.

— Dunque fino a domani? Acconsente?

— Dovrei dirle di no. Fra poco la notizia della malattia di Giuliano sarà divulgata... I visitatori affluiranno... Ho data la consegna di non lasciar passare alcuno, eccezione per l’onorevole Lastri; ma una indiscrezione dei domestici... Se la contessa venisse a sapere che il suo posto era preso da lei...

Giulia asciugò gli occhî e lentamente, a ritroso, raccolse i suoi oggetti sparsi per la camera, il cappello, i guanti, l’ombrellino, l’enorme portafogli in lampasso antico trapunto, con lentezza, per ritardare di [299] qualche minuto la sua andata; assestò il cappello davanti lo specchio. Quando non ebbe altri pretesti a ritardare, posò sul tavolino da notte del malato una boccetta d’oro da sali, ricordo, della visita sua, e fattasi incontro a Ruggeri, il quale, ritto, ai piedi del letto, la considerava commosso, gli porse la piccola mano inguantata:

— Conto sulla sua parola, signor Ruggeri; mi mandi notizie tre o quattro volte al giorno... E... e, soggiunse, se la contessa non venisse, mi richiami.

Ettore promise... Giulia, riavvicinatasi al capezzale del caro malato, inchinatasi graziosamente, depose un lungo bacio sulla fronte infocata... Il malato si scosse, aperse gli occhî, fissò attonito Giulia, un sorriso gli sfiorò le labbra, e ricadde nel sopore.

— Mi ha riconosciuta, mormorò ad Ettore raggiante di speranza... Il medico si è ingannato... Si ricordi! Se non venisse, mi richiami... Il cuore mi dice che non verrà.

— Impossibile, replicò Ettore.

La marchesa uscì mandando ancora un saluto al suo povero Giuliano.

[300]

CAPITOLO XXI. Cospirazioni.

La marchesa si era apposta al vero; la contessa Adele non accorse alla chiamata di Ettore.

Le indiscrezioni dei giornali avevano prevenuto il di lui richiamo.

Che cosa non sanno i corrispondenti telegrafici di Roma ai giornali del mondo intiero?

Quando non sanno inducono, qualche volta inventano senza bisogno di induzioni, e spesso indovinano.

Non vi è polizia meglio fatta di quella dei reporters, che ne sanno sempre assai più e più sollecitamente delle questure internazionali... Quantunque concorrenti nella gara alla notizia, allo scandalo, all’incidente, sono fra essi legati da un certa solidarietà, mutuo soccorso nel comunicarsi reciprocamente le informazioni, subordinatamente all’ora dell’uscita dei rispettivi giornali.

Spedita la primizia al proprio foglio in tempo utile per l’edizione più prossima, la informazione, la notizia ed anche il canard inventato di pianta diventa di dominio pubblico nella sala della stampa, al palazzo di San Silvestro, grande cucina di manicaretti offerti alla pubblica curiosità affamata d’Italia e dell’orbe.

Appena divulgatasi la notizia del malessere sopraggiunto al deputato Sicuri, fu un via vai degli informatori giornalistici per attingere i particolari... L’usciere della tribuna della presidenza fu intervistato come un [301] grande personaggio politico. Si sapeva che il deputato era stato condotto alla sua abitazione nella carrozza della marchesa. Il portiere di Giuliano fu assediato... Per quanto discreto, non potè negare che la marchesa Giulia fosso presso il malato; la carrozza rimasta alla porta quasi l’intiera giornata ne era la prova evidente, e sui fili telegrafici, con ogni sorta di esagerazioni, correva la notizia che l’onorevole Sicuri era amorosamente vegliato dalla bella marchesa. Seguivano le iniziali. A seconda, poi del carattere del corrispondente, dell’indole del giornale, commenti, indiscrezioni, più o meno vere, più o meno fantastiche.

Lo sdegno della contessa Adele mutò in ira feroce, in odio. Ed alla chiamata di Ruggeri rispondeva:

«Ben altri doveri mi trattengono a Miralto: il mio bimbo malato, la povera Stella, la mia orfana, inconsolabile per la grande sventura... A Roma turberei gli amori di un uomo indegno che non ha più famiglia avendola ripudiata.»

Ruggeri non riconosceva in quella lettera la mite, affettuosa contessa. La donna offesa nel suo amore, nella propria dignità, aveva trasformato la dolce sposa in nemesi...

***

Mentre Giuliano andava migliorando, assistito ogni giorno da Giulia, ad onta delle proteste di Ettore, altro dramma politico svolgevasi, al quale la voce pubblica voleva ad ogni patto accomunare il nome di Giuliano.

Il deputato De Respi, il colpito dalla giustizia, era stato ferito a morte. Il mandato di comparizione del giudice aveva seguito immediatamente l’autorizzazione a procedere.

L’evidenza delle prove della di lui colpabilità non lo [302] indussero a confessare... Ma rientrato, disfatto dalla lotta impegnata col giudice, si metteva a letto per non più rialzarsi.

Il pubblico che non crede alla logica di certi scioglimenti, lo proclamò suicida, e vi furono i pietosi che lo compiansero vittima.

Il funerale fu sontuoso e celebravasi appunto il giorno nel quale Giuliano, convalescente, per la prima volta affacciavasi alla finestra.

Il corteo funebre si avviava alla stazione, la salma dovendo essere inumata nel cimitero del paesello nativo.

La banda municipale romana che precedeva il feretro eseguiva una marcia straziante, tutta lamenti e gemiti di dolore... Al defunto, strappato dalla morte all’azione della giustizia, rendevansi solenni gli onori ufficiali, dovuti ai rappresentanti della nazione... Il carro riboccava di corone. Le notabilità parlamentari lo seguivano, poi lunga fila di carrozze signorili, fra due siepi di popolo, più attonito che curioso. Attonito per quelle onoranze rese all’accusato da dieci giorni in balìa agli spietati commenti della stampa, alle rivelazioni schiaccianti di fatti innegabili, ormai dall’universale ammessi e condannati.

— Chi è morto? chiese Giuliano all’onorevole Lastri che lo reggeva al davanzale.

— Un disgraziato! Un’altra vittima dell’ambizione, della sensualità, della megalomania... Vittima, ma colpevole, ha espiato colla morte... Invochiamo l’oblìo sulla sua bara...

— Ma, chi? Chi è?

— Fu il deputato De Respi.

— Morto? Come? Suicida?

— Forse. I medici dicono aneurisma; il pubblico replica veleno.

[303]

Giuliano ancor debole si ritrasse come impaurito dalla finestra e s’adagiò su d’una poltrona soggiungendo:

— Sarebbe stato assai meglio anche per me morire così.

— Bravo! per accomunarti ai colpevoli, ai ladri. Che c’entri tu coi corrotti, coi corruttori?... Ti sei mangiato il tuo, hai fatto male; ma di ciò non devi render conto al pubblico... Se tu sapessi! Nel caso tuo ve ne sono cento alla Camera... Te l’ho detto: Montecitorio è un ammazzatojo di riputazioni, è un abisso per i piccoli patrimonî... Tu sei giovane. Hai l’avvenire per te, il tempo di riparare alle tue balordaggini.

— Giovane! L’avvenire... Ho perduto la famiglia... E non ho di che vivere.

— Si rimedia a tutto... Ritorna a Miralto...

— Impossibile...

Si coperse il volto colle mani, per nascondere le lacrime.

— Eravamo troppo felici!... soggiunse singhiozzando.

Da lungi gemevano, strazianti, gli ottoni... Lastri, non sapendo quale conforto porgere alla disperazione del giovane protetto, stette silenzioso scrollando il capo in atto di pietà.

Giuliano soggiunse:

— Partirò con Ettore, se mi vorrà compagno. Darò le dimissioni alla Camera.

— Oh, non ora! Sarebbero interpretate come una confessione di colpabilità... Un congedo... Poi, al tuo ritorno, che spero vicino, tutto sarà assestato... A Miralto, soggiunse sorridente, ti accoglieranno come il figliuol prodigo... Prodigo davvero, povero Giuliano!

«Ma l’avrai la forza di partire, di rompere ogni rapporto colla... colla marchesa?

[304]

Non rispose; vagava collo sguardo azzurro impaurito per la camera, tutta piena di cari ricordi... E quasi avesse fatto un esame di coscienza, un lungo esame:

— Spero di sì!

— La speranza bisogna tradurla in certezza. È necessario... La lontananza ed il tempo guariscono i più grandi dolori!

«Se saprete osare, potrete entrambi ritrovare la calma, se non la felicità. Per te anche la famiglia. È un dovere sacrosanto per entrambi.

— L’adempirò! mormorò Giuliano.

— Giuramento da marinajo, pensò Lastri...

Poi con amorevolezza che non si sarebbe potuta supporre nel ruvido, vecchio parlamentare:

— La musica è cessata, finalmente. Tra poco la salma di quel disgraziato sarà in viaggio. Il romanzo è finito. Quegli ha cominciato di te a rovescio... Anch’egli forse, come te, portava a Montecitorio illusioni e propositi generosi... Ma, povero, fu costretto alle prime transazioni da esigenze che, se potessero essere valutate sulla bilancia della rigida morale, varrebbero forse l’assoluzione.

«Sventuratamente, su quella via è soltanto il primo passo che costa... E le seduzioni sono tali e tante... tali e tanti gli esempî dei fortunati saliti in alto non per i meriti loro, per l’audacia e l’intrigo, che in quell’ospedale di malarici ch’è Montecitorio, l’onestà finisce col sembrare un fardello troppo pesante a chi vuol far cammino.

«E infatti, pochi gli integri che sono arrivati anche in tempi migliori, pochissimi quelli che arriveranno in seguito. Giuliano, il sigaro ti dà noja? chiese facendo pausa l’onorevole Lastri, per lasciar tempo all’amico di meditare su ciò ch’egli aveva detto, e tempo a prepararsi a ciò che stava per dirgli.

[305]

Il convalescente accennò col capo di no.

Chi fosse stato presente a quel colloquio avrebbe certamente ripensato al consulto del dottor Nero, di Alfredo De Vigny, al giovane nevropatico Stello. La Ragione e l’Imaginazione.

Giuliano, come Stello malato ed annichilito dai disinganni giovanili; il Lastri fisiologo freddo e stringente nelle sue deduzioni, quanto il dottor Nero.

— Quegli, continuò l’onorevole Lastri, povero, si arricchì ed al momento di afferrare pel ciuffo definitivamente la Fortuna che lo lusingava facendogli balenare imminenti i più alti onori, moriva suicida per salvarsi dall’onta di una condanna infamante.

«Tu, ricco, sei stato rovinato e per poco non sei morto disonorato. Ed ora che ti manca anche l’indipendenza, la felice indipendenza dell’agiatezza, vorresti ricominciare?

«Una buona idea ti è venuta; seguila, parti con Ruggeri... Riconquisterai al ritorno, colla famiglia, la felicità perduta... Spezza la catena infiorata di rose che ti costringe a Roma... L’odio della contessa Adele è amore... È l’ira dell’amore tradito... Te assente, nessun motivo di continuare negli atti legali per la separazione, vendetta della quale essa sarebbe la prima vittima. Credi a me! non si domanda la testa di un uomo indifferente, ed Erodiade non avrebbe voluta quella di Giovanni Battista, se non l’avesse pazzamente amato...

«Deciditi... Al ritorno, la calma nelle gioje della casa, che colla tua indole, col tuo carattere, non avresti mai dovuto abbandonare.

Giuliano, il capo rovesciato sullo schienale della poltrona, lacrimava assentendo.

— Lo prometti? riprese l’onorevole Lastri.

— Lo prometto! rispose con voce strozzata il malato.

[306]

— Sta bene... Lascia fare a me ed a Ruggeri. Sopratutto non una parola alla marchesa de’ nostri progetti. Essa, come sai, deve assentarsi alcuni giorni dovendo assistere al processo di divorzio intentato contro il marito.

«La tua malattia ritardò la sua partenza per Parigi... Ora deve inesorabilmente recarvisi, e tu non sei in istato di accompagnarla... Durante l’assenza vi imbarcherete. Ne hai il coraggio, te lo senti?

— Sì! rispose flebilmente Giuliano...

— È una trista azione, riprese Lastri, ne convengo... Necessaria! Ad estremi mali, estremi rimedî.

Giuliano assentiva senza poter staccare lo sguardo dal ritratto ad olio di Giulia, sorridente nella cornice dorata come nelle ore felici, per sempre trascorse... Assentiva baciando di soppiatto la boccetta d’oro di sali, ritrovata sul tavolino da notte al suo svegliarsi dai delirî della febbre.

Senza volontà nel vigore della salute, nello stato di debolezza in cui si trovava, Giuliano non sarebbe stato capace di opposizione alcuna. La sua volontà era quella degli altri; soggetto prezioso per uno studioso dei fenomeni ipnotici, ogni atto di lui era effetto di una suggestione estranea.

Se in quelle ore di sconforto, la contessa Adele non fosse stata trattenuta lontana dall’orgoglio ferito, Giuliano sarebbe forse ritornato a Miralto, senza rimpianto... La partenza della marchesa Giulia parve provvidenziale a Lastri ed a Ruggeri, che si lusingavano di aver causa vinta. Strapparlo alla politica ed all’amore di Giulia era salvarlo.

***

Gli addìi della marchesa furono tristi, anch’essa era punta da un presentimento... Ma, l’assenza doveva essere [307] sì breve, otto, dieci giorni al più... Lastri e Ruggeri diffidando del loro malato, ebbero cura di non lasciarli soli... Però Giuliano mantenne il silenzio coll’amica sulla cospirazione ordita. E Giulia partì.

— Quel tuo Giuliano mi ha fatto commettere la cattiva azione più grossa della mia vita, diceva Lastri all’amico Ruggeri, al ritorno dalla stazione ove erasi recato a salutare la marchesa. La buona intenzione non attenua nulla. Ci ho il cuore grosso. Ingannare come abbiamo fatto quella gentile creatura tutta amore e devozione fu un delitto.

— Lo sarebbe se non si trattasse della pace di una famiglia, di ridare il padre ad un orfano.

— Quel che vuoi! Ma la marchesa partendo ci guardava con certi occhî, dubbiosi e supplicanti ad un tempo, che io ne ero commosso... Non lo dimenticherò mai più quello sguardo e quel sorriso che pareva pianto. L’abbiamo ingannata, poveretta, come de’ veri malfattori.

«Mondaccio birbone, quello nel quale bisogna mentire, ingannare anche a fin di bene!

[308]

CAPITOLO XXII. In mare!

La marchesa Giulia giungeva da Parigi alla stazione Termini di Roma alle 7 del mattino. Quanto le eran sembrati lunghi i dodici giorni d’assenza, e quale supplizio le trentacinque ore del viaggio, nell’ansia, nell’impazienza di arrivare. La velocità vertiginosa del treno direttissimo, lentezza da tartaruga. Avrebbe voluto aver l’ali per giungere più presto.

I presentimenti neri che l’avevano accompagnata da Roma a Parigi, ormai erano giustificati. Da sei giorni non aveva ricevuto un solo saluto di Giuliano, non una risposta ai telegrammi, alle lettere innamorate; da sei giorni, ora per ora, senza interruzione inviati.

Che era mai avvenuto? La contessa Marcellin, interpellata urgentemente, non aveva saputo telegrafarle altro che Giuliano s’era assentato da Roma, assenza certamente breve, perchè non le aveva neppur fatta la visita doverosa di congedo. Prima della partenza da Parigi, Giulia aveva prevenuto l’amico dell’ora dell’arrivo; aveva ritelegrafato da Modane, da Torino; ritenevasi certa di incontrarlo alla stazione.

Quale disinganno quando, affacciatasi ansiosa allo sportello dello sleeping-car, non scorse fra gli aspettanti sotto la tettoja nessun volto amico: solo il domestico gallonato, che premurosamente le si fece incontro per ajutarla a scendere, a raccogliere il bagaglio.

[309]

— Il conte Sicuri?

Il domestico, meravigliato, atteggiò la fisionomia ad interrogante.

— È forse nuovamente ammalato?

— Non lo so, signora marchesa... Qui alla stazione non l’ho veduto.

Ricordando la manìa di Ruggeri e le di lui immancabili visite mattutine alla stazione, Giulia sperò vederlo... Ruggeri quel mattino era venuto meno alle sue abitudini.. I viaggiatori eran già tutti usciti... Ormai vana l’attesa.

Salendo in carrozza, la marchesa diè ordine di fermarsi alla vicina abitazione del conte.

Era là che la più triste sorpresa aspettava l’infelice Giulia.

La marchesa scese dalla carrozza precipitosamente, e rivoltasi al portiere intento a scopare, che riconosciutala si era messo alla posizione militare:

— Il conte Sicuri?

— Il conte Sicuri, signora marchesa? Non lo sa? Non abita più qui.

— Non abita più qui? ripetè atterrita la giovine donna.

Con voce strozzata dall’emozione soggiunse:

— Dove è andato ad abitare?

— Partito!...

E le additò un cartello affisso all’ingresso del portone col tradizionale Est locanda.

— Partito?

Si sentiva morire, le gambe non la reggevano, dovette aggrapparsi alla rampa della scala... La vertigine. Un singhiozzo le uscì dal petto:

— Partito!

Con uno sforzo sovrumano tentò dominare l’emozione, [310] per chiedere, per informarsi, per sapere, sapere tutto; ma impossibile... Il portiere, che sospettò la tempesta agitantesi nel cuore della signora, le offerse una seggiola e la invitò a sedersi dietro il suo casotto vetrato, affinchè i passanti non potessero vederla.

— Si sieda, eccellenza... Se avessi saputo, non le avrei detto... Scusi... Ma io credevo... Ora si tranquillizzi...

Essa lo guardava supplichevole; sentiva che se avesse pronunziata una parola sarebbe scoppiata in pianto, e invitavalo a parlare collo sguardo.

— Il signor conte è sloggiato dieci giorni fa, in fretta e furia; i mobili furono imballati e spediti non so dove... Ho ordine di mandare alla Camera tutta la corrispondenza, i giornali che arrivano all’indirizzo del signor conte.

«Veda, ve ne sono qui due, di telegrammi, l’uno arrivò jersera, l’altro stanotte...

E presentava a Giulia i due dispacci.

Questa, ancor prima che il portiere potesse opporsi, lacerò la parte ingommata del piego, impaziente di saper di più; nella speranza di aver indizî, qualche indicazione, l’aperse e lesse:

«Giungerò domattina 7.34... attendimi stazione...»

«Giulia.»

Ironia feroce! Gettò il foglio e stette muta, annichilita, incerta sulla decisione da prendere, incapace di una risoluzione; le lacrime le rigavano il volto; non potendo singhiozzare si sentiva soffocare.

— Partito! Fuggito! Certamente a Miralto! Povera me!

Al pensiero di essere abbandonata da Giuliano, non [311] si era mai soffermata. Negli impeti più acuti di gelosia aveva bensì, qualche volta, momenti di rimorso, di dubbio, di scoraggiamento, intraveduto il pericolo della venuta in Roma della contessa Sicuri, pericolo possibile, non probabile ormai, e Giulia nella coscienza del fascino su Giuliano si tranquillava, certa del predominio sulla rivale... pur ribellandosi all’idea: del partage... Avrebbe lottato, avrebbe vinto!

Ora, non lotta possibile, il tradimento, l’abbandono!

— Non mi ha amata mai... Bastarono sei giorni... Che dico! due giorni d’assenza, e mi fuggiva coll’inganno... La sua ultima lettera era tutta amore. Presentimenti tristi... Ma quando si ama, chi non è turbato al pensiero dell’avvenire? I presentimenti suoi erano menzogne... Partirò per Miralto! L’ho a me richiamato una volta, perchè non ora?

E l’orgoglio offeso di Giulia protestava.

— Mendicare nuovamente amore, mentre egli, il miserabile, rifugge da me? La vendetta!

«Quale vendetta? se io l’amo, l’amo come una misera pazza?

Una risoluzione! Asciugato il pianto, risalì in carrozza.

— Alla Camera dei deputati!

Alla posta della Camera avrebbe avuto l’indirizzo di Giuliano... E l’ebbe. Non Miralto. Napoli, Hôtel Royal des Étrangers!

Un raggio di gioja, di speranza, balenò nella mente ottenebrata della marchesa.

— Napoli! Dunque non mi ha abbandonata per la contessa... Napoli! A che fare a Napoli? Ah!

«Indovino tutto... Per partire con Ruggeri... Partire! La vedremo, signor Ruggeri! Non mi fa paura! Se non fossi più in tempo?.... Se fossero partiti?

[312]

Risalendo in carrozza, lanciò al cocchiere l’ordine:

— Alla stazione! presto! presto! Alla carriera, urlò la marchesa al cocchiere che non era partito abbastanza sollecito.

— Per Napoli? Il treno per Napoli, chiese Giulia febbricitante all’inserviente ferroviario.

— Ora! signora. Solleciti; alle 8.20... Fra dieci minuti, soggiunse dopo aver data un’occhiata all’orologio.

Il domestico riconsegnò il bagaglio ai facchini, e per ordine della signora che le porse un biglietto da cento si affrettò allo sportello

— Un primo Napoli.

Dopo dieci minuti il treno partiva, troppo lento per Giulia, torturata dagli spasimi dell’impazienza.

***

A sera, quando giunse la cameriera di Giulia, partita da Parigi col grosso bagaglio nel treno successivo a quello preso dalla sua signora, a sera la cameriera, riferendo alla contessa Marcellin, inquieta di non aver veduta la nipote, sorpresa dal nuovo viaggio da essa intrapreso, diceva:

— Ah, contessa, la mia signora è impazzita! Avevo ordine di raggiungerla a Torino, ove mi avrebbe aspettata, e non vi si è neppure fermata... Giungo a Roma, ed è ripartita.

— Per quell’imbecille, pensò la contessa, punta da rimorso. La colpa è mia! Maledetta la sera che ho fatto licenziare la carrozza di Giulia. Chi poteva sapere che si sarebbero tanto presto combinati, e che la loro relazione avrebbe presa la piega tragica che quella matta di Giulia le ha data? Volevo farne un sottosegretario di Stato, invece ho appioppato a Giulia un fallito.

[313]

Nella più grande inquietudine scrisse al commendatore Cerasi, perchè mettesse la polizia di Napoli in moto e le mandasse notizie della sua Giulia.

***

Destino? Fatalità? Provvidenza? Se la marchesa Giulia si fosse arrestata a Torino per attendervi la cameriera come era stato suo primo pensiero, sarebbe giunta a Napoli troppo tardi, e l’epilogo di questo triste racconto sarebbe stato tutt’altro. Il piroscafo della Orient Line salpato per Plymouth-Londra e la marchesa, novella Didone, avrebbe invano richiamato l’amico attraverso la immensità dell’oceano.

Giulia giunse all’Hôtel des Étrangers in uno stato indescrivibile... Pazza, veramente pazza...

— Il conte Sicuri?

— È in casa...

— Il numero della sua camera?...

— Se la signora desidera vederlo, dovrà avere la pazienza di attenderlo in sala di ricevimento.

— Come vorrete... Aspetterò, ma chiamatelo subito.

— Chi devo annunciare?

— Inutile il nome. Dite che una signora l’attende per cosa urgente.

Condotta alla sala di ricevimento, le forze, che nel parossismo l’avevano sostenuta, vennero meno... Cadde più che non si sedesse su d’un divano, in preda ai dubbî più atroci...

— Se Giuliano fosse sordo alle mie preghiere! Se resistesse? Se la decisione fosse irrevocabile... Oh misera me! Misera me! La vendetta? E come? Ucciderlo, suicidarmi poi...

[314]

Giuliano entrò, Giulia mandò un grido e si slanciò nelle sue braccia, rompendo in pianto.

Finalmente poteva piangere e l’angoscia che la soffocava si mutò in gioja suprema... Aveva il suo Giuliano fra le braccia, e nessuno, nessuno al mondo, ormai, avrebbe potuto rapirglielo.

Non una parola, singulti e scoppî di risa.

Giuliano, commosso, respirava a larghi polmoni ne’ capelli bruni di Giulia il profumo inebbriante; anch’egli era felice, anch’egli in quell’istante di delizia infinita era muto, e serrava forsennato alla vita l’elegante, flessuosa personcina dell’amante, come se avesse voluto spezzarla nell’abbraccio furente.

Una vecchia dama inglese, che inavvertita stava nella penombra, in fondo del salone, a quell’amplesso un po’ troppo espansivo e sconveniente in quel luogo, sorse scandalizzata... Pensando poi che in quella sala pubblica, dalle porte vetrate semiaperte tanta affettuosa espansione non poteva essere che legalizzata e santificata, sorrise compiacente a tanto affetto ed uscì tossendo per avvertire gli sposi, incontratisi certamente dopo lunga separazione, della sua presenza... Uscì senza pur mormorare il minimo shocking, pensando invece:

— Quanto sanno amarsi gli italiani!

E riguardò benevola, chiudendo con fracasso la porta, secondo avvertimento a Giuliano, che si svincolò, susurrando nell’orecchio di Giulia:

— C’è gente che ci osserva.

— Che m’importa? disse Giulia. Ti amo!... Non partirai. Non è vero che non partirai?

— No! no, non partirò... A te, per te, con te, oggi e sempre! Perdonami, ero tanto infelice!

— Se ti perdono! Ho sofferto, sai, ho sofferto l’inferno... [315] Ma ti perdono perchè ti amo, perchè, ormai, sono certa del tuo amore.

Ed abbracciò nuovamente l’amico, mormorando:

— Sempre!

***

Quando Giuliano bussò all’uscio della camera di Ettore, nessuno rispose.

Questi credendo che il compagno fosse nel salotto attiguo, aperse senz’altro l’uscio e con sorpresa vide l’amico curvato sul letto, il volto nascosto nel guanciale, il capo fra le mani, atteggiamento da disperato.

— Ettore! Ettore! gridò Giuliano allarmato... Che hai?

Ettore si rizzò sorpreso, la fisionomia sconvolta, contraffatta come da una grande sofferenza fisica.

— Chi è là! urlò, senza riconoscere Giuliano. Dopo un istante:

— Ah, sei tu?

— Ettore, che hai? Tu sei malato?

Questi, rimettendosi:

— No! non è nulla... Un capogiro. Ora tutto è passato... La fatica di questi giorni... Ho scritto troppo... Poi l’imbarco di tutto il materiale... Non è nulla, ti dico! soggiunse imperiosamente, allo scuotere del capo di Giuliano in atto di incredulità.

Poi per divergere il discorso:

— Hai tutto preparato? Ci imbarcheremo stasera alle 8. Il vapore salperà alle 10.

Giuliano non rispose; non sapeva come avvertire l’amico della sua nuova decisione... Stette titubante...

— Dei nuovi dubbî? Nuove indecisioni?

— Sì... Giulia è arrivata; impossibile partire.

— Giulia arrivata? Impossibile partire? Ma ci pensi? [316] Le tue promesse? I tuoi propositi? L’annunzio del tuo viaggio?

— Non insistere... Ti dico, che è impossibile...

— Impossibile? È necessario! urlò Ettore sdegnato, percotendo col pugno lo scrittojo al quale si era appoggiato. Miserabile! saresti capace anche di questa viltà? Che si dirà di te? Sarai il ridicolo di Roma, come già per poco non ne fosti il ludibrio.

Giuliano non rispose, il furore dell’amico era giustificato, lo sentiva; ma sentiva pure che di distaccarsi nuovamente dalla marchesa non aveva il coraggio...

Si ritirò dicendo una menzogna:

— Hai ragione, ci penserò, vedrò di persuaderla...

***

A sera, quando Ruggeri si recava all’Immacolatella per imbarcarsi, Giuliano viaggiava per Roma coll’amica...

Quest’ultimo abbandono rattristò profondamente Ruggeri, già tanto infelice. Partiva colla disperazione in cuore.

Il giorno innanzi, mentre affaccendato nella sua camera d’albergo stava facendo gli ultimi preparativi al lungo viaggio, il fattorino gli aveva portato un pacco postale recante il timbro di Miralto.

Indicibile l’emozione provata pensando fossero le sue lettere rinviategli da Stella.

Non osava aprirlo, il coraggio gli veniva meno. Aveva troppo sofferto, troppo soffriva.

Presa una decisione eroica, l’aperse. Le sue lettere infatti ed un involto in un fazzoletto bianco di seta allacciato da un nastro nero. Sciolse tremante il nodo.

Un grido di sorpresa, di dolore. Le due lunghe, lussureggianti treccie brune di Stella, barbaramente recise, ultimo ricordo, ultimo saluto di suor Maria.

[317]

Suor Maria! così era firmata la lettera della fanciulla, lettera straziante nel laconismo sublime.

Ettore impazziva.

Dapprima, come un senso di gioja nell’egoismo d’amante, nella certezza che Stella non sarebbe stata d’altri mai, fedele alla promessa, ai giuramenti; ma la gioja brutale fu soffocata dal rimorso...

— Povera Stella! Sepolta viva in un convento...

E cadde ginocchioni piangendo sulle treccie nere che andava coprendo di baci.

— È troppo! È troppo!

L’idea del suicidio gli balenò per la prima volta.

— Io morto, essa sarò sciolta da ogni voto; potrà ritornare alla vita, essere forse felice.

Anche Giuliano l’abbandonava... Troppi, troppi sconforti, troppi disinganni, troppo dolore. La sua esistenza non aveva più scopo.

***

Il maestoso piroscafo dell’Orient Line navigava veloce nell’Atlantico. La notte serena, il mare tranquillo, miriadi di stelle in cielo, scintillante il mare, specchio all’infinito azzurro.

A bordo, silenzio profondo, la respirazione affannosa della macchina, il friggìo monotono dell’acqua spumeggiante, tagliata dalla prua acuminata della nave, frullata dal roteare dell’elica, null’altro.

Quando un tonfo ed un grido da poppa:

— Un uomo in mare!

— Un uomo in mare! ripeterono gli uomini di quarto...

L’elica si arrestò come per incanto; i marinaî accorsero solleciti sbucando dai boccaporti di prua, a guisa di ombre da’ sepolcri scoperchiati.

[318]

Le imbarcazioni furono calate, per due ore una ricerca affannosa, senza risultato.

Ettore non era più... Degna tomba l’oceano all’immensità del suo dolore.

***

L’inchiesta di bordo appurò che il suicida si era a notte recato in macchina ed aveva gettato alle fiamme un fascio di carte. Le sue, le lettere di Stella.

Lasciava un piego per il deputato Lastri. In quel piego una lunga lettera alla contessa Sicuri, madre adottiva di Stella; l’ardente preghiera di strapparla al chiostro.

***

Un poscritto diceva: «Le lettere alle fiamme; le care treccie della mia Stella adorata, con me nelle profondità dell’Atlantico.»

Alla notizia del triste dramma il commendator Cerasi ebbe una lacrima. Fenomeno incredibile di sensibilità nel lungo funzionario.

Parlando poi del ritorno di Giuliano alla contessa Marcellin, esclamò:

— Volevamo farne un uomo di Stato e non abbiamo fatto che un Monsieur Alphonse...

«Prima di creare dei deputati, in avvenire, mi garantirò ben bene del colore dei loro occhi.

«Quegli occhî blu furono fatali!

FINE.

[319]

INDICE

Capitolo    
I. Partenza! Pag. 5
II. Finalmente solo! 17
III. In viaggio 29
IV. Roma! 38
V. Il sottoprefetto Cerasi e l’amico Ferretti 45
VI. Un racconto di Poe 62
VII. A Belvedere 74
VIII. Da Roma a Miralto 90
IX. Un dietroscena politico 112
X. Eros 127
XI. Nella bolgia 145
XII. Intrighi e amore 160
XIII. La seduta reale 179
XIV. Intermezzo 195
XV. La farmacia 210
XVI. Delusioni. — Tristezze 223
XVII. Il crack 237
XVIII. I due voti di Stella 250
XIX. L’interpellanza 273
XX. La bufera 289
XXI. Cospirazioni 300
XXII. In mare! 308

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ONOREVOLE ***